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martedì 14 gennaio 2020

Articolo 14 con sorpresa finale...



Quando il prof, non un attore o videomaker professionista, si mette in gioco!

Coinvolgimento e interesse fanno seguito ...




post scriptum

il finale è a sorpresa!

venerdì 8 marzo 2019

Sulle spalle dei nani #3




Sulle spalle dei nani #3


Una lettura della cosiddetta autonomia differenziata

Cosa significa, allora, una maggiore autonomia? Siccome quest’ultima è richiesta da alcune regioni, si configurerebbe una situazione ove alcune regioni trattengono sul proprio territorio funzioni rilevanti, oltre che qualificanti, dell’azione propria di uno Stato, mentre tutte le altre, almeno allo stato attuale o in un primo periodo, manterrebbero l’attuale separazione di ruoli, competenze e funzioni tra Stato centrale e Regioni. 


Questo, in assenza di una cornice unica nazionale in merito ai livelli standard di prestazioni al cittadino da erogare sull’intero territorio nazionale, suscita già alcune perplessità e certo non pochi timori in merito all’eccessiva frammentazione locale dell’azione propria di uno Stato. Non per nulla si fa notare infatti come, nella retorica pubblica, si contrapponga uno Stato centrale, inefficiente ed iniquo, a Regioni, efficienti ed eque. In realtà, quel che si rimprovera allo Stato, segnatamente la sua centralità burocratica, può benissimo venir rimproverato alle regioni, ree di volere costituire, a livello locale, la medesima centralità che desiderano sottrarre allo Stato.

Comunque, a nulla valgono premesse come “nell’ambito unitario del sistema nazionale”, ed affini. Ma entriamo nello specifico. Le regioni in questione non si accontentano di nuovi poteri, chiedono anche nuovi finanziamenti. E qui i timori diventano ampi. Infatti, pur nei complessi meccanismi di calcolo, a processo approvato dal Parlamento, nei termini di legge dello Stato che ratifica l’intesa tra le regioni interessate e il Governo, emerge che lo Stato dovrebbe trasferire alle regioni la correlativa spesa, calcolata sul fabbisogno storico di queste ultime. Con l’aggiunta, certo non trascurabile, di ogni qualsiasi nuova entrata tributaria che in futuro potrebbe verificarsi. In altri termini, l’eventuale posteriore extragettito resterebbe sul territorio e verrebbe gestito direttamente dalle regioni medesime. 



E qui cominciano i problemi. Infatti, ciò equivarrebbe a consentire a queste regioni, le più ricche del Paese, di trattenere approssimativamente qualcosa come il 90% delle entrate fiscali attuali, pur in regime di compartecipazione tra Stato e regioni, nonché ogni futuro incremento nella misura del 100% del totale. Ma dette regioni contribuiscono alle entrate fiscali di tutto lo Stato. Ne consegue, pertanto, che, a regime, la quota complessiva dei finanziamenti centrali ai territori più depressi dovrebbe giocoforza diminuire. Non a caso, in molti hanno visto nella richiesta di maggiore autonomia una sorta di “secessione dei ricchi”, e sotto un certo aspetto, non può dirsi che abbiano torto. 


Altri ancora hanno ravvisato il concreto rischio di una “morte dello Stato”. Quest’ultima ipotesi, pur nebulosa dato che discutiamo di possibilità e di scenari inediti, però, non tiene conto della possibilità prevista dal decisore politico, ovvero quanto previsto dal terzo comma dell’art. 116 Cost. Vale a dire, perché prevedere questa possibilità se spostare funzioni, competenze e risorse dal centro alla periferia appare pericoloso? Soprattutto per la tenuta stessa della coesione nazionale? 

Il problema, a dire il vero, non è la forma della previsione, ma la sostanza dell’intesa tra Regioni e Governo. Detto altrimenti, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle possibilità previste dal comma terzo dell’art. 116 Cost., ma nessun Governo sarebbe obbligato ad accettarle tutte. Ed ancora, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle risorse attualmente erogate per svolgere queste funzioni a livello centrale o concorrente, ma in alcun caso il Governo è automaticamente costretto a cedere. 

Il problema, come si vede, è più di levatura morale degli attuali decisori politici che di tenuta democratica del sistema nel suo complesso, e rimanda, pur con una pluralità di livelli diversi, alla dicotomia tra forte e debole, tra attori istituzionali e decisori politici, dai territori economici alla redistribuzione della ricchezza, etc.


Apriamo, infine, una piccola parentesi sulla cornice di equità di un simile progetto.


Non si tratta, a ben vedere, di astratte ed altissime questioni morali, anche se in realtà la maggiore o minore prossimità di queste ultime alle situazioni reali dipende dall’ingegno che le declina in concreto e non da loro stesse. Si tratta, invece, di vere e proprie questioni di giustizia materiale, o, se si preferisce, sostanziale. Come asserisce Martha Nussbaum, ad esempio, «i doveri di giustizia sono molto rigidi e richiedono alti standard morali di tutti gli attori nel loro agire» (Nussbaum, Giustizia e aiuto materiale, p. 11). Per poter declinare in concreto cornici teoriche di riferimento ci vorrebbero decisori politici di grande statura, e questi, purtroppo, al momento mancano. Ma se a prendere le decisioni sono piccoli personaggi politici, ecco che le questioni di giustizia potrebbero venir eluse, con grave danno per l’intera collettività.


Da ultimo, certe realizzazioni concrete dell’ideale di giustizia vengono giustificate in nome di un tecnicismo politico avalutativo, vale a dire neutro rispetto alle medesime finalità cui mette capo. Questa sorta di avalutatività ruota intorno al frainteso concetto di diritto: non il diritto dei soggetti, ma l’oggettività materiale di leggi, codici, norme … Questo modo di procedere, oltre che ideologico, e per preciso calcolo politico, sul quale non entriamo, un po’ per pudore e un po’ per non fare il loro gioco, manca di considerare o di dichiarare che la legge «è un districarsi difficile e impegnativo nel ragionevole compito di trovare le strade per smussare i contrasti, promuovere la convivenza, impedire le prevaricazioni, assicurare a ciascuno, nella vita comune, una parte non mortificata» (Zagrebelsky, La virtù del dubbio, p. 51). Non una legge assoluta, e, per ciò stesso, vera, oltre che giusta, ma un diritto mite, «strumento di convivenza delle diversità» (Ivi, p. 50). Ma in questa presunta neutralità materiale del diritto, i suoi sostenitori innalzano un Moloch unico al cui altare sacrificare ogni differenza, ogni diversità, costituendo un unico diritto per tutti e per nessuno.

E la giustizia? Già, dov’è finita? Far parti eguali tra diseguali non è equo. Se il diritto ad una dimensione considera tutti su un piano di eguaglianza, sia pure solamente formale, non tiene conto, per come dovrebbe invece, di tutta una serie di «diseguaglianze che sorgono dalle abilità produttive, dai bisogni e altre variabili personali» (Sen, La diseguaglianza, p. 169). Detto altrimenti, nessuno nasce in parità con gli altri. Ognuno nasce all’interno di una rete di diversità, economica, culturale, sociale. Questa diversità influenza pesantemente la posteriore esistenza del soggetto, in positivo ma anche in negativo, con tutte le ricadute del caso riguardo a libertà personale, capacità lavorativa e benessere esistenziale complessivo. Dire che siamo liberi non ci rende affatto liberi se poi vi sono difficoltà materiali all’esercizio effettivo di detta libertà.

Inoltre, istituzioni che si limitano a declamare avalutativamente l’eguaglianza formale o la libertà teorica delle persone, rendono un buon servizio alla giustizia? Ovviamente, no. E questo la dice lunga sulla vocazione progressista o umana di coloro che esaltano la natura tecnica del diritto e delle legge. 


Al contrario, così come la libertà umana non esiste nella sola concezione astratta, ma, al contrario, ha bisogno di condizioni materiali di effettivo esercizio, per poter esistere non di per sé, ma al servizio di attori sociali umani concreti, le istituzioni come intendono promuovere la giustizia? Rammentiamo che il costituzionalista ha ben inteso questo compito nei due paragrafi dell’art. 3 Cost., un illustre sconosciuto ai novelli costituzionalisti degli ultimi decenni. Ci dice ancora una volta Sen, non a caso ideatore di un approccio alle capacità come declinazione concreta delle esigenze di giustizia, «dobbiamo anche riflettere su come le istituzioni dovrebbero essere regolate qui e ora, in modo da promuovere la giustizia favorendo la libertà e il benessere di coloro che vivono oggi, e che domani non ci saranno più» (Sen, L’idea di giustizia, p. 92). Come potrebbe conciliarsi un’autonomia differenziata con il compito costituzionale della rimozione delle cause materiali dell’ingiustizia? Oppure, peggio, come potrebbe accettarsi una ripartizione delle risorse economiche che rendesse impossibile la rimozione di dette cause in alcuni territori? O, ancora, come sarebbe possibile garantire standard anche minimi di servizi alla collettività con una dotazione finanziaria anche inferiore a quella attuale? Ma, e allargando ulteriormente il focus, come si potrebbe ancora parlare di redistribuzione della ricchezza se questa rimane su alcuni territori?


Sembra quasi, che noi si viaggi sulle spalle di nani, i quali soffrono di un particolare disturbo visivo in forza del quale il molto piccolo, e particolare, ha sostituito tutto il resto. Una caratteristica inversione del rapporto hegeliano tra le parti e il Tutto, indicativa della loro levatura politica.



(url: http://www.affaritaliani.it/static/upl2018_restyle/vies/viesti-secessione10.jpg)

Indice degli articoli relativi all'autonomia differenziata e ai suoi problemi (qui)

venerdì 22 febbraio 2019

CittadinanzaCost#1



Nuova pillola di Cittadinanza e Costituzione!

Se la qualità non sarà eccelsa e se saranno presenti innumerevoli errori, portate pazienza! Nonostante ch'io mi impegni forte forte forte, non posso mica eccellere o confezionare dei prodotti professionali. No? Ma non ditelo al ministro …


mercoledì 13 febbraio 2019

CittadinanzaCost#0

Inauguriamo una nuova serie: pillole di Cittadinanza & Costituzione!

Caro ministro, come vede, non è che non ci impegniamo. Ma bastasse il solo impegno …


lunedì 4 giugno 2018

mercoledì 30 maggio 2018

Competenze di cittadinanza #1


Visto che c'è un po' di confusione, per non dire proprio ignoranza in merito, inauguro questa nuova serie, ovvero lezioni e materiali utili in materia di cittadinanza attiva.

Buono studio!


mercoledì 25 maggio 2016

Di unioni, ma civili?

"La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare"

Art. 29 Cost.

Questo il reale riferimento della legge.

Dove sono le unioni civili?

La civile mistificazione del matrimonio etero.

mercoledì 18 maggio 2016

Di unioni e civili



"Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese"

Art. 3 Cost.

Questo il rimando della legge.

Dove stanno le unioni civili?

La confusione del legislatore.

sabato 14 maggio 2016

Di unioni e civiltà



"La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale"

Art. 2 Cost. 

Questo il rimando della legge. 

Dove stanno le unioni civili? 

Questioni inevase dal legislatore.

lunedì 22 luglio 2013

Il matrimonio omosessuale è un diritto? FAQ

Il matrimonio omosessuale è un diritto? FAQ


(immagine tratta da: http://ioamolitalia.it/public/immagini/_resized/matrimonio-omosseuale_530X0_90.png)

Sollecitato in tal senso, offro una versione più "divulgativa" del precedente post (http://alessandropizzo.blogspot.it/2013/06/il-matrimonio-e-un-diritto.html). Spero sia apprezzato almeno tanto quanto lo è stato il precedente.

FAQ

Come mai per i "matrimoni gay" non può parlarsi di "diritto" rispetto ai soggetti che vorrebbero contrarlo?

L'unione tra due persone eterosessuali, libere e in possesso della capacità giuridica (18 anni), è inquadrata, dal Codice Civile come un negozio giuridico, in forza del quale un uomo e una donna dichiarano di volersi prendere rispettivamente come marito e moglie, e come un rapporto dal quale discendono conseguenze di natura e personale e patrimoniale. Questa è la famiglia, rigidamente eterosessuale.

Cos'è dunque la famiglia?

La famiglia è quindi l'effetto del matrimonio eterosessuale, ossia tra due persone di sesso differente, le quali contraggono unione agli occhi della legge, impegnandosi reciprocamente e conseguendo da tale unione precisi effetti civili, ossia patrimoniali.

Chi sono i coniugi?

Il Codice Civile declina in concreto l'inquadramento che della materia offre la Carta Costituzionale la quale (art. 29) parla nei termini di una società naturale fondata sul matrimonio e sulla parità, morale e giuridica, dei coniugi.
Nello stesso Codice peraltro si parla sempre di "marito" e di "moglie" ad indicazione del ruolo sociale attribuito ai singoli in quanto rispettive espressioni di due sessi differenti.
Ma il matrimonio è un diritto? 

Se lo è, sorgono dei dubbi, più o meno legittimi, sull'esclusione di alcuni soggetti dal poterlo liberamente contrarre. Ma il matrimonio eterosessuale tutto è fuorché un diritto nel senso che i soggetti interessati, un uomo e una donna, possono liberamente contrarlo ma non viene affatto loro garantita la relativa fruizione. 

E come mai due persone dello stesso sesso non potrebbero "sposarsi"?

Il nostro Codice Civile, in esecuzione del dettato costituzionale, stabilisce come i due contraenti il matrimonio assumano nuovi stati personali, di marito, nel caso del contraente uomo, e di moglie, nel caso del contraente donna. Ammesso, e non concessa, la possibilità di matrimoni per esponenti dello stesso sesso, sorge il problema dei relativi stati personali addotti dai due soggetti dello stesso sesso uniti in matrimonio.

Ma se lo vogliono, negarlo non è la violazione di un diritto?

V'è, nella cultura moderna, un perdurante e imbarazzante equivoco il quale porta a pensare che qualsiasi desiderio personale, o, se si preferisce, capriccio, sia un diritto, ossia una pretesa personale legittima, e, quindi, meritevole di tutela: da promuoversi da parte della propria collettività di appartenenza. Il Codice Civile non qualifica la fattispecie del "matrimonio" nei termini di un diritto soggettivo, ossia di una pretesa legittima da promuovere, ma di un contratto stipulato liberamente tra due parti.

Se è equivoca la nozione comune di diritto, come mai la questione dei matrimoni omosessuali è irta di equivoci?

Ritengo come nel caso presente l'equivoco sia doppio: 1) si equivoca sul significato, in termini di diritti, della parola 'matrimonio'; e, 2) s'intende il matrimonio tutta quella serie di effetti giuridici e patrimoniali che il matrimonio come rapporto comporta. In realtà, infatti, è l'esclusione da questi effetti per le coppie dello stesso sesso che provoca reazione e, in alcuni casi, porta a parlare di discriminazione o di violazione di diritti dei soggetti. Ma è concettualmente infondato parlare del matrimonio omosessuale nei termini di un diritto: non lo è per le coppie eterosessuali, perché dovrebbe esserlo per quelle dello stesso sesso?

Allora perché gli omosessuali vi insistono?

In genere, essi argomentano più o meno nella maniera seguente:

Se i diritti non discendono dal tipo di coito che viene realizzato liberamente da due persone di diverso sesso, perché negare gli stessi diritti a due persone dello stesso sesso le quali liberamente decidono di dedicarsi al coito?

Esaminiamo questa argomentazione.

Essa presenta due possibilità diverse in equilibrio simmetrico: il coito eterosessuale e il coito omosessuale. In forza di questa simmetria, vieta qualsiasi differenza per relativi trattamenti giuridici pena la discriminazione degli uni come degli altri. Ma siccome nel primo caso sono garantiti dei diritti, in genere di natura patrimoniale tra i coniugi, e nel secondo caso no, ecco che scatta il meccanismo della rivalsa: siamo in presenza di una discriminazione in quanto ad alcuni vengono negati gli stessi diritti.

L'argomentazione è però erronea perché si contraddice dal momento che finisce con il legare il godimento di determinati diritti alla pratica del coito piuttosto che legarli alla personalità di chi la pratica. Se presa sul serio, allora, tale argomentazione finisce con lo spostare la titolarità del diritto in quanto tale dall'essere una persona al praticare una determinata azione. Fatto questo, dato che il desiderio soggettivo viene equiparato ad un 'diritto', si sostiene come nessuno possa impedirlo.

Dunque, sarebbe un diritto?

Se davvero il matrimonio è un diritto questo non discende dal fatto che un uomo e una donna pratichino il coito, ma dal fatto che decidono liberamente di unirsi nel rapporto giuridico del matrimonio. Il coito, per dirla altrimenti, è secondario rispetto alla liceità della contrazione di matrimonio. Peraltro, gli effetti personali e patrimoniali, cruccio delle coppie omosessuali, non derivano dal tipo di coito che viene praticato, etero o omo, ma dal matrimonio come rapporto (tra due persone di sesso differente). Questo perché non ha senso far discendere una conseguenza giuridica, peraltro delicatissima come un diritto soggettivo, non dall'essere una persona, ossia dalla nascita, ma dal momento in cui la stessa sceglie di praticare il coito in una certa maniera.

Nel voler giustificare la pretesa del matrimonio omosessuale si finisce con il rovesciare il fondamento antropologico del diritto, spostando il soggetto del diritto dalla naturalità della persona in quanto tale, alla secondarietà della persona che, ad un certo punto, sceglie di vivere in un certo modo e, conseguentemente, produce determinate pratiche materiali.

In conclusione?

Il matrimonio non è un diritto e non può essere invocato come tale dalle coppie dello stesso sesso. Il non prevederne la possibilità non è, per logica conseguenza, una discriminazione: non sussistendo in caso contrario un diritto, quanti vengono esclusi non possono in alcun modo sentirsi privati di una possibilità positiva. Piuttosto, dal momento che in ogni caso bisogna parlare dei diritti delle persone è pensabile ad un miglioramento del trattamento patrimoniale dei soggetti costituenti delle coppie omosessuali. Questo è fattibile, ma senza mettere mano al diritto di famiglia. Peraltro, se il reale desiderio delle coppie omosessuali è godere di maggiori diritti, che senso potrebbe avere forzare l'istituto del matrimonio secondo i propri desiderata?
Non sarebbe più facile praticare questa via anziché scegliere di "scimmiottare" il matrimonio eterosessuale?




giovedì 16 maggio 2013

Kaputt!



"Tutti fuggivano la guerra, la fame, le pestilenze, le rovine, il terrore, la morte, tutti correvano verso la guerra, la fame, le pestilenze, le rovine, il terrore, la morte. Tutti fuggivano la guerra, i tedeschi, i bombardamenti, la miseria, la paura, tutti correvano verso Napoli, verso la guerra, i tedeschi, i bombardamenti, la miseria, la paura, verso ricoveri pieni d’immondizie, di escrementi, di gente affamata, sfinita, istupidita. Tutti fuggivano la disperazione, la miserabile e meravigliosa disperazione della guerra perduta, tutti correvano incontro alla speranza della fame finita, della paura finita della guerra finita, incontro alla miserabile e meravigliosa speranza della guerra perduta. Tutti fuggivano l’Italia, andavano incontro all’Italia"


(C. Malaparte, Kaputt, Adelphi, Milano, 2009, pp. 425 – 6)




Nel furor iconoclasta che storicamente ha messo in questione il topos del nesso tra Resistenza e Repubblica, via lo stretto adito costituito dalla Costituzione, s'insiste sulla condizione universale dell'italiano all'indomani dell'armistizio, lasciato a sè stesso e tutto preso da una sostanziale frenesia per la propria sopravvivenza.



Questo avvenne di certo, ma non fu l'unico fenomeno storicamente apprezzabile.



Tutti agirono. Alcuni per sé. Altri per tutti. Non tutti se ne fregarono dello Stato o della Patria.




Solo che il venir meno del velo di Maya dell'organicismo fascista acuisce la percezione del pluralismo che di certo presisteva all'8 settembre del '43 ma era rimosso, occultato, nascosto sotto le liturgie pubbliche del regime, e che, una volta venuto meno quest'ultimo, sembra esplodere improvvisamente, trascinando con sé anche l'amor patrio.



Questo, ovviamente, non significa che quegli anni furono una passeggiata. Anzi, furono durissimi.



Ma non tutti li vissero per il proprio personale tornaconto, sopravvivenza o meno che fosse.



(immagine tratta da: http://www.artapartofculture.net/new/wp-content/uploads/2011/03/IlGioiellino.jpg)