Molti filosofi si sono
arrovellati in passato intorno ad una semplice questione che possiamo
sintetizzare così:
[QO]
è possibile dimostrare
l'esistenza di Dio sulla base di un mero ragionamento?
Anselmo d'Aosta, il primo di una
lunga schiera di epigoni, ma anche di critici, tentò l'ardua impresa
nel Proslogion formulando una volta per tutte quello che
sarebbe passato alla storia come l'argomento ontologico[1].
In realtà, e a rigore, si dovrebbe parlare piuttosto di argomento
onto(teo)logico, dal momento che vi si legano assieme destino del
mondo ed esistenza divina, ma gli autori hanno sempre preferito la
versione contratta.
Cosa dice questo argomento? Più o meno, e
sintetizzando al massimo, quanto segue:
[AO]
- Dio è qualcosa di cui non può pensarsi nulla di maggiore (noi crediamo che «te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit»);
- se intendiamo la parola 'Dio' come nulla di cui possa pensarsi qualcosa di maggiore, questo qualcosa esiste certamente nel nostro intelletto;
- ma questo qualcosa deve esistere anche nella realtà («potest cogitari esse et in re»), altrimenti qualsiasi cosa che pensata esistesse anche nella realtà sarebbe maggiore di Dio;
- dunque, Dio esiste.
Esaminiamo
adesso il ragionamento di Anselmo.
In primo luogo osserviamo la
concessione iniziale che definisce il significato della parola 'Dio':
ciò di cui non può pensarsi nulla di più grande.
In secondo luogo,
poniamo mente al passaggio (2): una cosa pensata è una cosa
esistente nell'intelletto.
Terzo, una cosa esistente nell'intelletto, se si tratta di Dio, deve,
a causa della condizione (1), esistere anche nella realtà. Perché?
Perché si è stabilito che non v'è nulla di maggiore di Dio, ossia
che solo Dio può esistere e
nella mente umana, come oggetto di pensiero, e
nella realtà, come ente esistente. Infatti, se così non fosse,
potrebbe darsi il caso di qualcosa che esista tanto nella mente
umana, in quanto da questa pensato, quanto nella realtà, il che
contrasta con la stipulazione (1): solo Dio è più grande di ogni
cosa!
Il senso del passaggio da (2) a (3) è l'utilizzo della famosa
reductio ad absurdum:
ammesso, e non concesso, che Dio esista nel solo intelletto, in
quanto oggetto pensato, e non anche nella realtà, ciò
contrasterebbe con quanto convenuto al punto (1).
Di conseguenza, non
sarebbe affatto vero che risulti impossibile pensare qualcosa di più
grande di Dio.
Ora,
attenzione: quando Anselmo dice 'più grande' egli intende, in
termini ontologici, la grandezza di un singolo ente. Pertanto,
abbiamo due possibilità distinte (e contrapposte):
- un ente che esiste nell'intelletto ed anche nella realtà;
- un ente che esiste nell'intelletto ma non anche nella realtà.
Il
primo ente è certamente più grande del secondo il quale è meno
grande. Ora, se si è concesso che Dio sia, per definizione, un ente
del primo tipo, ossia (I), egli non può esistere nel solo intelletto
di chi lo pensa, deve per forza di cose esistere anche nella realtà
altrimenti potrebbe darsi il caso di un qualsiasi altro ente che
esistendo sia nell'intelletto sia nella realtà risulti alla fine più
grande dell'ente Dio, ossia di quell'ente che è più grande di tutti
gli altri, e che, di conseguenza, impedisce di pensarne altri di più
grandi.
Il verificarsi del caso (II) è impossibile: (per
definizione) sappiamo che Dio è ciò di cui non è possibile pensare
nulla di maggiore. Se non possiamo pensare qualcosa maggiore di Dio,
il pensare Dio garantisce anche circa la sua esistenza attuale, ossia
fuori dalla nostra mente.
Il
fulcro della dimostrazione anselmiana risiede in più punti diversi:
a)
la definizione iniziale di Dio (punto (1));
b)
la doppia connessione tra esistenza in
intellectu e esistenza
in re,
pena la contraddizione (punti (2) e (3));
c)
il rimando ultimativo alla conseguenza (prefissata) della definizione
iniziale: se Dio è «aliquid
… quo maius cogitari possit»,
non si può che ammettere l'esistenza reale di Dio.
Sin
qui il discorso anselmiano.
Adesso però sono opportune
alcune note.
Prima
nota: sfugge quasi sempre la cornice teologica all'interno della
quale Anselmo decide di muoversi. La presente dimostrazione non vale
a fornire ragioni per credere anche ai non credenti, ma solo a
confermare la coerenza di chi già crede (per come d'altra parte
Anselmo stesse si esprime defininendo 'Dio': «che
tu esisti come crediamo»[2]).
Non si tratta, allora, a rigore di una dimostrazione a
priori dell'esistenza
di Dio, ma di una ostensione della veridicità degli oggetti di
fede[3].
Seconda
nota: obiettivo polemico di Anselmo non sono gli atei, ma i miscredenti, ossia tutti coloro i quali agiscono in maniera
incoerente, in cuor loro credono nell'esistenza di Dio, ma a parole
asseriscono che «Deus
non est».
Tutta la prova anselmiana è giocata infatti nella contesa con
l'insipiens.
Solo ignorando questa figura è possibile parlare in maniera
impersonale di argomento ontologico.
In realtà, Anselmo dimostra
indirettamente l'esistenza di Dio mettendo in luce l'incongruenza in
cui cade l'insipiente, ossia colui che nega l'esistenza di Dio.
Attenzione, però, anche l'insipiente crede nell'esistenza di Dio. Si
tratta, pertanto, di ricondurlo alla correttezza epistemica:
professare l'esistenza di Dio tanto a livello personale, ossia
intimamente, quanto a livello pubblico, ossia intersoggettivamente.
Anche perché altrimenti l'insipiente agisce da sciocco, risulta cioé incoerente, un insipies appunto!
Terza
nota: la dimostrazione dell'esistenza di Dio è cosa facile dal
momento che solo gli sciocchi agiscono impunemente come
l'insipiente, ossia credono ma affermano di non credere.
Quarta
nota: la natura dialettica e confutatoria della dimostrazione
anselmiana non ricorda nulla? Eppure dovrebbe essere evidente: ci
troviamo di fronte al movimento elenctico di aristotelica memoria. Il
che, però, fa sorgere un'altra questione che, a dire il vero, in
pochi hanno scorto.
Quinta
nota: cosa dimostra davvero Anselmo? Il fatto che adoperi la
dimostrazione indiretta, per confutazione di terzi, di Aristotele fa
pensare che in realtà egli chiami 'Dio' non il Dio della religione,
ma il 'Dio' dei filosofi: ossia il principio di non contraddizione!
D'altra parte, la
dimostrazione non riesce proprio facendo ricorso alla contraddizione?
E mostrando la contraddittorietà in cui cade quanti negano
l'esistenza di Dio?
In fin dei conti, l'insipiente non ricorda molto
da vicino lo scettico che contende ad Aristotele il significato del
divieto di contraddizione? Come sostiene efficacemente
Arata, «il
pensiero, nelle cosiddette prove dell’esistenza di Dio, in realtà
non mette in trono Dio, bensì sé come Dio»[4].
Allora, a conclusione di queste brevissime, e del tutto parziali, note all'argomento ontologico di Anselmo: qual è la considerazione che possiamo averne, liberandoci una volta per tutte delle sovrapposizioni posteriori (con Gaunilone, Cartesio, Kant, Hegel, etc.)? Solo una riconsiderazione storiograficamente attenta potrà restituirgli valore, quello che merita.
Note
[1] Cfr.
Anselmo, Proslogion,
Rizzoli, Milano, 20128,
p. 81 e sgg.
[2] Cfr.
Anselmo, op. Cit., p. 83.
[3] Cfr.
A. Pizzo, Argomento ontologico. Una storia convergente per una
lettura divergente, Aracne,
Roma, 2009, p. 79.
[4] Cfr.
C. Arata, Dio oltre il principio di non contraddizione,
Morcelliana, Brescia, 2009, p. 48.
(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgMbUDSZ3Mfkjn0y66yJ7fN5nojBs3OJtOOsh1KoFbeZdnMAI34vQNIbicfVO9yXhNQVD9xmDTZ0IsZd3Vk0ocfgBjQ3B3Kku-adHmoM2ktBAVxQN-3rK2uCTQQrAuI0NhtZ4dJXDa0Jq4J/s1600/ontologico.jpg)
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