Il recente testo di Toro, L'enigma Parmenide. Poesia e filosofia nel proemio, edito da Aracne, presenta, a mio sommesso parere, almeno tre elementi di cui tutti noi dovremmo tenere conto, in modo particolare coloro i quali si improvvisano grandi e profondi conoscitori della filosofia antica, e su internet ve ne sono tanti - uno dei deprecabili effetti del web 2.0, così decantato al di là della facile retorica -.
(immagine tratta da: http://www.deastore.com/covers/978/885/483/batch3/9788854837560.jpg?1294704304)
Di quali elementi parliamo? Prima è bene, però, precisare la natura del presente post. Lungi da me, infatti, qualsiasi intento risolutivo o davvero innovativo. Intendo solamente dare alcune informazioni, che reputo rilevanti ai fini teorici, ai "naviganti", e, più nello specifico, elementi inerenti alla filosofia parmenidea.
Inoltre, penso sia scorretto chiedere ad un post su blog qualcosa in più di una edulcorazione, nel senso buono del termine - quale citazione o commento o glossa o riassunto o interpretazione o recensione può presumere di non alterare il senso originario di un'opera?
Detto questo, precisato a scanso di facili, quanto sovente "voluti", equivoci sulla natura della mia presenza on - line, vediamo insieme quali siano questi tre elementi.
Innanzitutto, la reale natura del poema, giuntoci monco e molto parziale, Sulla Natura - ma questo è un titolo molto comune nelle prime opere di filosofia antica - Si tratta, come normalmente si pensa, di un'opera ontologica? Secondo Di Toro, questo è un giudizio frettoloso quanto parziale dato che non tiene conto della seconda parte dell'opera la quale non parla affatto di 'enti' o di 'essere', ma di cosmo, stelle e pianeti. Questa vexata opinio è, allora, destituita di ogni fondamento se la si considera alla luce della seconda parte dell'opera di marcata impostazione "naturalistica". Questo, da solo, basterebbe a far sorgere un'altra questione, differente ma connessa: come conciliare, allora, le due parti? La polvere del tempo, però, ahinoi, non consente di dare adeguata risposta, al massimo si possono formulare delle ipotesi, ma nulla di più.
In secondo luogo, quel è la reale natura della dea che accoglie Parmenide, novello profugo della ragione, al suo cospetto per confortarlo sulla bontà del sentiero intrapreso? Questa informazione va comparata con l'assenza, da parte dell'eleate, di un elemento del modulo stilistico epico adoperato dato che manca un'invocazione alle Muse, una richiesta d'aiuto nei loro confronti. Al massimo, si parla di "ancelle" o di "fanciulle del Sole", le quali, però, non svolgono mai un ruolo attivo, al massimo Parmenide le incrocia disseminate lungo il viale che lo conduce al cospetto della dea. Una divinità peraltro mai nominata, anonima, priva di ulteriori connotazioni e, quindi, differente da tutte le altre divinità del Pantheon greco ... una dea innominata ... come mai? Al termine di una lunga dissezione dei frammenti parmenidei, Di Toro conclude che trattandosi di una narrazione, che emula lo stile epico, abbiamo a che fare con delle metafore, innovative rispetto al periodo in cui Parmenide scrive: non v'è alcuna dea né alcun viaggio. Siamo, cioè, in presenza di una narrazione metaforica, la dea altri non è che Parmenide stesso (p. 113), la "maschera" in virtù della quale può ricapitolare il percorso di ricerca seguito. E il protagonista, a sua volta, è un sapiente che fida solo nelle sue capacità razionali onde poter venire a capo dell'enigma sensibile.
Se così fosse, diventerebbe chiaro come mai la dea, pur in presenza di un contesto misterico - iniziatico, non riveli nulla al fedele giunto presso di lei, nessuna conoscenza segreta, alcuna rivelazione. Quanto gli dice, Parmenide lo sa già: esistono due vie, l'una che è, e l'altra che non è, da quest'ultima è preferibile distogliere il passo dato che non conduce a nulla, del non - essere, infatti, non si può né dire né pensare, a differenza di quanto, invece, fanno i comuni mortali, gente dalla doppia testa per i quali uguali restano essere e non - essere ...
Ultima informazione, ma non in ordine prefissato, d'importanza o di cronologia: perché Parmenide adopera lo stile dell'epos? Secondo Di Toro ciò avviene per ragioni comunicative: dovendo, e volendo, esporre un contenuto lontano dalle consuetudini greche del tempo, Parmenide sceglie uno stile noto ai suoi concittadini per comunicare, al di sotto di una fitta trama di metafore e simboli, la sua "verità". Quale? Il sapiente è condotto lungo un sentiero, a compiere un viaggio in virtù del quale poter conseguire il "retto discernimento delle cose della realtà" (p. 160), pervenire, così, alla vera conoscenza, al di là dell'opinione fallace dei mortali. L'esposizione di un vero e proprio metodo - si noti l'analogia tra la strada, odos, e il metodo, metà to odos, lungo la strada - che consenta di "guadagnare un nuovo spazio speculativo per il quale non esiste nulla [...] oltre ciò che esiste internamente al Tutto" (p. 167).
Il testo è di facile lettura ed offre spunti certamente interessanti. Lo consiglio vivamente a tutti color i quali desiderano confrontarsi con ipotesi ricostruttive dotate di un certo peso.
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