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martedì 30 aprile 2013

Orrori linguistici ...


Improvvisamente una rappresentante di classe prima mi chiama e mi chiede, in maniera un po' sbrigativa, a dire il vero, di presentare al Vice - Preside la loro richiesta di autorizzazione per effettuare un'assemblea di classe. Prendo in mano il foglio, a quadretti, sgualcito e spiegazzato qua e là, e noto che la richiesta è per il giorno seguente. Lo faccio presente e mi viene risposto che non hanno avuto tempo per presentarla prima (sic!). Acconsento e mi reco dal vicepreside, d'altra parte in calce al foglio ho già scorto le firme dei docenti interessati, nelle cui ore si svolgerà l'assemblea, i quali hanno dato il loro assenso. Il Vice - preside mi chiede invece, con mia sorpresa, di far ri - scrivere suddetta richiesta. Come mai?, chiedo ingenuo. Mi viene offerto in graziosa lettura il documento e leggo quanto seguo (con omissis per ovvie ragioni):

"Al dirigente scolastico dell'*************
I Rappresentanti della classe ** ********  ******, dopo aver sentito alcune compagni chiedono un'ass'emblea di classe per il giorno ***** per alcuni motivi:

1) Attività di laboratorio
2) Comportamento scoretto della classe
3) Vari ed eventuali"

Ovviamente, ho fatto ri - scrivere la presente domanda, dovendola, ahimé, dettare personalmente perché loro insistevano nel dire che andava bene così com'era (e d'altra parte era già stata sottoscritta da dei docenti ...), ma voglio qui comunque esprimere, sia pure romanzandovi sopra volutamente, le mie considerazioni personali.

Un improvviso vento tanto gelido quanto impetuoso sconquassa la mia colonna vertebrale ... quale orrore linguistico hanno partorito queste adolescenti e fervide menti? Ma sanno cosa sia la concordanza? A leggere la domanda sembra proprio di no (alcune/compagni; vari/eventuali) ... ma a sconcertare di più è l'asse grammaticale (per tacere di quello semantico) ... come si fa a scrivere 'scoretto'? E poi la perla: 'un'ass'emblea'!!!! Orripilante!!! 


Vero che la lingua si evolve, ma vorrei tanto sapere in quale direzione ... 


E penso anche ai colleghi che l'hanno sottoscritta ... l'hanno letta prima? Temo di no ... 


Poi sorvoliamo pure, quanto volutamente, sulla forma espressiva, molto vaga ed imprecisa ...


Improvvisamente, però, un nuovo brivido mi percorre dalla testa ai piedi: ma cosa scriveranno questi qua nelle prove INVALSI? 


Lascio al vento di scirocco queste considerazioni e relative preoccupazioni: qui la scuola non si sa nemmeno cosa dovrebbe essere!



(immagine tratta da: http://quelcheviene.files.wordpress.com/2013/03/errore-404.jpg)

sabato 27 aprile 2013

What happens, deontic logic?



Since 1951 Deontic Logic, founded by Georg Henrik von Wright1, a finnish logician and

philosopher, Wittgenstein’s scholar, showed its particular attitude to serve many branches of

philosophical research, from the logic to the law2.

Despite it actually the things are not so and the reason is simple: deontic logic only captures our

normative intuitions, moral underlying structure of our language 3, but nothing more. And the reason

of this is clear. In fact, deontic logic was born as a particular logical treatment of non – assertoric

propositions, an result by recent logical neopositivism4. There exists a tension between formal

theory and the language5, notably practical language. But this doesn’t prevent to formalize

normative uses of the language.

It seems to me that it’s a useful tool for analyzing the normative uses of moral language, what we

use to express normative sentences or commands, forbids and so on … Perhaps the same normative

stances that we use in law.

So, I wish to describe in this paper what can deontic logic do for a particular branch of law:

computer applications to it. At all, I think about the deontic logic as a tool for computer law, even if

there are many difficulties that must be considered before to go beyond.




COMPUTER LAW




Since 1949 Information Technology had a great influence on Law, not only on the study of Law,

but on the Law’s applications too. In fact, it appeared immediately how it’s important to upgrade

the Law to new developments of human history.

Loevinger first proposed to use a new term, Jurimetric, for this new field of Law, today well

known as Computer Law6. Probably, he thought of computers as possible tools for teaching law (i.e.

law’s learning) or to solve some tasks (i.e. records of cases).




(here full article)

venerdì 26 aprile 2013

Tramonto della Prima Repubblica

"La lunga agonia della prima Repubblica ricordava ad alcuni gli avvenimenti che si erano svolti cinquant’anni prima, nel 1943. Ma il sistema politico che stava finendo non era stato un regime, come appariva evidente proprio se lo si paragonava al solo regime che c’è stato in Italia, quello fascista […] La crisi del sistema politico, inoltre, nasceva dal suo interno, per le difficoltà intrinseche di funzionamento dovute al suo invecchiamento […] In nessun modo, in realtà, il tramonto della prima Repubblica poteva essere paragonata al crollo del fascismo"

(A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 347)


Il discorso di Lepre fila liscio, almeno in apparenza.


Solo che, a mio sommesso parere, non trovo altra manifestazione storiograficamente più equivoca della presente, forse molto più della Morte della patria di Della Loggia.


Il problema, si badi, non risiede nell'accostare il biennio 1992 - 1994 al biennio 1943 - 1945, essendo un'ipotesi di ricerca può starci benissimo, ma nell'invertire la normale dinamica storiografica (dal presente verso il passato) e nel considerare, di conseguenza, il '92 uno spatiacque epocale tra un "prima" e un "dopo", tra la cosiddetta Prima e la cosiddetta Seconda Repubblica.


Parlare di tramonto della Prima Repubblica, per suadente e persuasivo che possa essere, non lo nego, è quanto meno fuorviante: quando mai è tramontata qualcosa come la Repubblica Italiana in quegli anni?


Eppure, pensiamo, anche solo per un attimo, alla mole di opinioni e miti simbolici che vi si sono costruiti sopra ...



Ecco, Lepre offre il fianco, a mio sommesso parere, a quella costruzione simbolica che in altri post ho identificato come l'equivoco del '92!


Il volere, a tutti i costi, vedere in tali anni un mutamento che di epocale ebbe ben poco, equivocando tra normali flussi storici congiunturali e svolte definitive.



Una seria riflessione al riguardo, invece, dovrebbe far giustizia di tali deviazioni e di tali processi culturali i quali, mi pare abbastanza chiaro, vennero messi in pratica in cerca di "sponsor" nascenti proprio in quegli anni.


Come a dire che la "domanda" di storia, così come di cultura, non è mai libera, almeno non del tutta.


Questi post, invece, sì.



(immagine tratta da: http://img3.libreriauniversitaria.it/BIT/240/713/9788815097132.jpg)

giovedì 25 aprile 2013

Norme ... istituzioni ... logica ...



"norms are facts of social and individual reality. They cannot be seen as physical objects, but they are effective elements of human life and important determinants of the condition humana. We say that norms which play an actual role in human life are institutionalised. They are realities, not only thought objects"

(O. Weinberger, The Language of Practical Philosophy, “Ratio Juris”, 3, 2002, p. 292)



Come dare torto a Weinberg?



I fatti sociali non sono oggetti naturali, pur essendo dotati di una certa fisicità.


Essi sono elementi effettivi, e fattivi, nel senso che esplicano un'influenza importante sulla nostra esistenza, della condizione umana.


I fatti sociali che pongono in essere delle istituzioni, ossia una regolazione normativa e culturale della vita umana, sono delle norme.


Le norme sono reali, e non solamente degli oggetti di pensiero.


Ma essendo realissimi, e non solo frutto delle nostre elucubrazioni, a quale "logica" rispondono?



(immagine tratta da: http://www.jurisdynamics.net/files/images/RatioJurisJournal.jpg)






Alessandro Pizzo

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martedì 23 aprile 2013

Oh, mio troll!

"Gentile utente,
il portale ******* non è al momento disponibile a causa di problemi tecnici.

Stiamo lavorando per il ripristino della corretta funzionalità nel più breve tempo possibile.

Ci scusiamo per il disservizio"


Questa la schermata restituita dopo intensi e lunghi attimi di caricamento della pagina.


Questo il responso infausto sull'incerto e precario veleggiare dei naviganti.


Questa la diagnosi certa, priva di prognosi sicura.


E quando la società dell'informazione ti tradisce, resti solo in mezzo al mare dei bit!




Non c'entra nulla, ma dà da pensare l'ultima pia illusione politica: la politica 2.0! Quella fatta via webcam e tastiera, quella dei forum e dei blog, quella dei sondaggi, delle quirinarie e delle facezie simili ... 


.... una neanche tanto sofisticata carineria che fa l'occhiolino ai più giovani, ai più esclusi dal godimento attuale dei diritti, civili, politici e sociali che siano! Tanto oramai il virtuale ha soppiantato il reale, il sociale è divenuto social, orrido neologismo che rende pallidamente l'idea della progressiva estraneazione di tutto quel che è reale dalle nostre mani ...


Lontano dagli occhi, lontano anche dal cuore? Ma non era l'esatto contrario il significato della metafora della rete? Essere wired, connessi, vicini nella lontananza, come se si fosse vicinissimi ...


E quando la tecnologia semplicemente cessa di funzionare, che fine fanno i sogni?


Tornano ad essere semplicemente quel che erano: sogni; non realtà!


Ma il loro pubblicizzarli, ben al di là delle loro concrete possibilità, dà da pensare: come vendere un prodotto (senza garanzia)!


La politica 2.0 sembra già morta, il sito istituzionale non risponde ed io mi sento solo, ancor più lontano di prima!


Ma in realtà sognavo, non c'è stato alcun tradimento, alcun fallimento, alcun brusco risveglio dai pii sogni. E' stato un golpe, un furbo golpettino, un imbroglio, un elenchòs direbbe Ulisse, maestro nel girovagare per mari e nell'ingannar, un troll degli stercorari digitali ...

E se lo dice chi di troll se ne intende, forse, c'è da credergli ...

post scriptum


non me ne abbia la feconda cultura norvegese, ma i Troll non sono affatto i giganti trasformati in pietra dal sole, ma sono anonimi e frustrati cittadini italiani che non avendo nulla di meglio da fare vanno in giro (pardon, in rete) ad intasare i siti e i blog altrui!



(immagine tratta da: http://www.troll.it/Upload/articoli/zoom/257.jpg)




Alessandro Pizzo

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lunedì 22 aprile 2013

Cosa v'è da aggiungere?

Rileggiamo quanto i "saggi" ci dicono:

"dalla prospettiva logica vediamo che i valori e le norme etiche sono proposte […] e non proposizioni indicative. L'etica non descrive; essa prescrive. L'etica non spiega; essa valuta. Difatti: non esistono spiegazioni etiche, esistono solo spiegazioni scientifiche. Esistono spiegazioni scientifiche e valutazioni etiche. Né si danno previsioni etiche (o estetiche). L'etica non sa. L'etica non è scienza. L'etica è senza verità. La scienza non produce (non produce logicamente) etica. Dalle proposizioni descrittive non è possibile dedurre asserti prescrittivi. Dall'intera scienza non è possibile spremere un grammo di morale. La “grande divisione” tra fatti e valori – la cosiddetta legge di Hume – ci dice che dall'”è” non deriva il “deve”, dall'”essere” non si deduce il “dover essere” […] La scienza sa; l'etica valuta. L'etica non sa; la scienza non valuta. I fatti non sono valori. Le norme non si riducono a fatti"




(Antiseri D. (2001), La conoscenza filosofica, in Reale G. - Antiseri D., Quale ragione?, Milano, Raffaello Cortina, p. 137)




E siamo ancora qua, alla separazione tra conoscenza ed etica, tra proposizioni indicative e proposizioni normative.







La conoscenza non valuta, l'etica sì.




L'etica non conosce, la teoria sì.




Con le proposizioni teoriche, ossia quelle indicative, si costruiscono ragionamenti e, quindi, anche, inferenze; con le proposizioni pratiche, ossia quelle normative, non si costruiscono ragionamenti, e, quindi, anche, inferenze.




Come detto in un altro momento, la presente è una glossa di un tema molto famoso, e giustamente, la cd. Is - Ought Question. Ma non dice nulla di più o di nuovo, lascia l'argomento immutato nella sua attuale sistemazione.




Io però vorrei spingermi un po' più in là per provare a guardare le cose da un'altra prospettiva, per valutare, ed eventualmente "come", se sia possibile una diversa sistemazione del rapporto tra essere e dover essere, due diverse facce sì, ma dell'unica medaglia, ossia della realtà.



E non mi si venga a dire che quest'ultima non esiste e che è solo un'interpretazione: altrimenti di cosa sarebbe interpretazione se non v'è nulla oltre l'interpretazione?



(immagine tratta da: http://www.filosofico.net/antiseri.jpg)



Alessandro Pizzo

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venerdì 19 aprile 2013

Delle due, l'una ...

"according to a generally accepted definition of logical inference only sentences which are capable of being true or false can function as premises or conclusions in an inference; nevertheless it seems evident that a conclusion in the imperative mood may be drawn from two premises one of which or both of which are in the imperative mood"

(J. Joergensen, Imperatives and Logic, "Erkenntnis", 1937 - 8, p. 290)



L'epistemologo danese formula per la prima volta in maniera compiuta la distinzione canonica tra logica e imperativi: l'enigma, cioé, dei rapporti tra la prima, vertente solamente sulle proposizioni descrittive di stati di cose, e i secondi, i quali, pur essendo eterogenei alle proposizioni descrittive, sembrano comunque possedere una logica.



Da allora non è parso sinora possibile tirarsi fuori dal problema.



Sin da allora, infatti, la riflessione non ha formulato soluzioni convincenti.



Eppure tale iato sembra più la tenace difesa di un'ideologia, e della sua purezza, che non il riconoscimento di un'impossibilità effettiva.
Alessandro Pizzo

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giovedì 18 aprile 2013

Scarpelli e l'etica senza verità!

"il problema fondamentale della filosofia morale contemporanea è il problema della distinzione e dei rapporti tra le proposizioni descrittive (vertenti su fatti) e le proposizioni direttive (prescriventi comportamenti, assegnanti valori a comportamenti e cose): come si dice nella filosofia di lingua inglese, la is-ought question"

(U. Scarpelli, Introduzione, a: F. E. Oppenheim, Etica e filosofia politica, Bologna, Il Mulino, 1971, p. viii)

Scarpelli riepiloga un must della filosofia analitica in materia morale, mettendo in luce la ben nota distinzione tra le proposizioni apofantiche, per come le chiamerebbe il buon Aristotele, quelle cioé che hanno ad oggetto le cose reali e la cui funzione è per l'appunto quella di descrivere queste ultime, e le proposizioni prescrittive, le quali hanno ad oggetto la prescrizione di ben determinati stati di cose e la cui funzione è per l'appunto dirigere il comportamento umano.


Solo mi chiedo: è ancora vitale tale distinzione? O non è possibile intravedere ulteriori sentieri? Diverse modalità di sistemazione dei rapporti tra le prime e le seconde? E tra la prima e la seconda funzione del linguaggio umano?

Come altre questioni, anche la presente interroga l'oscurità, brancola nel buio, non dell'ignoto, ma del non ancora illuminato.

sabato 13 aprile 2013

T'inciucio io!

... inciucio ... ma inciucio cosa? ... l'accordo ... allora tutta la politica è inciucio ... no, solo quella di ora ... ma sai cos'è il compromesso? Il dialogo? La mediazione? La dialettica parlamentare? ... No, ma tanto c'è google e non mi sembra una buona cosa ... allora, la politica non è buona? ... No, infatti tra poco la mandiamo tutta a casa! ... E come di governiamo? ... A quella basta la rete ... da pesca? ... quanto sei ignorante! Internet! Votiamo da cittadini comodamente da casa le proposte di legge, insomma democrazia diretta! ... interessante, come utopia, ma quanto dovrebbe durare? Giorni? O anni? ... vedi, sei il solito morto che parla! Che apri a fare la bocca se non hai nulla da dire? ... 


Istruzioni su come sfogliare i petali ...


(fittizio dialogo con un cinque comici)


(immagine tratta da: http://www.agriturismopiatina.it/images/camera-7.jpg)

venerdì 12 aprile 2013

Glossa sul "Dilemma di Joergensen"

"Questa difficoltà è stata formulata da Jørgen Jørgensen nel modo seguente. «Posto che le frasi imperative non possono né essere vere né essere false nel senso in cui queste parole sono usate in logica, esse non possono essere implicate in altre frasi e di conseguenza non possono fungere da conclusioni nelle inferenze logiche. Invero esse non possono nemmeno fungere da premesse in tali inferenze, perché anche le premesse in tanto possono funzionare come tali, in quanto siano capaci di di essere vere o false … Le frasi imperative sono quindi del tutto incapaci di funzionare come parti di qualsiasi argomentare logico»"

(Tebaldeschi I. (1976), La logica giuridica e le inferenze miste, in Tammelo I. - Tebaldeschi I. (1976), Studi di logica giuridica, Milano, Giuffré, 1976, pp. 18 - 9)

Una glossa, sia pure sbrigativa e succinta, della questione sollevata nel 1937 - 8 dal danese Joergensen, e poi passata in letteratura, via Ross, come il Dilemma di Joergensen" e relativa alla possibilità di una applicazione della logica verofunzionale anche alle enunciazioni non indicative, con interessamento alle cosiddette inferenze miste.





giovedì 11 aprile 2013

L'etica senza verità ...



"dalla prospettiva logica vediamo che i valori e le norme etiche sono proposte […] e non proposizioni indicative. L'etica non descrive; essa prescrive. L'etica non spiega; essa valuta. Difatti: non esistono spiegazioni etiche, esistono solo spiegazioni scientifiche. Esistono spiegazioni scientifiche e valutazioni etiche. Né si danno previsioni etiche (o estetiche). L'etica non sa. L'etica non è scienza. L'etica è senza verità. La scienza non produce (non produce logicamente) etica. Dalle proposizioni descrittive non è possibile dedurre asserti prescrittivi. Dall'intera scienza non è possibile spremere un grammo di morale. La “grande divisione” tra fatti e valori – la cosiddetta legge di Hume – ci dice che dall'”è” non deriva il “deve”, dall'”essere” non si deduce il “dover essere” […] La scienza sa; l'etica valuta. L'etica non sa; la scienza non valuta. I fatti non sono valori. Le norme non si riducono a fatti"

(Antiseri D. (2001), La conoscenza filosofica, in Reale G. - Antiseri D., Quale ragione?, Milano, Raffaello Cortina, p. 137)


Antiseri riassume i termini estremi del Dilemma di Joergensen: se la logica trova applicazione esclusivamente alle inferenze con proposizioni indicative, o descrittive, ossia le proposizioni conoscitive, mentre l'etica ha a che fare con proposizioni valutative, o normative, ossia le proposizioni pratiche, è possibile prendere in considerazione inferenze con proposizioni non indicative? 


Se da un lato ciò appare quanto meno dubbio, stante la separazione suddetta tra scienza e morale, tra conoscenza e valutazione, tra logica ed etica, tra le proposizioni dell'una, indicative, e le proposizioni, prescrittive, dell'altra parte, come si devono pensare i termini del problema sollevato da Jørgesens


Dobbiamo pensarla ancora come Poincaré oppure sono possibili (valide) alternative?


E se la logica trova comunque applicazione alle proposizioni morali, e corrispondenti ragionamenti, possiamo andare oltre la limitazione alle cosiddette inferenze miste?


La questione, a mio modesto modo di vedere, non solo è ancora aperta, ma ancora tutta da affrontare.



(immagine tratta da: http://www.gramma.it/sussidiario/grafi/img_grafi/grafo_inferenze.gif)

mercoledì 10 aprile 2013

A great deal of the moral philosophy



For Schueler:


A great deal of the moral philosophy of the last hundred years has been devoted to trying to understand “the relation between ‘is’ and ‘ought’. On the one side, when we are engaged in genuine moral reasoning and debite, we seen to take it for granted that various factual claims support judgments about we ought or ought not to do. We even seem to regard some such judgments as true (and othres as false). On the other side, when we reflect on such judgments, it seems difficult indeed to see how either of these things could be straightforwardly the case, in view of the very great difference between factual and evaluative (or normative) judgments (1995, p. 713)




We must to face the challenge formulated by Poincaré since 1902 according to which there's a distinction between theory, best known as knowledge about the facts, and the ethics, that prescribes to anybody what ought to be.



Whereas theoretical propositions are based on normal logic, that deals with the truthfunctional values, and ethical propositions are not based on normal logic, there exists the following open question: what logic for all those reasonings that don't use the classic logic, that's truthfunzional?




Notes



G. F. Schueler (1995), Why “oughts” are not Facts (or What the Tortoise and Achilles Taught Mrs. Ganderhoot and Me about Practical Reason), “Mind”, 416, pp. 713 – 723.



(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/a/af/JH_Poincare.jpg/220px-JH_Poincare.jpg)





martedì 9 aprile 2013

Inferenze miste ...



"La regola che un imperativo non può figurare nella conclusione di un’inferenza valida, a meno che non vi sia almeno un imperativo nelle premesse, può trovare conferma in considerazioni logiche generali […] nulla può figurare nella conclusione di un’inferenza deduttiva valida che non sia implicito nella congiunzione delle premesse i forza del loro significato. Di conseguenza, se nella conclusione c’è un imperativo, non solo nelle premesse deve figurare un qualche imperativo, ma deve esservi implicito proprio quell’imperativo […] Il lavoro di Wittgenstein e di altri ha largamente chiarito le ragioni per cui è impossibile fare questo. È stato argomentato, e persuasivamente a nostro avviso, che ogni inferenza deduttiva ha carattere analitico; vale a dire, che la funzione di un’inferenza deduttiva non è di ricavare dalle premesse ‘qualcosa di ulteriore’ in esse non implicito […], ma di rendere esplicito ciò che era implicito nella congiunzione delle premesse"




(R. M. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma, 1968, p. 40)




Una pagina che resta un classico della letteratura analitica sulla teoria morale.




Resta, però, l'interrogativo di fondo: è ancora attuale?




Si badi, per 'attuale' non intendo qualcosa come 'di moda', o 'in voga', ma qualcosa come 'ancora sensato'.




Hare si rifà a Wittgenstein il quale, a sua volta, si rifaceva ai classici del neopositivismo (o era il contrario?) ... 


.... noi possiamo ancora appoggiarci ad Hare? O è giunto il momento di uscire dal suo sentiero ed arrischiare sentieri nuovi?




In breve, e a conclusione della presente ardita riflessione "a voce alta", possiamo finalmente dare luogo ad inferenze miste?


E in caso affermativo, avrebbe ancora senso porle in contrapposizione alle inferenze deduttive? 


Ed ancora, dove starebbe pertanto la differenza, se ha ancora senso porla, con le deduzioni logiche?


L'acqua dello stagno sembra immobile, in realtà, appena sotto il pelo dell'acqua, v'è un brulicare di vita e di fermentazioni.





(immagine tratta da: http://lgxserver.uniba.it/lei/filosofi/immagini/autori/hare.jpg)

lunedì 8 aprile 2013

Cantami, oh dilemma!
















img libro





Il volume di Antonio Marturano pone al centro della discussione filosofica un tema diffuso presso i cultori di filosofia analitica. Si tratta della formulazione nota come dilemma di Jørgensen, dal nome del filosofo danese, Jørgen Jørgensen, che, sul finire degli anni '30, si era posto il problema della significanza delle enunciazioni imperative. Marturano ha sicuramente il pregio di offrire una panoramica precisa e ricca in merito, rendendo anche conto degli ultimi avanzamenti del dibattito neopositivistico prima, ed analitico poi, intorno al trattamento formale con il quale prendere in considerazioni le enunciazioni non teoriche, o cognitive, le quali, pur non potendo godere del medesimo trattamento logico di cui godono le enunciazioni indicative, denotano una certa logica, ossia il rispetto di un insieme di regole deduttive. Il problema di Jørgensen, detto altrimenti, è valutare quali possano essere tali regole e se abbiano, o meno, un legame con le comuni regole della logica.



(continua a leggere)

domenica 7 aprile 2013

Vedere e non vedere

"Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”

(Gv XX, 19 - 25)

Tommaso è una figura emblematica che ben si presta a descrivere l'atteggiamento corrente al culmine della mentalità postmoderna: considerare qualcosa di prodigioso 'possibile', ma privo della pur necessaria evidenza per venir creduto come 'reale'.


Il Risorto fa visita ai suoi discepoli, e Tommaso non se ne avvede, Tommaso non lo vede, non lo riconosce. 


E pone la famosa condizione per poter concedere il suo sentito assenso, atteggiamento in cui consiste la fede. 


Eppure, pur essendo cieco inizialmente, soddisfatto nella sua condizione per poter credere, Tommaso è il primo a riconoscere il Cristo come Risorto. V'è un parallelo in questa vicenda: i discepoli di Emmaus. Il Risorto si accosta a loro nel cammino ma loro non lo riconoscono, Lui parla loro, spiega loro il senso di quanto accaduto ed ancora i loro occhi restano velati, cenano pure con Lui ed ancora non sono pronti a riconoscerlo. Solo quando finalmente spezza il pane lo riconoscono. 


Solo quando il Risorto mostra a Tommaso le sue piaghe, i segni dei chiodi, della Passione, ed anche della Morte, Tommaso apre gli occhi e lo riconosce.


E quante volte anche noi vediamo senza scorgere? Vediamo senza riconoscere? Crediamo di essere desti e invece ... 


La fede, però, non dipende necessariamente dalla condizione posta da Tommaso, "perché mi hai veduto, hai creduto", ma da quella circolarità paradossale che consiste nel cercare al termine di un percorso quanto era già all'inizio. Come ci dice Agostino: cerchiamo Dio non perché non lo abbiamo, ma solo perché già è con noi. Così per la fede: c'è non perché l'abbiamo trovata, ma perché è da sempre con noi. D'altra parte, non la cercheremmo se non l'avessimo già. 


E Tommaso? Tommaso descrive quel che può capitare a ciascuno di noi: cercare qualcosa che già si ha e che non riconosciamo come tale. Oppure, non rendersi conto di avere presso di sé proprio quel che, invece, si va cercando altrove.







(immagine tratta da: http://www.diocesiverona.it/s2ewdiocesiverona/allegati/15568/Risorto%20e%20Tommaso.jpg)