Esiste un diritto a
morire? Considerazioni chiarificatrici …
A vicenda conclusa,
conduco le seguenti considerazioni.
Ogni volta, si ripete la
telenovela. I suoi passaggi sono i soliti, mi si passi la sintesi estrema:
1. malato terminale o
senza speranza alcuna di guarigione invia un appello al presidente della
Repubblica di turno con il quale chiede aiuto;
2. lo stesso,
successivamente, manda un appello al Parlamento affinché vari subito una legge
sul “fine – vita”, o variabilmente sul “testamento biologico”;
3. segue un intervallo
breve ma di intenso silenzio;
4. improvvisamente, chi
per lui comunica che il soggetto si trova in Svizzera e che si sta sottoponendo
alle visite del caso;
5. qualche ora dopo, il
portavoce improvvisamente comunica che il soggetto “può sempre cambiare idea”;
6. segue un silenzio di
poche ore;
7. improvvisamente,
arriva il comunicato con cui si annuncia la morte “dolce” del soggetto;
8. qualche ora dopo, si
diffonde un ultimo messaggio del soggetto defunto nel quale si recita sempre lo
stesso bozzetto “muoio all’estero perché il mio paese non me lo ha consentito”.
Al netto delle vicende
soggettive e del singolo caso, e a prescindere dall’umana sofferenza esperibile
in questo come in tanti altri casi, ritengo sia doveroso svolgere alcune
considerazioni. Non possiamo giudicare le persone, ma riflettere sulle loro
azioni sicuramente sì. Certo, le presenti potranno piacere come non piacere, ma
quando leggo di considerazioni di terzi che non mi piacciono, non nego certo loro
la possibilità di intervenire nella discussione. Spero valga lo stesso per me.
La sequenza (1) – (8) è
ovviamente frutto di un’abile regia la cui finalità finale è ben chiara: non
fare l’interesse del soggetto, ma utilizzarlo per investire di onda emozionale
l’elettorato nazionale. Sì, alla fine il soggetto ha avuto quanto chiedeva ma
ciò non lo ha certo messo al riparo da
approfittatori o da abili persuasori che desideravano strumentalizzarne la
sofferenza. E non credo lo si possa negare. Peraltro, è stucchevole annunciare
che “può anche cambiare idea” dopo che, a proprie spese, lo si è trasportato in
Svizzera. Forse anche ipocrita, ma è funzionale al gioco retorico messo in
scena. Tutto per realizzare il colpo ad effetto finale: è finalmente libero.
Libero … da che cosa? E
qui veniamo alle riflessioni più dure. Se nella messa in scena mediatica, una
sorta di spot pubblicitario/propagandistico, è ovvio che la responsabilità del
soggetto venga diminuita e sciolta nell’apparato che ne ha gestito le ultime
settimane, comunicati compresi, sulle motivazioni delle sue decisioni ci sono
molte cose da dire.
In primo luogo, la
libertà del soggetto. Da una vita scintillante e pericolosa ad una vita
immobile, oscura e con mille difficoltà prima assenti. È comprensibile che ci
senta prigionieri, è la condizione propria di qualsiasi disabile, ovvero di
chiunque non possa liberamente entrare in relazione e relazionarsi
soddisfacentemente con gli altri. Ma è sempre vita. Ecco il primo problema: non
si tratta di quantità, ma di qualità. L’assenza di livelli elevati di
soddisfazione personale nella vita che si esperisce non c’entra con la libertà.
Voleva liberarsi della propria libertà? Ma è morto proprio per poterla
affermare … No, al netto dei giochetti retorici, il soggetto ha rifiutato la
vita, asserendo di voler riaffermare la propria libertà. Magari quella di cui
godeva prima dell’incidente, una solo ricordata ed enfatizzata, oppure una solo
sognata ora che viveva con quanto gli era rimasto. Ma la libertà c’entra con la
vita?
Secondo problema. Cos’è
la vita? Un insieme di desideri e moventi correlati? Oppure tanto altro? In
altre parole, quando asseriamo che la “vita è mia”, cosa intendiamo? Una lunga
sequela di pensatori moderni ci hanno detto e ripetuto che la vita è nelle
nostre disposizioni personali, ovvero che possiamo farne quel che vogliamo. In
merito, ritengo che si tratti di una semplificazione che riposa su due equivoci,
distinti ma vagamente confusi. Innanzitutto, la vita non è un bene che
consumiamo. La sua fungibilità non c’entra nulla, ma proprio nulla, con la
qualità del prodotto. Certo se intendiamo la nostra esistenza come un bene, è
del tutto naturale desiderare il massimo del profitto, ovvero che il bene –
vita sia perfetto, e non malandato o fiacco o di bassa qualità. Cosa ha
rifiutato il soggetto in questione? La vita? No, la qualità del
bene-vita. Ma considerare la vita un bene, come un’auto o una moto o il conto
in banca fa il paio con l’altro equivoco cui accennavo in precedenza, vale a
dire la diretta permeabilità della disponibilità della vita a sorgente dell’arbitrio
morale. In altri termini, quando affermo che “ la vita è mia” intendo anche asserire
che ne posso fare quel che voglio e, cioè, che sono io soggetto morale che
possa legiferarvi sopra. Il che è, almeno prima facie, del tutto
erroneo. Infatti, tale soggetto morale è adagiato su una fallacia tanto grossa
quanto invisibile ai più, vale a dire che una cosa è la volontà personale del
singolo un’altra cosa la sua possibilità tecnica. Detto altrimenti, non è
affatto consequenziale che se voglio qualcosa, questo qualcosa rientri nelle
mie disponibilità per il semplice fatto che esistano una o più tecniche
disponibili all’uopo. Ciò significa che quando asserisco la “vita è mia” sto
semplicemente ribadendo verbalmente, e con qualche altro atto, un mio
desiderio, una mia massima, un mio capriccio, un mio arbitrio in altri termini.
Ma il fatto che lo stesso sia (tecnicamente) possibile, non garantisce in alcun
modo circa la sua moralità. Anzi, la possibilità non comporta la sua liceità,
chi lo pensi o lo sostenga, volutamente o in buona fede, cade in grave errore.
Penso che la filosofia moderna abbia parlato in merito di fallacia
naturalistica. Ma ometterò la cosa per tutelare la sensatezza delle
presenti considerazioni. Che sia tecnicamente possibile fare qualcosa alla
(mia) vita non autorizza alcun passaggio immediato alla sua bontà assiologica.
Questo perché non è la possibilità materiale a rendere moralmente buona una
determinata azione. Quando si asserisce che la “vita è mia”, in realtà, si
asserisce che quanto voglia farne della stessa è … un mio diritto. E
così giungiamo all’ultimo stadio delle presenti considerazioni.
I difensori del gesto
estremo, anche molto disperato, a dispetto dell’ingentilimento retorico
presentato ai media, si trincerano dietro al valico insuperabile del diritto
soggettivo. Ma cos’è un diritto? Dall’infanzia sino alla terza età, la
nostra epoca è attraversata dagli assertori apodittici del diritto infallibile
del soggetto. Questo è un mio diritto. Questo è un mio sacrosanto diritto. Questo
è un mio diritto fondamentale. E così via. Tutto, o quasi, è considerato,
asserito e difeso, come un diritto del soggetto che lo concepisce, asserisce e
difende. Non è così, ovviamente. Non ogni desiderio personale è un diritto. Non
ogni capriccio è fonte di diritti soggettivi. Non ogni arbitrio è sorgente di
diritti. Il diritto sta alla vita di ciascuno come ciascuno sta al mezzo. Ecco
il punto. I diritti sono strumenti per la vita del soggetto, non viceversa.
Altrimenti, si verifica quello che, i più sapienti di me, chiamano i “diritti
insaziabili”. Ovvero, la progressiva, ed inarrestabile, estensione del novero
dei diritti ha come suo corrispettivo la scomparsa del senso stesso del diritto
soggettivo, vale a dire della legittima pretesa del soggetto a godere di un
certo trattamento di favore in accordo ad una sua particolare condizione
esistenziale. Ma se io asserisco che “essendo mia la vita, è mio diritto farne
quel che voglio” ci troviamo alle prese con un grosso equivoco la cui
strutturazione epistemica è difficilmente districabile per via dei mille
equivoci su cui riposa. Disporre della vita non è un diritto. Sarebbe semplice,
ma i più fraintendono tra aspirazione e tutela degli interessi
personali. La fungibilità della vita non si traduce in sua disposizione, come
quando si tratta un qualsiasi altro bene. Addirittura, si potrebbe rincarare la
dose dicendo che la vita non è un diritto. La ragione di ciò è tanto semplice
quanto ignorata. La vita è un insieme di condizioni, di stati, di relazioni, di
mezzi, di progetti, di variabili. Ne consegue che essa è il fine del soggetto.
Allora, come può la vita diventare strumento nelle disponibilità del soggetto?
Trattasi di mera strumentalità che tradisce la prospettiva arbitraria del
soggetto stesso. Infatti, affermare l’esistenza di un diritto personale sulla
vita significa asserire che la vita è sottoposta al dominio del soggetto, e
che, quindi, è, né più né meno, strumento per l’affermazione del soggetto
stesso. Si potrebbe pensare a qualcosa di più paradossale? Ma questo è l’esito,
ipotizzo non frutto di adeguata riflessione e ponderazione, di un altro stile
di pensiero, e di atteggiamento, che connota, in lungo e in largo, la nostra
mentalità corrente. Infatti, è conseguenza del nesso volontà – diritto.
Eccoci, così, giunti, all’ultima stazione, al cospetto del terribile diritto
del soggetto. In realtà, quando asserisco “la vita è mia” sto giustificando il
mio imperio sulla vita. Pertanto, ogni contenuto della mia volontà è
equiparabile ad asserti giuridici, la cui forza è corrispondente a quella di prerogative
personali accordatemi dalla società cui appartengo per via della sorgente
intima e personale della volontà che legifera. Ma questo è un insensato scimmiottare
nel piccolo giardino del desiderio personale del singolo il meccanismo pubblico
e generale del riconoscimento di diritti. Ed è insensato perché equipara
erroneamente volontà e trattamento di favore. Non è così. Non funziona
così. È pericolosa come dinamica. Elevare a rango di pretesa soggettiva
meritevole di tutela e promozione erga omnes significa abbassare il
diritto a questioni di bottega o di commercio tra singoli. Non è un caso che
tutti i commentatori si siano prodigati o sentiti in obbligo di asserire che “nessuno
può transigere” circa la bontà del desiderio del soggetto in questione. È ovvio
che un siffatto stato di cose rende ciascuno uno straniero morale in casa d’altri.
Così, il terribile diritto del singolo eleva steccati altissimi tra il “sé” e
tutti gli altri, come se a casa sua vigesse un altro diritto, altri diritti
personali …
In effetti, a ben
guardare, il soggetto in questione non ha chiesto né la fine dell’accanimento
terapeutico, che d’altra parte non era in corso, né tantomeno di porre fine
alle sue sofferenze, che una buona terapia del dolore avrebbe facilmente
consentito. Il soggetto ha chiesto di morire, ha scientemente e deliberatamente
chiesto di rifiutare la vita. È normale se si considera la vita un bene
fungibile. Se è difettosa, la si può ben rifiutare. Non è forse un suo diritto?
Non è un diritto di recesso? La strumentalità della vita, però, ha
inesorabilmente ridotto il soggetto che la rifiutava a strumento a sua volta.
Infatti, rifiutare la vita in nome di un diritto personale a rispedirla al
mittente, in quanto qualitativamente non all’altezza, significa, né più né
meno, che il soggetto stesso è infine mezzo del diritto che asserisce. Ecco qua
il punto cruciale: l’estensione inesorabile del catalogo dei diritti ha il
rovescio di rendere possibile l’inversione del normale rapporto tra il diritto
e il soggetto che ne fruisce. In altri termini, ed è questo ciò che
ostende la divulgazione sul tema, il soggetto è divenuto strumento di
affermazione del diritto stesso, e non più suo fruitore. La sua vicenda è stata
sapientemente adoperata per affermare la sovranità assoluta del diritto a
disfarsi della propria vita. E poco importa che inizialmente sia stata una
scelta consapevole del soggetto o che il tutto sia partito dal soggetto stesso.
Il diritto in questione ha finito con il fagocitare il soggetto stesso, a sua
volta ingranaggio nel meccanismo infernale attivato: atomizzare i soggetti in
regni parziali di diritti personali. Infatti, quando asserisco che “la vita è
mia”, asserisco nel contempo che “solo io posso farne quel che voglio”. Il che,
però, comporta anche la scissione dei rapporti tra il soggetto in questione e
la comunità di appartenenza. Non v’è più un vincolo generalista che deponga
circa la bontà o meno dei diritti soggettivi.
E qui giungiamo alle
ultime considerazioni. Proliferano foto e meme degli ultimi tempi. Cosa ci
dicono queste immagini? Che una persona soffre. Il moto immediato è cercare di
fare qualsiasi cosa per lenire tali sofferenze. E questo è, in effetti, il
messaggio ultimo di chi ha confezionato la telenovela, vale a dire far accettare
ai più l’idea, nonché la bontà, di un (presunto) diritto soggettivo a porre
termine alla propria vita. Ma soffriva davvero? Ecco, l’immagine non ce lo
dice, ma, nella sua crudezza, nella sapiente disposizione della sua scenografia
medica e mediatica, ce lo fa supporre. Che significa? Significa che vi è un
significato emotivo che le immagini recano pur mostrando altro. Si parla tanto
di post – verità, ma in fondo la crudezza del presente attuale agisce
sugli strati profondi della nostra coscienza e parla al nostro di presente,
alla nostra di vita, alla nostra di salute, alla nostra di volontà. Sì, quella
visione attiva il nostro dispositivo intimo e inconscio di difesa perché
mostra, e ci rende tangibile, la nostra stessa fragilità umana, la vulnerabilità
corporale che ci caratterizza. Nella storia del soggetto in questione ciascuno
ha visto la propria vita, ha scorto il concreto rischio di fare la stessa fine,
ha gustato l’indesiderabile condizione di vita danneggiata, di libertà
limitata, di bassa qualità … E questo ha attivato il primordiale meccanismo di
difesa dell’io, vale a dire la negazione. Temo di perdere tutto quanto? Temo di
perdere la mia libertà? Temo di perdere le bellezze della vita? Bene, nego
questo timore. Ma per negarlo, devo anche rimuovere ciò che lo causa, vale a
dire la visione che percepisco, le stesse foto retoricamente e ad arte prodotte
allo scopo di suscitare disgusto. La conclusione è asserire circa la volontà
espressa dal soggetto, ossia negare la causa del suo di disgusto, la vita
stessa. Ma questo ci spinge ad un’ultima considerazione, la seguente: la
qualità di una vita non risiede spesso nella sua vera o meno qualità, ma nella
sua relazione con i nostri desideri. In altri termini, non vediamo con gli
occhi, ma con il ventre. Ed una volta abilitato il passaggio dal desiderio alla
sorgente morale, nulla diminuisce questa miopia soggettiva. Ma non è un
problema solo del singolo, ma dell’intera comunità. Infatti, il normale esito è
un nichilismo giuridico dal momento che i diritti valgono non più per
tutti, ma per il singolo utente o, comunque, in funzione della sua
eccezionalità. Ne consegue anche come il singolo sia del tutto solo. E questa
non è una ricchezza o forza, ma una profonda debolezza. D’altro canto, il fatto
che il soggetto in questione sia stato affiancato da un vero e proprio apparato
la dice lunga sulla condizione di emarginazione e di esclusione dello stesso.
Questo dovrebbe sollecitare più d’una legittima questione circa la sua
effettiva libertà così come circa l’accertamento della sua effettiva volontà.
Una persona sola o indotta, più o meno direttamente, a considerare poca cosa la
sua vita e, magari, anche spinta a rifiutarla. Era cosciente? Era libero di
farsi una sua idea? Di ponderare i pro e i contro? Questo è un problema
insidioso dato che potrebbe falsificare l’intera telenovela mandata in onda. Ma
non lo sapremo mai, con un soggetto divenuto testimonial di una causa non
propriamente sua, del “terribile” diritto a rinunciare alla propria vita …
(url: http://www.documentazione.info/sites/default/files/field/image/rfd-right-to-die-articlelarge.jpg)
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