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venerdì 30 giugno 2017

Disabilità?

"è la vulnerabilità condivisa a costituire la base dell’eguale diritto di ciascuno a vedere pubblicamente riconosciuti i propri bisogni: la legittimazione di ogni democrazia dipende, infatti, dalla capacità di garantire il diritto di partecipazione politica a ognuno"

(M. G. Bernardini, Disabilità, giustizia, diritto. Itinerari tra filosofia del diritto e Disability Studies, Giappichelli, Torino, 2016, p. 128)

Riflettiamoci sopra.

La differenza di possibilità crea differenze di genere? Identità diverse? Destini differenti? Declinazioni ulteriori dell'umanità? E sì, cosa è andato storto?

Amene riflessioni inattuali in progress ...




(url: https://img.ibs.it/images/9788892103771_0_0_1407_80.png)

lunedì 26 giugno 2017

Disabilità?

"Prestare attenzione al dato apparentemente ovvio che i disabili sono anzitutto persone, individui, esseri umani permette anche di porre in evidenza alcune criticità delle concezioni oggi dominanti in tema di handicap. In particolare, l'assunto (a) mira a ridimensionare l'enfasi posta dall'approccio delle capacità sui funzionamenti e sulle capacità quali parametri di giustizia sociale e di dignità individuale; (b) si oppone alla concezione della disabilità come identità collettiva accreditata dai disability studies; (c) tenta di evitare gli opposti riduzionismi del liberalismo e dell'etica della cura, che in modo speculare assolutizzano, rispettivamente, l'autonomia e la dipendenza quali cardini della condizione umana [...] spostare l'attenzione da ciò che separa disabili e non disabili da ciò che invece li accomuna [...] è stato detto giustamente  che i "diritti dei disabili" non dovrebbero essere un'aggiunta specifica alla lista dei diritti civili, bensì il loro pieno compimento"

(M. Zanichelli, Persone prima che disabili. Una riflessione sull'handicap tra giustizia ed etica, Queriniana, Brescia, 2012, pp. 60 - 61)

Riflettiamoci sopra.

Non è che, per caso, stiamo separando gli uni e gli altri, deducendo, di conseguenza un diritto separato? Ma il problema di partenza non era appunto evitare la separazione tra "disabili" e "non disabili", tra "malati" e "sani", tra "anormali" e "normali"? Cos'è successo? Cosa è andato storto? Come mai abbiamo reificato una nuova condizione umana in luogo dell'unica comune? Perché altri rispetto al semplice noi?

Tracce - non traccie - di una riflessione in progress ...



(url: https://www.queriniana.it/files/Books/1354/0.jpg)

lunedì 27 febbraio 2017

C'è un diritto a morire?

Esiste un diritto a morire? Considerazioni chiarificatrici …

A vicenda conclusa, conduco le seguenti considerazioni.
Ogni volta, si ripete la telenovela. I suoi passaggi sono i soliti, mi si passi la sintesi estrema:

1. malato terminale o senza speranza alcuna di guarigione invia un appello al presidente della Repubblica di turno con il quale chiede aiuto;
2. lo stesso, successivamente, manda un appello al Parlamento affinché vari subito una legge sul “fine – vita”, o variabilmente sul “testamento biologico”;
3. segue un intervallo breve ma di intenso silenzio;
4. improvvisamente, chi per lui comunica che il soggetto si trova in Svizzera e che si sta sottoponendo alle visite del caso;
5. qualche ora dopo, il portavoce improvvisamente comunica che il soggetto “può sempre cambiare idea”;
6. segue un silenzio di poche ore;
7. improvvisamente, arriva il comunicato con cui si annuncia la morte “dolce” del soggetto;
8. qualche ora dopo, si diffonde un ultimo messaggio del soggetto defunto nel quale si recita sempre lo stesso bozzetto “muoio all’estero perché il mio paese non me lo ha consentito”.

Al netto delle vicende soggettive e del singolo caso, e a prescindere dall’umana sofferenza esperibile in questo come in tanti altri casi, ritengo sia doveroso svolgere alcune considerazioni. Non possiamo giudicare le persone, ma riflettere sulle loro azioni sicuramente sì. Certo, le presenti potranno piacere come non piacere, ma quando leggo di considerazioni di terzi che non mi piacciono, non nego certo loro la possibilità di intervenire nella discussione. Spero valga lo stesso per me.
La sequenza (1) – (8) è ovviamente frutto di un’abile regia la cui finalità finale è ben chiara: non fare l’interesse del soggetto, ma utilizzarlo per investire di onda emozionale l’elettorato nazionale. Sì, alla fine il soggetto ha avuto quanto chiedeva ma ciò non lo ha  certo messo al riparo da approfittatori o da abili persuasori che desideravano strumentalizzarne la sofferenza. E non credo lo si possa negare. Peraltro, è stucchevole annunciare che “può anche cambiare idea” dopo che, a proprie spese, lo si è trasportato in Svizzera. Forse anche ipocrita, ma è funzionale al gioco retorico messo in scena. Tutto per realizzare il colpo ad effetto finale: è finalmente libero.
Libero … da che cosa? E qui veniamo alle riflessioni più dure. Se nella messa in scena mediatica, una sorta di spot pubblicitario/propagandistico, è ovvio che la responsabilità del soggetto venga diminuita e sciolta nell’apparato che ne ha gestito le ultime settimane, comunicati compresi, sulle motivazioni delle sue decisioni ci sono molte cose da dire.
In primo luogo, la libertà del soggetto. Da una vita scintillante e pericolosa ad una vita immobile, oscura e con mille difficoltà prima assenti. È comprensibile che ci senta prigionieri, è la condizione propria di qualsiasi disabile, ovvero di chiunque non possa liberamente entrare in relazione e relazionarsi soddisfacentemente con gli altri. Ma è sempre vita. Ecco il primo problema: non si tratta di quantità, ma di qualità. L’assenza di livelli elevati di soddisfazione personale nella vita che si esperisce non c’entra con la libertà. Voleva liberarsi della propria libertà? Ma è morto proprio per poterla affermare … No, al netto dei giochetti retorici, il soggetto ha rifiutato la vita, asserendo di voler riaffermare la propria libertà. Magari quella di cui godeva prima dell’incidente, una solo ricordata ed enfatizzata, oppure una solo sognata ora che viveva con quanto gli era rimasto. Ma la libertà c’entra con la vita?
Secondo problema. Cos’è la vita? Un insieme di desideri e moventi correlati? Oppure tanto altro? In altre parole, quando asseriamo che la “vita è mia”, cosa intendiamo? Una lunga sequela di pensatori moderni ci hanno detto e ripetuto che la vita è nelle nostre disposizioni personali, ovvero che possiamo farne quel che vogliamo. In merito, ritengo che si tratti di una semplificazione che riposa su due equivoci, distinti ma vagamente confusi. Innanzitutto, la vita non è un bene che consumiamo. La sua fungibilità non c’entra nulla, ma proprio nulla, con la qualità del prodotto. Certo se intendiamo la nostra esistenza come un bene, è del tutto naturale desiderare il massimo del profitto, ovvero che il bene – vita sia perfetto, e non malandato o fiacco o di bassa qualità. Cosa ha rifiutato il soggetto in questione? La vita? No, la qualità del bene-vita. Ma considerare la vita un bene, come un’auto o una moto o il conto in banca fa il paio con l’altro equivoco cui accennavo in precedenza, vale a dire la diretta permeabilità della disponibilità della vita a sorgente dell’arbitrio morale. In altri termini, quando affermo che “ la vita è mia” intendo anche asserire che ne posso fare quel che voglio e, cioè, che sono io soggetto morale che possa legiferarvi sopra. Il che è, almeno prima facie, del tutto erroneo. Infatti, tale soggetto morale è adagiato su una fallacia tanto grossa quanto invisibile ai più, vale a dire che una cosa è la volontà personale del singolo un’altra cosa la sua possibilità tecnica. Detto altrimenti, non è affatto consequenziale che se voglio qualcosa, questo qualcosa rientri nelle mie disponibilità per il semplice fatto che esistano una o più tecniche disponibili all’uopo. Ciò significa che quando asserisco la “vita è mia” sto semplicemente ribadendo verbalmente, e con qualche altro atto, un mio desiderio, una mia massima, un mio capriccio, un mio arbitrio in altri termini. Ma il fatto che lo stesso sia (tecnicamente) possibile, non garantisce in alcun modo circa la sua moralità. Anzi, la possibilità non comporta la sua liceità, chi lo pensi o lo sostenga, volutamente o in buona fede, cade in grave errore. Penso che la filosofia moderna abbia parlato in merito di fallacia naturalistica. Ma ometterò la cosa per tutelare la sensatezza delle presenti considerazioni. Che sia tecnicamente possibile fare qualcosa alla (mia) vita non autorizza alcun passaggio immediato alla sua bontà assiologica. Questo perché non è la possibilità materiale a rendere moralmente buona una determinata azione. Quando si asserisce che la “vita è mia”, in realtà, si asserisce che quanto voglia farne della stessa è … un mio diritto. E così giungiamo all’ultimo stadio delle presenti considerazioni.
I difensori del gesto estremo, anche molto disperato, a dispetto dell’ingentilimento retorico presentato ai media, si trincerano dietro al valico insuperabile del diritto soggettivo. Ma cos’è un diritto? Dall’infanzia sino alla terza età, la nostra epoca è attraversata dagli assertori apodittici del diritto infallibile del soggetto. Questo è un mio diritto. Questo è un mio sacrosanto diritto. Questo è un mio diritto fondamentale. E così via. Tutto, o quasi, è considerato, asserito e difeso, come un diritto del soggetto che lo concepisce, asserisce e difende. Non è così, ovviamente. Non ogni desiderio personale è un diritto. Non ogni capriccio è fonte di diritti soggettivi. Non ogni arbitrio è sorgente di diritti. Il diritto sta alla vita di ciascuno come ciascuno sta al mezzo. Ecco il punto. I diritti sono strumenti per la vita del soggetto, non viceversa. Altrimenti, si verifica quello che, i più sapienti di me, chiamano i “diritti insaziabili”. Ovvero, la progressiva, ed inarrestabile, estensione del novero dei diritti ha come suo corrispettivo la scomparsa del senso stesso del diritto soggettivo, vale a dire della legittima pretesa del soggetto a godere di un certo trattamento di favore in accordo ad una sua particolare condizione esistenziale. Ma se io asserisco che “essendo mia la vita, è mio diritto farne quel che voglio” ci troviamo alle prese con un grosso equivoco la cui strutturazione epistemica è difficilmente districabile per via dei mille equivoci su cui riposa. Disporre della vita non è un diritto. Sarebbe semplice, ma i più fraintendono tra aspirazione e tutela degli interessi personali. La fungibilità della vita non si traduce in sua disposizione, come quando si tratta un qualsiasi altro bene. Addirittura, si potrebbe rincarare la dose dicendo che la vita non è un diritto. La ragione di ciò è tanto semplice quanto ignorata. La vita è un insieme di condizioni, di stati, di relazioni, di mezzi, di progetti, di variabili. Ne consegue che essa è il fine del soggetto. Allora, come può la vita diventare strumento nelle disponibilità del soggetto? Trattasi di mera strumentalità che tradisce la prospettiva arbitraria del soggetto stesso. Infatti, affermare l’esistenza di un diritto personale sulla vita significa asserire che la vita è sottoposta al dominio del soggetto, e che, quindi, è, né più né meno, strumento per l’affermazione del soggetto stesso. Si potrebbe pensare a qualcosa di più paradossale? Ma questo è l’esito, ipotizzo non frutto di adeguata riflessione e ponderazione, di un altro stile di pensiero, e di atteggiamento, che connota, in lungo e in largo, la nostra mentalità corrente. Infatti, è conseguenza del nesso volontàdiritto. Eccoci, così, giunti, all’ultima stazione, al cospetto del terribile diritto del soggetto. In realtà, quando asserisco “la vita è mia” sto giustificando il mio imperio sulla vita. Pertanto, ogni contenuto della mia volontà è equiparabile ad asserti giuridici, la cui forza è corrispondente a quella di prerogative personali accordatemi dalla società cui appartengo per via della sorgente intima e personale della volontà che legifera. Ma questo è un insensato scimmiottare nel piccolo giardino del desiderio personale del singolo il meccanismo pubblico e generale del riconoscimento di diritti. Ed è insensato perché equipara erroneamente volontà e trattamento di favore. Non è così. Non funziona così. È pericolosa come dinamica. Elevare a rango di pretesa soggettiva meritevole di tutela e promozione erga omnes significa abbassare il diritto a questioni di bottega o di commercio tra singoli. Non è un caso che tutti i commentatori si siano prodigati o sentiti in obbligo di asserire che “nessuno può transigere” circa la bontà del desiderio del soggetto in questione. È ovvio che un siffatto stato di cose rende ciascuno uno straniero morale in casa d’altri. Così, il terribile diritto del singolo eleva steccati altissimi tra il “sé” e tutti gli altri, come se a casa sua vigesse un altro diritto, altri diritti personali …
In effetti, a ben guardare, il soggetto in questione non ha chiesto né la fine dell’accanimento terapeutico, che d’altra parte non era in corso, né tantomeno di porre fine alle sue sofferenze, che una buona terapia del dolore avrebbe facilmente consentito. Il soggetto ha chiesto di morire, ha scientemente e deliberatamente chiesto di rifiutare la vita. È normale se si considera la vita un bene fungibile. Se è difettosa, la si può ben rifiutare. Non è forse un suo diritto? Non è un diritto di recesso? La strumentalità della vita, però, ha inesorabilmente ridotto il soggetto che la rifiutava a strumento a sua volta. Infatti, rifiutare la vita in nome di un diritto personale a rispedirla al mittente, in quanto qualitativamente non all’altezza, significa, né più né meno, che il soggetto stesso è infine mezzo del diritto che asserisce. Ecco qua il punto cruciale: l’estensione inesorabile del catalogo dei diritti ha il rovescio di rendere possibile l’inversione del normale rapporto tra il diritto e il soggetto che ne fruisce. In altri termini, ed è questo ciò che ostende la divulgazione sul tema, il soggetto è divenuto strumento di affermazione del diritto stesso, e non più suo fruitore. La sua vicenda è stata sapientemente adoperata per affermare la sovranità assoluta del diritto a disfarsi della propria vita. E poco importa che inizialmente sia stata una scelta consapevole del soggetto o che il tutto sia partito dal soggetto stesso. Il diritto in questione ha finito con il fagocitare il soggetto stesso, a sua volta ingranaggio nel meccanismo infernale attivato: atomizzare i soggetti in regni parziali di diritti personali. Infatti, quando asserisco che “la vita è mia”, asserisco nel contempo che “solo io posso farne quel che voglio”. Il che, però, comporta anche la scissione dei rapporti tra il soggetto in questione e la comunità di appartenenza. Non v’è più un vincolo generalista che deponga circa la bontà o meno dei diritti soggettivi.
E qui giungiamo alle ultime considerazioni. Proliferano foto e meme degli ultimi tempi. Cosa ci dicono queste immagini? Che una persona soffre. Il moto immediato è cercare di fare qualsiasi cosa per lenire tali sofferenze. E questo è, in effetti, il messaggio ultimo di chi ha confezionato la telenovela, vale a dire far accettare ai più l’idea, nonché la bontà, di un (presunto) diritto soggettivo a porre termine alla propria vita. Ma soffriva davvero? Ecco, l’immagine non ce lo dice, ma, nella sua crudezza, nella sapiente disposizione della sua scenografia medica e mediatica, ce lo fa supporre. Che significa? Significa che vi è un significato emotivo che le immagini recano pur mostrando altro. Si parla tanto di post – verità, ma in fondo la crudezza del presente attuale agisce sugli strati profondi della nostra coscienza e parla al nostro di presente, alla nostra di vita, alla nostra di salute, alla nostra di volontà. Sì, quella visione attiva il nostro dispositivo intimo e inconscio di difesa perché mostra, e ci rende tangibile, la nostra stessa fragilità umana, la vulnerabilità corporale che ci caratterizza. Nella storia del soggetto in questione ciascuno ha visto la propria vita, ha scorto il concreto rischio di fare la stessa fine, ha gustato l’indesiderabile condizione di vita danneggiata, di libertà limitata, di bassa qualità … E questo ha attivato il primordiale meccanismo di difesa dell’io, vale a dire la negazione. Temo di perdere tutto quanto? Temo di perdere la mia libertà? Temo di perdere le bellezze della vita? Bene, nego questo timore. Ma per negarlo, devo anche rimuovere ciò che lo causa, vale a dire la visione che percepisco, le stesse foto retoricamente e ad arte prodotte allo scopo di suscitare disgusto. La conclusione è asserire circa la volontà espressa dal soggetto, ossia negare la causa del suo di disgusto, la vita stessa. Ma questo ci spinge ad un’ultima considerazione, la seguente: la qualità di una vita non risiede spesso nella sua vera o meno qualità, ma nella sua relazione con i nostri desideri. In altri termini, non vediamo con gli occhi, ma con il ventre. Ed una volta abilitato il passaggio dal desiderio alla sorgente morale, nulla diminuisce questa miopia soggettiva. Ma non è un problema solo del singolo, ma dell’intera comunità. Infatti, il normale esito è un nichilismo giuridico dal momento che i diritti valgono non più per tutti, ma per il singolo utente o, comunque, in funzione della sua eccezionalità. Ne consegue anche come il singolo sia del tutto solo. E questa non è una ricchezza o forza, ma una profonda debolezza. D’altro canto, il fatto che il soggetto in questione sia stato affiancato da un vero e proprio apparato la dice lunga sulla condizione di emarginazione e di esclusione dello stesso. Questo dovrebbe sollecitare più d’una legittima questione circa la sua effettiva libertà così come circa l’accertamento della sua effettiva volontà. Una persona sola o indotta, più o meno direttamente, a considerare poca cosa la sua vita e, magari, anche spinta a rifiutarla. Era cosciente? Era libero di farsi una sua idea? Di ponderare i pro e i contro? Questo è un problema insidioso dato che potrebbe falsificare l’intera telenovela mandata in onda. Ma non lo sapremo mai, con un soggetto divenuto testimonial di una causa non propriamente sua, del “terribile” diritto a rinunciare alla propria vita …



(url: http://www.documentazione.info/sites/default/files/field/image/rfd-right-to-die-articlelarge.jpg)

lunedì 1 agosto 2016

Nussbaum # 3



“La verifica logica degli argomenti è alla base della cultura politica democratica. La causa per cui in politica ci si fa torto reciprocamente è spesso l’uso di argomentazioni scorrette […] La verifica logica permette di chiarire questi ragionamenti confusi e di smascherare i pregiudizi che si travestono da ragioni. Non servirsi della verifica logica significherebbe rinunciare a uno dei più potenti strumenti che abbiamo per contrastare gli abusi del potere politico. Anche se la logica non ci aiuterà ad amarci di più, potrà comunque impedirci di fingere di essere in possesso di argomentazioni che giustifichino il nostro rifiuto di amare”




M. C. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma, 2006, p. 53




Ritengo che aggiungere altro sarebbe irritante oltre che del tutto superfluo.




Quanto c'era da dire, l'ha già detto la Nostra. 




A noi soltanto una questione, la seguente: se così è, come mai il nostro mondo politico reale è tutto fuorché prossimo al mondo politico ideale?



lunedì 27 giugno 2016

Seguendo Nussbaum ...

Finalmente pubblicato su "Filosofia e nuovi sentieri" la mia ultima fatica.

Seguendo ancora una volta Nussbaum, esamino gli incerti e confusi confini della libertà umana, dei diritti politici fondamentali e condizione disabile.

Questo perché, se non prendiamo seriamente i diritti, questi ultimi rimangono segni sulla carta ...


sabato 17 gennaio 2015

Tu sei Charlie, io chi sono?


Pensavo di non dover mettere bocca sui recenti fatti di Parigi, ma moventi superiori mi hanno chiamato in causa.

Dopo l'unità mondiale che ha dato sfogo al desiderio pubblico di esorcizzazione della paura e/o di autocelebrazione del modo d'essere occidentale, sono arrivate le parole del Papa il quale, in viaggio per le Filippine, a diretta sollecitazione giornalistica, ha così risposto:

"La religione non può mai uccidere, Non si può farlo in nome di Dio [...] Ma non si può provocare, non si può prendere in giro la religione di un altro. Non va bene [...] la libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere [...] se il mio amico Gasbarri dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno"

Apriti cielo!!!

Gli stessi panmondialisti satirici hanno dato fuoco alle miccie: come si permette costui di dare a noi lezioni di satira? Difendiamo il nostro diritto alla libertà di pensiero e di espressione! Si faccia gli affaracci suoi!

Un tale livore/risentimento è più che sospetto.

Viene da pensare che le parole del Papa siano state più potenti delle deflagrazioni delle armi di assalto con le quali quei tre pazzi lì hanno creato il terrore in Paris ... ma come mai?

Eppure, la condanna del terrorismo è stata forte e priva di zone d'ombra: nessuno è autorizzato ad uccidere in nome di Dio. Per il Cristianesimo, peraltro, è un convincimento dottrinale forte e ben radicato: Cristo stesso è morto in croce per non opporre violenza a violenza. Allora, come mai i tanti Charlie del mondo si sono risentiti per tale condanna della violenza religiosa? Credo che il punto saliente si trovi nella seconda parte del discorso papale. Infatti, va bene la libertà di espressione, ma vi sono dei limiti, in nessun caso si ha il diritto di dileggiare le credenze religiose altrui.

Questo mi pare essere il problema di Charlie: accettare che la matita possa avere dei limiti, piuttosto che poter satireggiare qualsiasi cosa e in qualunque modo.

Le parole del Papa, allora, non sono piaciute perché avvertite come una limitazione della libertà di pensiero/espressione, e non perché analoga condanna dell'atto di terrorismo subito dalla redazione di Charlie.

Eppure, a ben guardare, è solo un'errata percezione. Infatti, il Pontefice non ha affatto posto limiti alla libertà di pensiero e/o di espressione, ha solamente detto che in ogni caso è bene avere giudizio o buon senso.

Ora, forse che la libertà di pensiero/espressione è fuori scala? Può essere fuori misura? Può esorbitare dai bordi della decenza? 

Qui il problema, e la sostanziale differenza di vedute: come molti altri atteggiamenti occidentali, il bisogno soggettivo di pensare e di esprimersi viene percepito, oltre che vissuto, come un diritto soggettivo, e, quindi, sostenuto con veemenza affinché venga riconosciuto come tale e promosso collettivamente. Inutile, forse, aggiungere che così non è, che, cioè, non può essere un diritto soggettivo quello di consentire a chiunque di pensare e dire peste e corna di chi capita a tiro.

Peraltro, dobbiamo stare attenti alla deriva dei diritti insaziabili i quali, in fin dei conti, stanno erodendo la nostra stessa democrazia, fagocitando gli stessi soggetti destinatari dei diritti. Insomma, stiamo sempre più trasformando la vita sociale in strumenti per la realizzazione dei diritti, operando così un'inversione del rapporto tra mezzi e finalità, non più i diritti strumenti per i cittadini, ma i cittadini strumenti per i diritti.

Così, ecco il Leviatano diritto di espressione! E, forse, pure sovraordinato rispetto all'altro terribile diritto, quello di pensiero. Mentre quel che ciascuno pensa in fondo se ne sta tranquillo nel chiuso della coscienza del singolo, quanto viene espresso, soprattutto in forma satirica, sgorga in pubblico.

Ma v'è dell'altro, ahinoi!

Così come i fatti di Parigi non hanno nulla a che fare con la religione e nemmeno con il terrorismo in sé o con il diritto di parola, essendo più un esito fallimentare di passate politiche di protezione sociale e di pubblica sicurezza, allo stesso tempo l'attacco alle parole del Papa nulla hanno a che fare con la difesa, magari ad oltranza, del diritto di pensiero/espressione. Le mie, lo riconosco, sono parole forti, ma vediamone il perché.

Charlie si è inalberato non per la condanna del terrorismo compiuta, e nemmeno per la provocazione del pugno, e, in fin dei conti, neppure per la reprimenda nella libera ed infinita espansione del tratto di matita, ma perché il Pontefice ha osato ribadire la sensatezza della religione, qualunque essa sia. Anzi, della religione in quanto tale! E, di più, perché ha superbamente condannato il bullismo satirico che tanto caratterizza il modo d'agire dei Charlie di questo mondo. Ecco il punto, il nervo scoperto: un laico non accetta, perché per suoi limiti cognitivi non può, lezioni di morale da un  religioso.

A ben guardare, non mi pare che Francesco abbia detto cose scandalose, ma tali sembrano ai Charlie. Perché? Perché il laicismo, ossia quella particolare forma d'essere che sarebbe prima pure di qualsiasi credo religioso, ha osato trarre insegnamenti morali dalla religione stessa. E degli imbratta carte/religioni, quali sono i redattori di Charlie, come avrebbero potuto digerire tanto? Paradossalmente, è più facile tollerare le pallottole dei terroristi che le parole di un religioso, è più facile morire da martiri del laicismo che accettare la lezione morale del Pontefice.

Ma come mai?

Ecco, penso che il punto, per quanto scabroso e/o rimosso e/o negato, sia sostanzialmente in questo: il laicismo di Charlie, così come dei suoi epigoni o partigiani all'indomani dell'attacco di Parigi, non si colloca in un universo terzo rispetto alle religioni terrestri. Anzi, si connota come modo d'essere del tutto competitivo, vale a dire esattamente nei termini di una religione a sua volta! E qui, provocatoriamente, dà da pensare il suo modo di essere e di porsi del tutto aggressivo, radicale, violento ed intollerante nei confronti degli altri credi. Il laicismo è, in termini piani, una religione radicale, fondamentalista e intollerante!

Pertanto, come può un competitor come il Papa pensare di poter dare lezioni a noi laici? E come possono pensare che autolimitiamo l'immenso potere di proselitismo che ci dà una matita?

Infatti, toccate a Charlie tutto quello che volete, ma guai a sfiorare la matita con la quale danno luogo al loro impunito e volgare bullismo satirico.

In conclusione, allora, non posso essere Charlie, lascio pure che voi siate tutti uguali, ossia Charlie, mentre altri sentieri preferisco percorrere.


(url immagine: http://st.ilfattoquotidiano.it/wp-content/uploads/2015/01/charlie-675.jpg)

lunedì 10 novembre 2014

Figli di un Dio minore?



"In vari casi i ragazzi in difficoltà erano addirittura condotti in locali a parte per ricevere dagli insegnanti di sostegno lezioni a loro specificamente finalizzate; in assenza dell’insegnante di sostegno, non di rado accadeva che gli allievi con disabilità di varie classi fossero affidati al personale assistente con funzioni di mera sorveglianza"



(G. Fappani, Figli di un Dio minore?, in G. Onger (ed.), Trent’anni di integrazione scolastica. Ieri, oggi, domani, Vannini Editore, Gussago, 2008, p. 120)



Purtroppo, in molte realtà le cose stanno ancora in questi termini, alunni che vivono la scuola fuori dalla classe e che, in assenza del docente di sostegno, vengono addirittura rifiutati dall'istituzione scolastica ...



No, questa è segregazione, esclusione, elusione dei precisi obblighi, negazione del valore costituzionale della scuola aperta a tutti ...

martedì 7 ottobre 2014

Caro Salvatore Nocera



Caro Salvatore Nocerca,






prendo spunto dalla tua critica al boicottaggio corporativistico promosso da alcuni miei colleghi (?) contro Dario Ianes, e contro la casa editrice Erickson, rei di aver proposto un'evoluzione del docente di sostegno, Siccome non conosco nei dettagli siffatta proposta, eviterò di discuterne. Tuttavia, mi soffermerò sul tuo editoriale, pubblicato su Edscuola in data 06 ottobre 2014.






Concordo con te, caro Salvatore, il boicottaggio è proprio una scemenza, qualcosa di inopportuno rispetto anche alla grande tradizione della Erickson e alla reputazione di Dario Ianes. Ciò non toglie, però, che siano presenti alcuni grandi rischi in merito alla proposta di trasformazione del docente di sostegno, e del sostegno in quanto tale, di quest'ultimo. E penso proprio che la levata di scudi cui fai riferimento sia la spia di un profondo disagio sindacale da parte di docenti che, dopo una gavetta lunghissima oltre che umanamente significativa, e dopo cospicui investimenti nei percorsi universitari di formazione specialistica, percepiscono l'ennesimo pericolo di perdita dell'identità professionale, prima ancora di quella occupazionale. E' un segno di debolezza corporativa, perché se fossimo davvero forti manco si alzerebbe la mattina qualcuno a dire che è tempo di cambiare. Invece, l'idea che l'integrazione non ha funzionato a dovere, induce alcuni a vagheggiare un superamento del modello attuale. In forza di cosa, ripeto, non so con esattezza. Sui forum e sui siti si insiste su un collocamento dell'80% del personale attuale su ruoli curriculari mentre il restante 20% diventerebbe un corpo di consultazione da parte del consiglio di classe il quale, per intero, e non più tramite delega al docente di sostegno, dovrebbe farsi carico in prima persona, vale a dire direttamente, dell'integrazione degli studenti disabili. Un qualcosa che già avviene con i BES.






Tuttavia, a mio onesto modo di vedere, il rifiuto dell'evoluzione proposta di Ianes, benché impensabile in concreto di per sé, presenta svariati profili di meritevolezza. Siccome, però, non voglio annoiarti con la mia prosa sguaiata e poco acuta, ne elenco solo due tra i tanti: 






1) venuta meno la figura del docente di sostegno, chi ci garantisce che il consiglio di classe favorisca davvero, e meglio di quanto non avvenisse in precedenza, l'integrazione delle persone disabili?;






2) in tempi di revisione della spesa, ossia di riduzione generalizzata della spesa pubblica, senza se e senza ma, mi risulta quantomeno pericoloso ipotizzare un superamento dell'attuale integrazione scolastica dal momento che si giustificherebbe tout - court la malsana idea di qualche legislatore ragioniere di abrogare in toto l'integrazione scolastica delle persone con disabilità con fine deliberato di conseguire economie per le finanze pubbliche.






Non sono questi due dei profili che da soli già bastano per rigettare la supposta evoluzione del docente di sostegno? Penso di sì, anche se non desidero affatto passare per un conservatore dell'integrazione scolastica. Abusi, errori ed inefficienze si sono verificate e continuano a verificarsi, in primo luogo la vituperata prassi di utilizzare il docente di sostegno come "tappabuchi" per le supplenze temporanee del personale curriculare. Ed è bene lavorare per migliorare il sostegno. Tuttavia, prudentemente rinvierei a tempi più propizi qualsiasi idea evolutiva o palingenetica che sia.






Fiducioso di avermi inteso, ti rinnovo la mia simpatia e il riconoscimento per la tua infaticabile opera di difesa degli interessi delle persone con disabilità







Firmato, un docente che di sicuro non sa nulla di politica e meno ancora di scuola. 









(url immagine: http://www.grusol.it/immagini/libro06-2014.jpg)





lunedì 22 luglio 2013

Il matrimonio omosessuale è un diritto? FAQ

Il matrimonio omosessuale è un diritto? FAQ


(immagine tratta da: http://ioamolitalia.it/public/immagini/_resized/matrimonio-omosseuale_530X0_90.png)

Sollecitato in tal senso, offro una versione più "divulgativa" del precedente post (http://alessandropizzo.blogspot.it/2013/06/il-matrimonio-e-un-diritto.html). Spero sia apprezzato almeno tanto quanto lo è stato il precedente.

FAQ

Come mai per i "matrimoni gay" non può parlarsi di "diritto" rispetto ai soggetti che vorrebbero contrarlo?

L'unione tra due persone eterosessuali, libere e in possesso della capacità giuridica (18 anni), è inquadrata, dal Codice Civile come un negozio giuridico, in forza del quale un uomo e una donna dichiarano di volersi prendere rispettivamente come marito e moglie, e come un rapporto dal quale discendono conseguenze di natura e personale e patrimoniale. Questa è la famiglia, rigidamente eterosessuale.

Cos'è dunque la famiglia?

La famiglia è quindi l'effetto del matrimonio eterosessuale, ossia tra due persone di sesso differente, le quali contraggono unione agli occhi della legge, impegnandosi reciprocamente e conseguendo da tale unione precisi effetti civili, ossia patrimoniali.

Chi sono i coniugi?

Il Codice Civile declina in concreto l'inquadramento che della materia offre la Carta Costituzionale la quale (art. 29) parla nei termini di una società naturale fondata sul matrimonio e sulla parità, morale e giuridica, dei coniugi.
Nello stesso Codice peraltro si parla sempre di "marito" e di "moglie" ad indicazione del ruolo sociale attribuito ai singoli in quanto rispettive espressioni di due sessi differenti.
Ma il matrimonio è un diritto? 

Se lo è, sorgono dei dubbi, più o meno legittimi, sull'esclusione di alcuni soggetti dal poterlo liberamente contrarre. Ma il matrimonio eterosessuale tutto è fuorché un diritto nel senso che i soggetti interessati, un uomo e una donna, possono liberamente contrarlo ma non viene affatto loro garantita la relativa fruizione. 

E come mai due persone dello stesso sesso non potrebbero "sposarsi"?

Il nostro Codice Civile, in esecuzione del dettato costituzionale, stabilisce come i due contraenti il matrimonio assumano nuovi stati personali, di marito, nel caso del contraente uomo, e di moglie, nel caso del contraente donna. Ammesso, e non concessa, la possibilità di matrimoni per esponenti dello stesso sesso, sorge il problema dei relativi stati personali addotti dai due soggetti dello stesso sesso uniti in matrimonio.

Ma se lo vogliono, negarlo non è la violazione di un diritto?

V'è, nella cultura moderna, un perdurante e imbarazzante equivoco il quale porta a pensare che qualsiasi desiderio personale, o, se si preferisce, capriccio, sia un diritto, ossia una pretesa personale legittima, e, quindi, meritevole di tutela: da promuoversi da parte della propria collettività di appartenenza. Il Codice Civile non qualifica la fattispecie del "matrimonio" nei termini di un diritto soggettivo, ossia di una pretesa legittima da promuovere, ma di un contratto stipulato liberamente tra due parti.

Se è equivoca la nozione comune di diritto, come mai la questione dei matrimoni omosessuali è irta di equivoci?

Ritengo come nel caso presente l'equivoco sia doppio: 1) si equivoca sul significato, in termini di diritti, della parola 'matrimonio'; e, 2) s'intende il matrimonio tutta quella serie di effetti giuridici e patrimoniali che il matrimonio come rapporto comporta. In realtà, infatti, è l'esclusione da questi effetti per le coppie dello stesso sesso che provoca reazione e, in alcuni casi, porta a parlare di discriminazione o di violazione di diritti dei soggetti. Ma è concettualmente infondato parlare del matrimonio omosessuale nei termini di un diritto: non lo è per le coppie eterosessuali, perché dovrebbe esserlo per quelle dello stesso sesso?

Allora perché gli omosessuali vi insistono?

In genere, essi argomentano più o meno nella maniera seguente:

Se i diritti non discendono dal tipo di coito che viene realizzato liberamente da due persone di diverso sesso, perché negare gli stessi diritti a due persone dello stesso sesso le quali liberamente decidono di dedicarsi al coito?

Esaminiamo questa argomentazione.

Essa presenta due possibilità diverse in equilibrio simmetrico: il coito eterosessuale e il coito omosessuale. In forza di questa simmetria, vieta qualsiasi differenza per relativi trattamenti giuridici pena la discriminazione degli uni come degli altri. Ma siccome nel primo caso sono garantiti dei diritti, in genere di natura patrimoniale tra i coniugi, e nel secondo caso no, ecco che scatta il meccanismo della rivalsa: siamo in presenza di una discriminazione in quanto ad alcuni vengono negati gli stessi diritti.

L'argomentazione è però erronea perché si contraddice dal momento che finisce con il legare il godimento di determinati diritti alla pratica del coito piuttosto che legarli alla personalità di chi la pratica. Se presa sul serio, allora, tale argomentazione finisce con lo spostare la titolarità del diritto in quanto tale dall'essere una persona al praticare una determinata azione. Fatto questo, dato che il desiderio soggettivo viene equiparato ad un 'diritto', si sostiene come nessuno possa impedirlo.

Dunque, sarebbe un diritto?

Se davvero il matrimonio è un diritto questo non discende dal fatto che un uomo e una donna pratichino il coito, ma dal fatto che decidono liberamente di unirsi nel rapporto giuridico del matrimonio. Il coito, per dirla altrimenti, è secondario rispetto alla liceità della contrazione di matrimonio. Peraltro, gli effetti personali e patrimoniali, cruccio delle coppie omosessuali, non derivano dal tipo di coito che viene praticato, etero o omo, ma dal matrimonio come rapporto (tra due persone di sesso differente). Questo perché non ha senso far discendere una conseguenza giuridica, peraltro delicatissima come un diritto soggettivo, non dall'essere una persona, ossia dalla nascita, ma dal momento in cui la stessa sceglie di praticare il coito in una certa maniera.

Nel voler giustificare la pretesa del matrimonio omosessuale si finisce con il rovesciare il fondamento antropologico del diritto, spostando il soggetto del diritto dalla naturalità della persona in quanto tale, alla secondarietà della persona che, ad un certo punto, sceglie di vivere in un certo modo e, conseguentemente, produce determinate pratiche materiali.

In conclusione?

Il matrimonio non è un diritto e non può essere invocato come tale dalle coppie dello stesso sesso. Il non prevederne la possibilità non è, per logica conseguenza, una discriminazione: non sussistendo in caso contrario un diritto, quanti vengono esclusi non possono in alcun modo sentirsi privati di una possibilità positiva. Piuttosto, dal momento che in ogni caso bisogna parlare dei diritti delle persone è pensabile ad un miglioramento del trattamento patrimoniale dei soggetti costituenti delle coppie omosessuali. Questo è fattibile, ma senza mettere mano al diritto di famiglia. Peraltro, se il reale desiderio delle coppie omosessuali è godere di maggiori diritti, che senso potrebbe avere forzare l'istituto del matrimonio secondo i propri desiderata?
Non sarebbe più facile praticare questa via anziché scegliere di "scimmiottare" il matrimonio eterosessuale?




domenica 23 giugno 2013

Sei tutelato, non lamentarti!



Si tratta di una retorica a dir poco strana e che, pur se sotto varie forme, suona, in genere, grosso modo, così: "Dal momento che tu sei maggiormente tutelato di me, per il lavoro che fai e per i diritti che, di conseguenza, ti vengono riconosciuti, non hai diritto a lamentarti né dello stesso né dei limiti che lo stesso presenta".



Se a ripetermela è l'uomo qualunque, l'uomo della strada, l'uomo che sulla piazza discetta di tutto, e che nulla sa del mio lavoro, pregiudizi o stereotipi a parte, alzo le spalle e tiro avanti, d'altra parte neanch'io so nulla del suo lavoro, e, quindi, non potrei mai e poi mai rispondere a tono ...



Se a ripertermela, però, è un mio collega, il quale, anche se magari malamente, sa benissimo come funziona la scuola italiana, comincio a preoccuparmi ...


Riflettendoci sopra mi convinco che sia una sorta di manifestazione della paurosa marcia indietro sui diritti che caratterizza le democrazie occidentali!



Chi me la ripete, infatti, è un precario della scuola, mentre io, a torto o a ragione, sono un effettivo della scuola. Allora, ogniqualvolta io ponga in evidenza limiti e criticità del "mio" mestiere, ecco che laconica parte la retorica: "Hai il coraggio di lamentarti? Tu sei di ruolo, io no, quindi, evita di proferire lamenti!".



A ben guardare, però, i miei non sarebbero lamenti, ma il legittimo esercizio di un diritto di critica, anche nei confronti del "piatto nel quale mangio".



Siccome, però, c'è sempre qualcuno meno tutelato di me, per rispetto della sua condizione, io, di ruolo, non dovrei lamentarmi (e quindi ingoiare qualsiasi rospo!) ...



Portata all'estremo, tale retorica imbavaglia tutti perché ci sarà sempre qualcuno messo peggio e rispetto al quale nessuno potrà più sindacare alcunché sul proprio lavoro ...



Dover guardare al peggio significa non chiedersi cosa fare per estendere i diritti anche a chi ne è escluso, ma sostanzialmente ridurli progressivamente anche agli altri.


Insomma, si realizza una colossale opera di marcia all'indietro sui diritti: dal momento che non tutti ne fruiscono appieno, riduciamoli anche agli altri!



E se tu osi porre in essere punti di debolezza del tuo lavoro, come salario, orario di servizio, utenza, team, e così via, devi stare zitto!



Non parlare, non fiatare, non muoverti!

Non sbandierare ai quattro venti i tuoi drammi, non volere a tutti i costi rendere partecipi tutti delle tue miserie!


Ipocritamente, allora, si afferma che siccome hai ancora un lavoro, devi tenertelo stretto, per rognoso e "stretto" che sia ...



Il che significa anche tagliare il mio diritto di critica, imbavagliare la mia lingua ...



Fortuna che ci sono ancora i blog!



Peraltro, la cosa ancor più sorprendente è la seguente: se ti lagni di tale retorica, i tuoi stessi colleghi se ne fregano! Così, resti solo ... tu e il divieto di obiezioni!



Allora, però, la retorica in questione risulta infine falsa: se non posso lamentarmi, mi manca una tutela (della libertà di pensiero e parola) ...


... ma questo sarebbe un discorso troppo lungo che la retorica in questione derubricherebbe a mero sfogo, e per il quale non osta perderci tempo sopra ...

Lasciamo allora che il vento fluisca placido tra le canne che si specchiano sul mare ...




(immagine tratta da: http://psicologoinfamiglia.myblog.it/media/02/00/443447200.jpg)


... e lasciamo ai tanti psicologi d'accatto, così numerosi sul web (senza però aver mai studiato psicologia ...), l'onere di diagnosticare al sottoscritto patologie personali e/o professionali ...

E tuttavia solo una cosa ancora: machissenefrega di tali pareri manco richiesti? Narcisisticamente, questo bisogno di diagnosticare patologie negli altri, cosa sarebbe?

lunedì 10 giugno 2013

Ce lo chiede l'Europa? Seconda parte



La ricchezza sul pianeta è a mercato chiuso nel senso che al momento non è possibile commerciare con Marte o Giove ragion per cui, di necessità, sullo stesso pianeta alcuni sono ricchi, altri sono poveri, alcuni esportano, altri importano. É la lezione ultima dell'economia classica: due attori che commerciano tra loro non sono equipotenti, ma uno dei due è più ricco mentre l'altro è più povero. Ma una ricchezza asimettrica nella sua distribuzione significa una cosa soltanto: una sproporzione del livello di vita vissuta dai singoli. La nuova frontiera attuale, infatti, si presenta agli occhi di Canfora come l'inveramento di antiche dottrine politiche, in primo luogo della schiavitù. Oggi certamente “ritorna la schiavitù”[1]. D'altra parte, “nuove schiavitù e virulento ritorno del razzismo si sorreggono a vicenda: sono due facce della stessa medaglia”[2]. Questo curioso fenomeno di ritorno all'antico e di attuali sue declinazioni coevi consente di attingere alle lezioni del passato, anche al fine di “alimentare la coscienza e la sete di giustizia dei moderni”[3].

Ma mentre l'asimettria economica del mondo moderno consente di riabilitare la conoscenza del passato, al fine di interpretare il mondo attuale, un'adeguata, quanto appropriata coscienza storica, consente anche di scorgere i limiti del nostro modello economico, altrimenti, quanto impropriamente, definito nei termini di 'modello di sviluppo'. In altri termini, il profitto non è affatto sacro. Anzi, ed ancor più radicalmente, il profitto non è affatto l'approdo definitivo della storia umana. Appare, allora, del tutto ingenuo a Canfora “immaginare che le società abbiano raggiunto il punto di arrivo, oltre il quale c'è solo la ripetizione in eterno”[4]. Il capitalismo, e con esso la teoria economica classica, è solo un momento, peraltro contingente, della storia umana, e non il suo termine.

É possibile scorgere, allora, una polarizzazione costante attorno a due visioni concorrenti: l'idea in forza della quale il capitalismo è la forma definitiva della storia umana e l'idea secondo la quale, al contrario, il capitalismo è solo uno dei tanti modi “di produzione”[5] scelti dagli uomini nel corso dei secoli, e come tanti altri che lo hanno preceduti, cedrà il passo a sua volta ad un altro, del tutto differente. Tuttavia, l'effetto ottico della fine del socialismo reale ha consentito che, nell'animo dei più, apparisse vincente, quanto eterna, l'idea dell'eternità del capitalismo. Invece, la “crisi che dura ormai da anni sta demolendo, nelle persone in buona fede, questo dissennato idòlum”[6].

Veniamo così al caso presente, ossia al nauseante ritornello con il quale i nostri governanti hanno imposto le imposizioni impopolari della BCE alle esistenze quotidiane di ciascuno di noi.

É l'Europa che ce lo chiede, è lo slogan con il quale è stata sdoganata una sostanziale marcia indietro per i nostri stili di vita, un ritorno a condizioni di lavoro e di vita precedenti al XX secolo. E siamo adesso impegnati nella difficile transizione, nel transito della “terra di nessuno”, dall'era precedente, tutelata e garantita, a quella attuale, povera e insicura. Già qualcuno, ed anche a livello istituzionale, ha cominciato a fiutare il nuovo corso delle cose e si è esposto in nove solenni dichiarazioni di principio. Improvvisamente, allora, scopriamo che il lavoro, proclamato al contrario come tale anche dalla nostra veneranda Costituzione, non è un diritto[7].

Sostanzialmente, allora, si può affermare sensatamente che si fa sta facendo avanti una nuova concezione dei diritti, non più stabiliti dalla coscienza degli uomini, ossia dalla loro sfera morale, ma dall'economia. A guardar bene, però, e Canfora è attento a far scorgere la differenza, la situazione vigente è il risultato dello scollamento moderno di 'morale' e di 'economia': due teorie in principio unite, hanno allontanato reciprocamente i rispettivi passi.

Così, i diritti non sono affatto un puno di approdo, se non definitivo almeno a lungo duraturo, ma una tappa dell'inesorabile cammino dell'età.

Adesso, e tristemente, “sappiamo che è possibile anche una marcia all'indietro, e che essa è cominciata. «Ce lo chiede l'Europa!»”[8].

Anche se non è vero. Anche se sappiamo come, invece, siano i soliti noti a chiderlo, chi è maggiormente favorito dall'attuale possesso del potere economico. Ma giustificare una marcia indietro sui diritti è cosa ardua, senza ricorrere alla strategia del falso nemico, del vertice sommo dal quale è impossibile difettare e con l'utile cappello terroristico della crisi economica.


(immagine tratta da: http://www.slowfood.it/slowine/assets/crisi-economica.jpg)


Note

[1] [1] Cfr. L. Canfora, È l'Europa che ce lo chiede!” (Falso!), Laterza, Roma – Bari, 2012, p. 52.
[2] Ivi, pp. 52 – 3.
[3] Ivi, p. 54.
[4] Ivi, p. 56.
[5] Ivi, p. 58.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 69.
[8] Ivi, p. 76.