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martedì 24 agosto 2021

Considerazioni impopolari sull’eutanasia legale

 




(url: https://lospiegone.com/wp-content/uploads/2020/12/euthanasia.jpg)

Considerazioni impopolari sull’eutanasia legale

 

Nel convulso e caotico crocevia dei fatti internazionali (Afghanistan), delle polemiche interne su vaccini e greenpass, ancora freschi di campionato europeo appena vinto, c’è un movimento referendario che, quasi sottotraccia, pare aver raggiunto la soglia psicologica delle 500mila firme, suggello necessario per potersi validamente candidare a momento di convocazione dei seggi. È la proposta chiamata “Eutanasia legale”, sulla quale svolgerò in questa sede alcune veloci ma efficaci considerazioni non popolari, ovvero che non piaceranno ai più, e probabilmente proprio ai promotori referendari e ai loro molteplici sostenitori, tifosi e partigiani.

Forse si vorrebbe che io prendessi nettamente una posizione, pro o contro l’oggetto del contendere, la legalizzazione dell’eutanasia. Ma non lo farò. Innanzitutto, perché uno schierarsi preliminare di per sé non è efficace nel conferire fondatezza alla posizione che s’intende sostenere. E, in secondo luogo, perché l’oggetto del contendere non è automaticamente o nativamente prendere le une o le altre parti quanto, e piuttosto, mostrare quanto vi sia di errato nella proposta “Eutanasia legale”. Immagino che alcuni potrebbero già dirmi “va beh, non sei d’accordo, e allora non potresti parlarne”. Ma questo è un violento modo di procedere che nega a priori qualunque possibile serio e costruttivo confronto. Anzi, è un negare validità all’interlocutore, né più né meno che dire che in quanto uomo, ad esempio, non potrei occuparmi di questioni di genere. Oppure che non essendo ricco, io non possa interessarmi dei ceti sociali superiori. Oppure ancora che non essendo genitore, non possa sensatamente discutere dell’educazione dei figli. Gli esempi sarebbero innumerevoli, ma ragione vuole che comunque ci si esprima e solo dopo si valuti la bontà degli argomenti, senza esclusioni aprioristiche degli interlocutori. Allora, posso pure immaginare la scontata risposta di certi interlocutori; “Va beh, ma siete in pochi, forse solo tu, a vedere le cose in questi termini”. Non è un’obiezione forte, anzi, a dispetto dell’apparente forza, denota una profonda debolezza. La bontà non dipende dal consenso, ma dal valore degli argomenti.

E sebbene impopolari, le mie considerazioni andranno prese sul serio.

 Di cosa si tratta? Di chiedere agli elettori il loro consenso all’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale. La sua attuale formulazione è la seguente:

Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.

Non si applicano le aggravanti indicate nell'articolo 61.

Si applicano le disposizioni relative all'omicidio [575-577] se il fatto è commesso:

1) contro una persona minore degli anni diciotto;

2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;

3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno [613 2].

Beh, se immaginiamo al contesto astratto dell’eutanasia, camera medica, personale in camice, il letto del paziente, macchinari medicali vari non sembra che l’abrogazione parziale del presente articolo centri molto. Secondo la Treccani, con ‘eutanasia’ deve intendersi “Azione od omissione che, per sua natura e nelle intenzioni di chi agisce (eutanasia attiva) o si astiene dall’agire (eutanasia passiva), procura anticipatamente la morte di un malato allo scopo di alleviarne le sofferenze. In particolare, l’eutanasia va definita come l’uccisione di un soggetto consenziente, in grado di esprimere la volontà di morire, o nella forma del suicidio assistito (con l’aiuto del medico al quale si rivolge per la prescrizione di farmaci letali per l’autosomministrazione) o nella forma dell’eutanasia volontaria in senso stretto, con la richiesta al medico di essere soppresso nel presente o nel futuro. L’uccisione medicalizzata di una persona senza il suo consenso, infatti, non va definita eutanasia, ma omicidio tout court, come nel caso di soggetti che non esprimono la propria volontà o la esprimono in senso contrario” (fonte: https://www.treccani.it/enciclopedia/eutanasia/). E in genere quando pensiamo allo scenario che attiva il ricorso all’eutanasia pensiamo sempre ad un contesto medico o comunque ad una situazione soggettiva di sofferenza non sopportabile, lenita appunto per mezzo del ricorso alla soppressione di colui che soffre e che chiede di morire. Sembra quasi allora che l’eutanasia sia un gesto pietoso nei confronti dei sofferenti e sicuramente in questo senso molti astrattamente immaginano questa pratica come giusta, come una conquista di civiltà, come un diritto soggettivo, finalizzato a rendere i soggetti liberi sino alla fine, come nel motto del movimento referendario. Beh, così non è, e lo vedremo subito. Intanto il quesito referendario per il quale si raccolgono le firme è il seguente:

“Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1 limitatamente alle seguenti parole «la reclusione da sei a quindici anni.»; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole «Si applicano»?” (fonte: https://referendum.eutanasialegale.it/il-quesito-referendario/).

Se il numero di firme fosse sufficiente e se Corte di Cassazione e Corte Costituzionale dovessero dare parere positivo e fosse raggiunto il quorum e la maggioranza dei voti fosse per il sì, l’effetto della consultazione sarebbe la rimodulazione seguente del suddetto articolo 579 del codice penale:

Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso:

Contro una persona minore degli anni diciotto;

Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;

Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno [613 2]”.

Bene, e dove starebbe qui l’eutanasia? Dove la libertà dei malati terminali? Di quanti soffrono per condizioni sanitarie non emendabili? In che termini la morte di chi la richiede (consenziente) sarebbe “buona” o “dolce”? Inutile dire che l’intento del movimento referendario è quello di disarticolare il divieto di omicidio del consenziente, ma non sarebbe ancora eutanasia, perlomeno di quel mito sociale cui quasi tutti pensano. Soffro, e smetto di soffrire. Voglio morire perché questa vita non mi dà nulla, ma non voglio soffrire. In realtà, l’effetto finale è quello di non perseguire più l’omicidio di un consenziente, a meno che il consenziente non fosse un minore, una persona non sana di mente o in condizioni di infermità o incapace di intendere e di volere, o il consenso estorto o carpito con l’inganno. Il mero riferimento al consenso espresso dal consenziente non configura in maniera precisa la fattispecie dell’eutanasia, ma di una possibilità omicidiaria che non per forza dovrebbe essere dolce o buona. Quindi, non sarebbe più perseguibile chi uccide un consenziente. Ma chi dovrebbe ucciderlo? E come? E quando? E in quali condizioni? Anche lo stesso consenso è sempre validamente espresso? Oppure una volta espresso non è più modificabile se si cambia idea nel frattempo? E come dev’essere espresso? Questo i promotori del referendum non lo dicono con il loro quesito, ma lo sviluppano in un discorso generale comunque posteriore alla stessa consultazione referendaria, forti del testamento biologico e della sentenza della Corte Costituzionale sul caso del suicidio assistito del DJ Fabo. 

Ma il quesito ha poco di eutanasia, e molto di legittimazione dell’omicidio. Senza peraltro quella condizione “senza soffrire” che rende appetibile la pratica. Ed immagino che l’entusiasmo di molti già giunti a questo punto si sia raffreddato. Magari possono anche sentirsi un po’ imbrogliati, ma il marketing referendario funziona un po’ sempre così. E ciò dipende non tanto dalla buona fede dei comitati proponenti, ma dall’istituto stesso del referendum, che nel nostro ordinamento è abrogativo, nel caso di leggi ordinarie, e confermativo, nel caso di leggi costituzionali. Non è propositivo, e, quindi, votando il quesito di Eutanasia legale gli elettori non votano affatto per una proposta, rendere legale l’eutanasia, ma per abrogare parzialmente un articolo del codice penale. Inutile nascondersi che un siffatto esito referendario obbligherebbe il legislatore ad intervenire, sia per coordinare l’art. 579 del codice penale così novellato con il resto dell’ordinamento giuridico sia per, eventualmente, normare davvero l’eutanasia. Dunque, pare non sbagliato interpretare la consultazione più un tentativo di forzare la mano ai decisori politici piuttosto che una legalizzazione tout court dell’eutanasia.

Eppure, e paradossalmente, anche per quello che dirò a breve, nonostante tutto, è il quesito proposto una maniera contorta per rendere legale la pratica in questione. Sì, se colui che sopprime chi lo richiede non è più perseguito, viene soddisfatto uno degli aspetti costituenti l’eutanasia. E, a mio sommesso parere, è anche l’aspetto principale dell’oggetto del desiderio: l’eutanasia è un modo edulcorato per dire omicidio di chi lo richiede. E la pretesa che sia data esecuzione al volere dei singoli sembra calcare le movenze di un’obbligazione: il mio consenso ti obbliga ad eseguire la mia volontà …

Qui termina la disamina legale e cominciano le considerazioni politiche ed etiche. Si dirà che in fondo il legislatore deve fare ciò che desidera la maggioranza: se quest’ultima vuole l’eutanasia, l’eutanasia dovrà essere legalizzata. Un modo di procedere forte e sbrigativo, se si vuole, ma poco corretto. Il legislatore, cioè, sarebbe un mero esecutore degli umori impulsivi della maggioranza popolare. Purtroppo, questo modo d’intendere le relazioni tra rappresentanti e rappresentati travalica un po’ lo stretto ambito politico per tracimare in molti altri settori. La stessa medicina non ne è esente. Quante volte si sente dire in giro che il medico dovrebbe fare il volere del paziente? Se pensiamo all’interruzione volontaria di gravidanza, giusto per fare un esempio scevro di irritabilità, monta sempre più l’idea che il ginecologo per definizione non possa essere obiettore perché, così facendo, violerebbe il diritto della donna che vorrebbe interrompere la gravidanza. Questo perché il medico non deve fare il medico con scienza e coscienza (la sua), ma dare esecuzione pratica ai voleri del paziente. Oppure, quando ci si rivolge ad un professionista, non si accettano le soluzioni proposte da quest’ultimo, ma si vorrebbe che facesse quello che noi vorremmo. Un altro esempio potrebbe essere la relazione tra i genitori e i docenti. Sempre più non si accetta la valutazione scolastica, come se i docenti dovessero ottemperare al volere delle famiglie …

Per come la si guardi la questione, comunque, rimane inevasa una correlata questione: è politicamente corretto che una comunità accetti l’istituto dell’eutanasia? La questione non è leggera né scontata, anzi piuttosto scivolosa. E la risposta dipende dal tipo di legame che i singoli hanno con il gruppo di appartenenza. In effetti, quando i singoli chiedono di morire? Quasi sempre quando si sentono soli a dover affrontare l’imminente fine della loro vita oppure a dover sopportare sofferenze interminabili e così via. Allora, l’eutanasia appare la richiesta politica di recidere definitivamente i rapporti con il resto della comunità. O, per meglio dire, recidere anche in concreto dei rapporti che sono già interrotti. Ma, in questo caso, il farmaco, l’eutanasia, sarebbe migliore del male, le relazioni frammentarie, discontinue, insufficienti in seno alla società? Credo di no, anche se magari alcuni singoli potrebbero pensarla diversamente. Ma, ancora una volta, dobbiamo pensare a partire dai singoli oppure a partire dalla comunità politica? Forse, una delle chiavi del successo popolare di queste pratiche sta appunto nel grado di massimizzazione delle attese dei singoli. Infatti, l’eutanasia appaga il mio volere singolo di recidere i rapporti con questa vita e di farlo senza sofferenza. In qualche modo, allora, l’eutanasia è il risultato del disagio politico dei soggetti, privi di legami soddisfacenti con il resto della popolazione e frammentanti nel mare magno della complessità. In realtà, il problema non è nemmeno dei soggetti, i quali, in quanto tali, istanziano singolarmente la frammentazione moderna delle comunità politiche, ma della mancanza di un pensiero politico. Non manca la politica, anzi ve n’è sin troppa, ma la capacità di formularne valori, principi ed orizzonti di senso condivisi. Io non ci sto, voglio andarmene dolcemente …

Sicuramente l’eutanasia è tecnicamente possibile. Ma è anche giusta? E qui ci addentriamo nelle considerazioni etiche. Non bioetiche, ma etiche. E la precisazione è una precisa scelta di campo. Abbiamo detto poco fa che l’eutanasia è, senza tanti giri di parole, un atto che consiste nella soppressione di un terzo che ne faccia esplicita richiesta.  È, cioè, un omicidio. Ma in ragione di una sorta di contratto tra i due non comporterebbe conseguenze spiacevoli per l’assassino. Le parole paiono importanti: se dico “omicidio”, l’eutanasia non pare improvvisamente tanto bella o appetibile. L’omicidio è un insieme di azioni volutamente messe in campo per togliere la vita ad un soggetto. Che quest’ultimo lo desideri non è davvero significativo. E non lo è nemmeno che avvenga in regime di sedazione profonda. Un soggetto umano uccide un altro soggetto umano. È giusto? Dubito che possa esserlo. Ma delle tante ulteriori obiezioni che si potrebbero muovere, prendiamo in considerazione solo un aspetto rilevante per i miei attuali argomenti etici. L’eutanasia è tale se chi lo richiede cessa di vivere senza soffrire. La nostra società è terrorizzata dalla presenza del dolore, e pretende che, attraverso appositi strumenti, sia progressivamente tolta, quando non del tutto eliminata. La cosa non deve stupire: la presenza del male nel mondo ha sempre suscitato scandalo. La novità sta nel rinnegare questa stessa cifra della condizione umana. Basta leggere Eschilo per avvedersene: vivere è soffrire. La vita è, per definizione, tensione, sforzo, mancanza, … sofferenza. Perché immaginare una vita priva di sofferenza? Perché migliore. Non si comprende allora perché non intensificare la terapia del dolore mentre invece si invoca la morte di chi soffre. Ora, colui che chiede l’eutanasia probabilmente non rifiuta la vita in quanto tale, ma quello specifico e singolare tipo di vita che gli è capitata. Forse non è sempre insopportabile o forse diventa strumento di affermazione di un principio o diritto: la vita è mia e ne dispongo. Riflettiamoci sopra un attimo: da sempre, i diritti soggettivi sono stati strumenti per il benessere dei soggetti umani. Quindi, i diritti erano mezzi mentre il fine erano i soggetti umani. Assistiamo oggi ad un proliferare di diritti la cui nota costante è l’inversione di detto rapporto, ovvero non si pretende più che il diritto sia riconosciuto per ampliare le sfere di libertà del soggetto umano, ma perché ciò che conta è il principio stesso, vale a dire il diritto in quanto tale. Ne consegue, allora, che dinanzi a diritti insaziabili lo stesso soggetto umano, da fine diventato mezzo, venga fagocitato. E l’esempio è senza dubbio calzante nel caso dell’eutanasia. Infatti, il diritto ingoia per intero il soggetto che lo richiede. E, in questo caso, l’effetto è definitivo. Chi sceglie l’eutanasia, non può tornare indietro, non può modificare le sue decisioni. Muore. “Ma lo ha scelto lui e noi non possiamo che rispettarne la volontà”. No, possiamo giudicarla. Ad esempio, chi ci garantisce che la sua volontà fosse pienamente consapevole? O che non fosse in qualche modo indotta? Immaginiamo un anziano malato in tutto dipendente dagli altri. Se questi gli facessero pesare la sua condizione, a lungo andare non potrebbe maturare la decisione di abbreviare la sua vita tramite il ricorso all’eutanasia? Sarebbe libero fino alla fine? Ne dubito. Ma facciamo un altro esempio. Poniamo caso che un facoltoso principe del foro per via di un incidente resti paralizzato dal petto in giù e che nonostante l’assistenza puntuale e abbondante, egli soffra del suo nuovo stato. Non maturerebbe un desiderio di eutanasia? Probabilmente, sì. Ma sarebbe un consenso libero? Difficile dirlo, se si prescinde dal tipo di vita che si troverebbe improvvisamente a dover condurre. Ma, e più a fondo, si ripete, anche in un’ottica di legittimazione culturale dell’eutanasia, che non basta vivere, che ci vuole qualcosa di più per meritarsi la vita. Questo è un concetto pericolosissimo in ottica etica perché separa gli uni e gli altri sulla base di un funzionalismo che non è disponibile per tutti. Uno dei campioni più noti di questa prospettiva è senz’altro Nussbaum, per la quale, tuttavia, permangono ancora ampi margini di liberalismo circa le condizioni eque da garantire a ciascuno perché possa vivere, al di là del semplice essere. Eppure, sullo sfondo si staglia sempre l’interrogativo di fondo: l’essere dell’essere umano è uguale al mero trascorrere del tempo? Cos’è che rende umana la vita umana? Possibile che l’essere degli esseri umani sia lo stesso del sasso? Del fiore? Della stella? È possibile che il disagio della modernità, che esperiamo, con i suoi eccessi di naturalizzazione della vita umana, di animalizzazione – mi si passi il brutto neologismo – della condizione umana, lo spaesamento innanzi alla complessità di ciò che esiste, abbia finito con il ridurre ciò che è umano a qualcosa di poco conto? Di, in fondo, insignificante? E tale da dover reclamare un surplus di sforzo vitale perché la vita umana sia davvero degna di essere vissuta? Se non basta sopravvivere, quali sarebbero gli standard superiori perché si viva? C’è chi indica la qualità della vita, chi una soglia massima di sofferenza da patire, chi un ventaglio di realizzazioni personali … Per Spaemann, uno tra i molti, la differenza che corre tra qualcosa e qualcuno è la capacità che gli esseri umani possiedono di avere contezza di essere individuali istanziazioni del genere umano. In breve, volendo abbreviare, potremmo semplificare dicendo che gli uomini non sopravvivono, ma vivono. E lo fanno perché la loro condizione non si riduce ad una qualità, ad una classifica di dolore patito, ad un elenco di obiettivi professionali da conseguire. Sicuramente, noi siamo anche funzioni, ma non siamo le nostre funzioni. Anche perché non a tutti sono date le medesime funzioni o lo stesso grado di funzionamento e neppure le medesime occasioni al cui interno espletarle. Non siamo qualcosa, ma qualcuno. E questo qualcuno non è un’isola separata dai suoi simili. Invece, l’onda possente dei diritti moderni ha le sembianze di una sequela frammentata di pretese e di rivendicazioni soggettive. Io voglio che …, io ho diritto a … Ma la cornice generale dei diritti personali cade dentro una cornice di relazioni umane. Altrimenti, tutti avremmo solo diritti, e nessun dovere. E, dunque, vivremmo dentro una condizione sociale di ingiustizia. Eppure, sfrondato dei nostri termini e del nostro periodare, le movenze del “partito” eutanasico sono proprio queste: io non godo di questa mia vita, io ho il diritto di rifiutarla! Ma non c’è soltanto l’io, ci siamo noi. Con l’eutanasia non è il singolo che rifiuta la vita, ma è un gruppo sociale che accetta di eliminare propri singoli. E perché  mai una comunità dovrebbe uccidere i propri membri mentre contemporaneamente condanna singoli che uccidano altri membri? È un interessante cortocircuito: si condanna l’omicidio quando commesso da singoli ma si legalizza l’omicidio quando viene commesso dalla comunità. Non funziona. Non funziona nel caso della pena capitale, come potrebbe andare bene invece nel caso dell’eutanasia? Non è sufficiente il consenso personale perché lo sia. È l’orizzonte generale che lo rende un disvalore.

Inoltre, per tornare all’abilismo che renderebbe degna la vita, non tutti possono scegliere come vivere, mentre tutti possono vivere. Allora, la vita di quanti non possono compiere quella scelta sarebbe meno degna? Meno importante? Meno desiderabile? Immagino le pressioni su anziani e disabili per abbreviare le loro vite, ricorrendo all’eutanasia, al fine di rendere meno penosa l’opera di assistenza dei familiari. Pressioni inconsce, sia ben inteso, ma pur sempre pressioni influenti, soprattutto in quelle difficili e particolarmente onerose condizioni di vita. E, dunque, a ben vedere, l’istituto, finirebbe per andare bene per i pochi che davvero lo vorranno e per i tanti invece che socialmente, economicamente, umanamente vi saranno risospinti da una comunità che non vorrà più sostenerne il peso, una volta che si renderà disponibile quest’ulteriore possibilità per situazioni senz’altra via di uscita. Un peso dolce e o buono ...

Vista da un’altra prospettiva, l’eutanasia legale sembra essere una magnifica occasione per il corpo sociale di tagliare proprie membra. Ed è ironico che ciò avvenga nell’esatto momento in cui i più liberali credono di dare massima espansione ai diritti dei singoli. Cessano di vivere i singoli, continua a vivere il gruppo. Chi ci guadagna di più? I singoli? Il gruppo? Anche questa è una questione di equità, ma contribuisce a mostrare quanto sia errata la proposta di eutanasia legale.

Probabilmente, si potrebbero aggiungere tante altre considerazioni, ma credo di essere già abbastanza impopolare.



sabato 9 marzo 2019

Index

Questo è l'indice degli articoli relativi alla cosiddetta autonomia differenziata, tema attualmente nell'agenda dei decisori politici.





E no, non è affatto saggio ciondolare sulle spalle dei nani!



(url: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/ac/Honor%C3%A9_Daumier_017_%28Don_Quixote%29.jpg)

venerdì 8 marzo 2019

Sulle spalle dei nani #3




Sulle spalle dei nani #3


Una lettura della cosiddetta autonomia differenziata

Cosa significa, allora, una maggiore autonomia? Siccome quest’ultima è richiesta da alcune regioni, si configurerebbe una situazione ove alcune regioni trattengono sul proprio territorio funzioni rilevanti, oltre che qualificanti, dell’azione propria di uno Stato, mentre tutte le altre, almeno allo stato attuale o in un primo periodo, manterrebbero l’attuale separazione di ruoli, competenze e funzioni tra Stato centrale e Regioni. 


Questo, in assenza di una cornice unica nazionale in merito ai livelli standard di prestazioni al cittadino da erogare sull’intero territorio nazionale, suscita già alcune perplessità e certo non pochi timori in merito all’eccessiva frammentazione locale dell’azione propria di uno Stato. Non per nulla si fa notare infatti come, nella retorica pubblica, si contrapponga uno Stato centrale, inefficiente ed iniquo, a Regioni, efficienti ed eque. In realtà, quel che si rimprovera allo Stato, segnatamente la sua centralità burocratica, può benissimo venir rimproverato alle regioni, ree di volere costituire, a livello locale, la medesima centralità che desiderano sottrarre allo Stato.

Comunque, a nulla valgono premesse come “nell’ambito unitario del sistema nazionale”, ed affini. Ma entriamo nello specifico. Le regioni in questione non si accontentano di nuovi poteri, chiedono anche nuovi finanziamenti. E qui i timori diventano ampi. Infatti, pur nei complessi meccanismi di calcolo, a processo approvato dal Parlamento, nei termini di legge dello Stato che ratifica l’intesa tra le regioni interessate e il Governo, emerge che lo Stato dovrebbe trasferire alle regioni la correlativa spesa, calcolata sul fabbisogno storico di queste ultime. Con l’aggiunta, certo non trascurabile, di ogni qualsiasi nuova entrata tributaria che in futuro potrebbe verificarsi. In altri termini, l’eventuale posteriore extragettito resterebbe sul territorio e verrebbe gestito direttamente dalle regioni medesime. 



E qui cominciano i problemi. Infatti, ciò equivarrebbe a consentire a queste regioni, le più ricche del Paese, di trattenere approssimativamente qualcosa come il 90% delle entrate fiscali attuali, pur in regime di compartecipazione tra Stato e regioni, nonché ogni futuro incremento nella misura del 100% del totale. Ma dette regioni contribuiscono alle entrate fiscali di tutto lo Stato. Ne consegue, pertanto, che, a regime, la quota complessiva dei finanziamenti centrali ai territori più depressi dovrebbe giocoforza diminuire. Non a caso, in molti hanno visto nella richiesta di maggiore autonomia una sorta di “secessione dei ricchi”, e sotto un certo aspetto, non può dirsi che abbiano torto. 


Altri ancora hanno ravvisato il concreto rischio di una “morte dello Stato”. Quest’ultima ipotesi, pur nebulosa dato che discutiamo di possibilità e di scenari inediti, però, non tiene conto della possibilità prevista dal decisore politico, ovvero quanto previsto dal terzo comma dell’art. 116 Cost. Vale a dire, perché prevedere questa possibilità se spostare funzioni, competenze e risorse dal centro alla periferia appare pericoloso? Soprattutto per la tenuta stessa della coesione nazionale? 

Il problema, a dire il vero, non è la forma della previsione, ma la sostanza dell’intesa tra Regioni e Governo. Detto altrimenti, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle possibilità previste dal comma terzo dell’art. 116 Cost., ma nessun Governo sarebbe obbligato ad accettarle tutte. Ed ancora, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle risorse attualmente erogate per svolgere queste funzioni a livello centrale o concorrente, ma in alcun caso il Governo è automaticamente costretto a cedere. 

Il problema, come si vede, è più di levatura morale degli attuali decisori politici che di tenuta democratica del sistema nel suo complesso, e rimanda, pur con una pluralità di livelli diversi, alla dicotomia tra forte e debole, tra attori istituzionali e decisori politici, dai territori economici alla redistribuzione della ricchezza, etc.


Apriamo, infine, una piccola parentesi sulla cornice di equità di un simile progetto.


Non si tratta, a ben vedere, di astratte ed altissime questioni morali, anche se in realtà la maggiore o minore prossimità di queste ultime alle situazioni reali dipende dall’ingegno che le declina in concreto e non da loro stesse. Si tratta, invece, di vere e proprie questioni di giustizia materiale, o, se si preferisce, sostanziale. Come asserisce Martha Nussbaum, ad esempio, «i doveri di giustizia sono molto rigidi e richiedono alti standard morali di tutti gli attori nel loro agire» (Nussbaum, Giustizia e aiuto materiale, p. 11). Per poter declinare in concreto cornici teoriche di riferimento ci vorrebbero decisori politici di grande statura, e questi, purtroppo, al momento mancano. Ma se a prendere le decisioni sono piccoli personaggi politici, ecco che le questioni di giustizia potrebbero venir eluse, con grave danno per l’intera collettività.


Da ultimo, certe realizzazioni concrete dell’ideale di giustizia vengono giustificate in nome di un tecnicismo politico avalutativo, vale a dire neutro rispetto alle medesime finalità cui mette capo. Questa sorta di avalutatività ruota intorno al frainteso concetto di diritto: non il diritto dei soggetti, ma l’oggettività materiale di leggi, codici, norme … Questo modo di procedere, oltre che ideologico, e per preciso calcolo politico, sul quale non entriamo, un po’ per pudore e un po’ per non fare il loro gioco, manca di considerare o di dichiarare che la legge «è un districarsi difficile e impegnativo nel ragionevole compito di trovare le strade per smussare i contrasti, promuovere la convivenza, impedire le prevaricazioni, assicurare a ciascuno, nella vita comune, una parte non mortificata» (Zagrebelsky, La virtù del dubbio, p. 51). Non una legge assoluta, e, per ciò stesso, vera, oltre che giusta, ma un diritto mite, «strumento di convivenza delle diversità» (Ivi, p. 50). Ma in questa presunta neutralità materiale del diritto, i suoi sostenitori innalzano un Moloch unico al cui altare sacrificare ogni differenza, ogni diversità, costituendo un unico diritto per tutti e per nessuno.

E la giustizia? Già, dov’è finita? Far parti eguali tra diseguali non è equo. Se il diritto ad una dimensione considera tutti su un piano di eguaglianza, sia pure solamente formale, non tiene conto, per come dovrebbe invece, di tutta una serie di «diseguaglianze che sorgono dalle abilità produttive, dai bisogni e altre variabili personali» (Sen, La diseguaglianza, p. 169). Detto altrimenti, nessuno nasce in parità con gli altri. Ognuno nasce all’interno di una rete di diversità, economica, culturale, sociale. Questa diversità influenza pesantemente la posteriore esistenza del soggetto, in positivo ma anche in negativo, con tutte le ricadute del caso riguardo a libertà personale, capacità lavorativa e benessere esistenziale complessivo. Dire che siamo liberi non ci rende affatto liberi se poi vi sono difficoltà materiali all’esercizio effettivo di detta libertà.

Inoltre, istituzioni che si limitano a declamare avalutativamente l’eguaglianza formale o la libertà teorica delle persone, rendono un buon servizio alla giustizia? Ovviamente, no. E questo la dice lunga sulla vocazione progressista o umana di coloro che esaltano la natura tecnica del diritto e delle legge. 


Al contrario, così come la libertà umana non esiste nella sola concezione astratta, ma, al contrario, ha bisogno di condizioni materiali di effettivo esercizio, per poter esistere non di per sé, ma al servizio di attori sociali umani concreti, le istituzioni come intendono promuovere la giustizia? Rammentiamo che il costituzionalista ha ben inteso questo compito nei due paragrafi dell’art. 3 Cost., un illustre sconosciuto ai novelli costituzionalisti degli ultimi decenni. Ci dice ancora una volta Sen, non a caso ideatore di un approccio alle capacità come declinazione concreta delle esigenze di giustizia, «dobbiamo anche riflettere su come le istituzioni dovrebbero essere regolate qui e ora, in modo da promuovere la giustizia favorendo la libertà e il benessere di coloro che vivono oggi, e che domani non ci saranno più» (Sen, L’idea di giustizia, p. 92). Come potrebbe conciliarsi un’autonomia differenziata con il compito costituzionale della rimozione delle cause materiali dell’ingiustizia? Oppure, peggio, come potrebbe accettarsi una ripartizione delle risorse economiche che rendesse impossibile la rimozione di dette cause in alcuni territori? O, ancora, come sarebbe possibile garantire standard anche minimi di servizi alla collettività con una dotazione finanziaria anche inferiore a quella attuale? Ma, e allargando ulteriormente il focus, come si potrebbe ancora parlare di redistribuzione della ricchezza se questa rimane su alcuni territori?


Sembra quasi, che noi si viaggi sulle spalle di nani, i quali soffrono di un particolare disturbo visivo in forza del quale il molto piccolo, e particolare, ha sostituito tutto il resto. Una caratteristica inversione del rapporto hegeliano tra le parti e il Tutto, indicativa della loro levatura politica.



(url: http://www.affaritaliani.it/static/upl2018_restyle/vies/viesti-secessione10.jpg)

Indice degli articoli relativi all'autonomia differenziata e ai suoi problemi (qui)

venerdì 1 marzo 2019

Sulle spalle dei nani #2

Sulle spalle dei nani #2
Una lettura della cosiddetta autonomia differenziata

Ha sicuramente ragione Gianni Ferrara quando scrive che ogni Costituzione ha una sua storia, e, quindi, una precisa origine storica dei suoi principi (Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, p. 12). E, nel nostro caso, il background dei costituenti è sicuramente l’esperienza fascista. Tuttavia, non è affatto detto che una tendenza generale debba per forza valere come evoluzione necessaria. Infatti, la stessa L. Cost. n. 3 del 2001 è debitrice nei confronti delle varie bozze e proposte di revisione costituzionale discusse dalla Commissione bicamerale D’Alema nel 1997, ovvero in una temperie culturale ben precisa. La riforma, pertanto, appare oggi “vecchia” dal momento che i bisogni avvertiti e le condizioni di loro effettiva realizzazione sono profondamente diversi. Ne consegue che lo stesso impegno a garantire condizioni eque di realizzazione personale assume un profilo decisamente eterogeneo.
Inoltre sembra che abbia ragione De Monticelli quando scrive che «il sentimento fondamentale è un disprezzo per il proprio prossimo che oscilla fra gli estremi dell’indulgenza e del rancore, propendendo decisamente per quest’ultimo, con un’ossessiva insistenza sul sospetto, la paura e la vendetta, apparentemente gli unici motori della storia» (De Monticelli, La questione morale, p. 34).
L’atavico vizio italico alle mancate virtù civiche presenta adesso la sua evoluzione, ovvero una strutturale incapacità a coagulare interessi privati al fine di produrre valore comune. Se Lanaro, nella sua monumentale storia dell’Italia repubblica, lamenta questa scissione tra pubblico e privato, tra Paese legale e Paese reale S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, p. 477 e sg.), è sicuramente la De Monticelli ad offrirci la diagnosi più evoluta e prossima al fenomeno osservato: «siamo un paese con troppi individui non formati […] una parte troppo grande delle persone, in questo Paese, non è mai uscita veramente dalla sua famiglia, ristretta o allargata. La nostra società civile è fatta di personalità fragilissime dal punto di vista dell’assunzione di responsabilità individuali […] Quando i partiti di massa novecenteschi sono finiti, questa immaturità è venuta alla luce» (De Monticelli, op. cit., p. 57).

Questo è puntualmente il caso della cosiddetta autonomia differenziata, ovvero la possibilità, contemplata dall’art. 116 Cost., di poter attribuire maggiori competenze e poteri alle regioni, tramite legge dello Stato, nelle materie “di cui al terzo comma dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s)”, nel rispetto dei principi stabiliti dall’art. 119 Cost. Questi ultimi stabiliscono l’autonomia finanziaria degli enti locali.
In questo modo, i precedenti principi del decentramento e dell’autonomia hanno istituito un preciso regime che prevede sia entrate dirette delle regioni sia compartecipazioni alle entrate statali per la parte che riguarda un preciso territorio. In altri termini, l’art. 119 amplia le possibilità finanziarie degli enti locali, ma ne perimetra i confini. Secondo la dottrina costituzionale questi integrano i limiti statuiti dagli artt. 23 e 53 Cost. Il primo stabilisce una riserva di legge riguardo all’imposizione di prestazioni personali e patrimoniali nei confronti del cittadino. Il secondo invece stabilisce che tutti i cittadini e gli stranieri con interessi economici in Italia hanno il dovere di contribuire alle spese dello Stato mediante prelievi fiscali, in ragione della capacità contributiva di ciascuno e secondo criteri di progressività.


Alla luce di questa cornice generale, decliniamo in concreto la questione recentissima delle proposte di autonomia differenziata avanzate da alcune regioni. Queste ultime, forti di una precedente consultazione referendaria locale, hanno richiesto allo Stato un aumento di poteri e competenze a livello locale, segnatamente quelli relativi al terzo comma dell’art. 117 Cost. e quelli relativi alle lettere l), n) ed s).

Tralasciamo il fatto che il Governo non abbia recepito tutte le richieste motivate da parte delle regioni ed analizziamo, senza pregiudizi la questione, pur non potendo entrare nel dettaglio.
L’art. 117 Cost. elenca le materie relativa alla competenza legislativa nazionale, alla competenza legislativa regionale, alla competenza legislativa concorrente, nonché la riserva di legge di sola pertinenza regionale, quest’ultima formulata in termini residuali rispetto a quanto espressamente previsto dalla legge. Le materie di cui alle lettere l), n) ed s) sono le seguenti: giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. Invece, le competenze di cui al terzo comma del medesimo articolo sono le seguenti:

rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. 


Come si vede si tratta di parti importanti dell’azione di uno Stato.



(continua)


(url: http://maurobiani.it/wp-content/uploads/2019/02/autonomia-ricca.png)

sabato 7 gennaio 2017

Di chi la colpa?

"Le colpe attribuite di solito alla scuola andrebbero dovuto essere, in realtà, equamente ripartite, perché una parte consistente di esse andava caricata sulle famiglie e sugli individui, cioè su responsabilità che riguardavano non a società in astratto, ma le singole persone"

(A. Lepre, Storia della Prima Repubblica. L'Italia dal 1943 al 2003, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 316)

Prepariamoci alla ripresa delle attività didattiche e riflettiamo su una prospettiva scarsamente presa in considerazione dai più, volutamente o meno rimossa dall'agone pubblico, in genere irriflessa quando si assumono atteggiamenti di riprovazione o biasimo, sovente di natura marcatamente paternalistica, e, dunque, meramente retorica, nei confronti della scuola in generale, e dei suoi operatori in modo particolare.

Di chi è la colpa se la materia prima, ovvero la qualità degli studenti, è bassa in partenza (ossia, prima ancora che varchino i cancelli scolastici)? 

Di chi è la colpa se gli studenti sono maleducati (chi avrebbe dovuto educarli prima che entrassero nel circuito dell'istruzione)?

Di chi è la colpa se gli studenti non sanno stare al "loro" posto? (vedi sopra)

Di chi è la colpa se gli studenti non attribuiscono alcuna importanza alla scuola in quanto tale? Un bassa considerazione è frutto di un apprendimento familiare e sociale antecedente al loro ingresso a scuola ...

Dire che la colpa è della scuola è come dire che la scuola sbagli prima ancora di prendere in carico i futuri educandi non educati ...

Sarebbe bello, invece, che anche altri attori ed altre agenzie formative si assumessero, e finalmente, le loro colpe e che la smettessero di sparare sempre ed acriticamente sulla scuola.

Il problema, purtroppo, è che la scuola è indifesa da tutti, e, quindi, è più conveniente scaricare i colpi su quest'ultima che fare i conti con sé stessi. Un capro espiatorio che paghi per tutti è più facile, comodo ed utile che ripartire le responsabilità a ciascuno secondo il proprio differente ruolo ...

Ma da questo circolo vizioso perseverando in questo errore non è punto possibile uscire.

mercoledì 22 aprile 2015

Empowerment e decisori politici

"Nella prospettiva dell’empowerment, i riformatori ex lege, allora, quando presentano i cambiamenti normativi proposti come radicalmente diversi e affatto nuovi (come riforme epocali, in discontinuità rispetto al passato) fanno il gioco contrario all’empowerment perché, di fatti, chiedono agli operatori della scuola di adeguarsi al nuovo che avanza, sconfessando quella stessa professionalità docente sulla quale si è basato finora il proprio potere. Le persone che restano dentro un’organizzazione di lavoro con compiti imprecisi, impoveriti, di scarso peso e deprivati di significato sociale sono un vero e proprio boomerang per un progetto di empowerment in quel sistema organizzativo"

(I. Summa, Empowerment: una leva per l’innovazione, in G. Cerini (cur.), Il nuovo dirigente scolastico tra leadership e management, Maggioli, 2010, p. 200)

Non è forse quel che fanno i decisori politici ad ogni cambio della maggioranza relativa in Parlamento?

Potremmo anche dire che ogni legislatura ha la sua vision di scuola, il suo modello di empowerment, la sua idea di istruzione ...

Ma ogni volta si sconfessa quanto fatto sino ad allora, in tempi di tagli lineari al settore, con sempre meno risorse e in condizioni ambientali sempre più difficili, dagli operatori scolastici ...

Questa non è valorizzazione delle professioni scolastiche, ma mera dequalificazione professionale, soprattutto in seno alla costruzione sociale del loro ruolo istituzionale.

Sorge solo un dubbio; quest'ultimo effetto è colposo o doloso? Francamente, non so cosa pensare al riguardo. Nel primo caso, si configura un'ipotesi di sostanziale miopia pedagogica ed organizzativa di chi decide; nel secondo, invece, una concreta ipotesi di una progettualità politica di ampio respiro volta a distruggere, e, quindi, a indebolire, la discrezionalità operativa degli operatori scolastici. 

Allora, quale delle due?


(url immagine: http://www.lavorofisso.com/wp-content/uploads/2007/11/27122015X86-680x365_c.jpg)

giovedì 25 settembre 2014

Dove per utopia?


"Non c'è posto per la filosofia accademica, che parla nella più totale libertà, senza tenere conto delle circostanze. Ma ce n'è per una filosofia più civile, che tiene conto del contesto drammatico, al quale cerca di adeguarsi, recitando una parte in carattere con lo spettacolo che si rappresenta"

(T. Moro, Utopia, Newton Compton, Milano, 1994, p. 39)

Filosofia "accademica", astratta e retorica, e filosofia civile, concreta e aderente alla realtà ...

Un motivo "vecchio" che a volte ritorna, come quello di utopia, la mitica isola ove si concreta il sogno platonico della filosofia (civile) al potere!

Ma come il suddetto motivo di attrito tra due concezioni purtroppo contrapposte di filosofia, si tratta più un mito ideale che di un modello politico concretizzabile!

Eppure, è proprio in questa tensione irrisolta, oltre che non scomponibile, che si cela tutto l'estremo fascino di qualsiasi utopia, un non luogo che però mostra in negativo tutto quel che non va nel nostro di tempo e di spazio ...


Per Utopia? Sempre dritto, senza mai fermarsi, senza mai raggiungerla, restano solo infiniti kilometri ancora ...







(url immagine: http://www.orizzonteuniversitario.it/wp-content/uploads/2012/10/Utopia.jpg)

giovedì 29 maggio 2014

Scoppola per scoppole ...




Ultima pagina a: Pagine iniziale a: Il tramonto della repubblica. Pietro Scoppola e la politica "dei partiti". In: (a cura di): POZZONI I, Schegge di filosofia moderna VII, Gaeta (LT):Decomporre Edizioni, ISBN: 9788898671243, pp. p. 253-277




martedì 4 marzo 2014

Nussbaum su disabilità e giustizia


Liberi, eguali e indipendenti?



(immagine tratta da: http://chronicle.com/img/photos/biz/2408-5702-nussbaum.jpg)


Le persone disabili costituiscono il più grande scandalo della ragione occidentale, quegli esempi negativi che la razionalità pura ed ideale non può riconoscere[00] e che preferisce, di gran lunga, nascondere, dunque, in luoghi separati, in “altrove”, in modo tale che siano lontani dagli occhi e da qualsiasi possibile cognizione.


I filosofi, in genere, non si occupano di disabilità, forse troppo umiliante per i propri voli della fantasia, forse troppo limitante per la profonda finitudine che connota le esistenze di coloro che incontrano ostacoli maggiori rispetto ad altri nello sviluppo della propria personalità.


In questo panorama fortemente desolante ed arido, riscontro solo una strana eccezione nella filosofa statunitense Martha C. Nussbaum la quale, al contrario, ha anche incentrato la sua ricerca proprio sulla condizione esistenziale delle persone disabili[01].


A mio modesto modo di vedere, il tema presente ha un'indubbia rilevanza teorica, anche come metro per valutare l'efficacia delle formule politiche che, in genere, i filosofi producono nel tentativo di interpretare, o di riformare, a seconda dei casi, l'ordine sociale.


Tuttavia, prima di entrare nello specifico del tema in questione, è bene spendere ancora alcune parole per chiarire alcuni presupposti davvero importanti sulla disabilità.


Le persone disabili certamente soffrono la presenza di ostacoli oggettivi di varia natura che interferiscono immediatamente con l'espletamento di funzioni personali al punto da rallentarne in maniera tanto vistosa e profonda l'effettuazione. Il mancato rispetto di uno standar da parte delle persone disabili spinge a non considerarle “normali”. Ovviamente, nel caso presente non ha proprio alcuna importanza parlare di “normalità” o di “ordine” o di “standard evolutivo”, l'importanza appare solo relativa. La presenza di un handicap, pertanto, nell'accezione inglese del termine, vale a dire di “peso aggiuntivo”, che in questo caso grava sulle spalle delle persone disabili, e che interferisce con le loro normali funzionalità, è la differenza che corre tra una persona normodotata, la quale può tranquillamente contare sulle proprie forze per superare i normali ostacoli della vita quotidiana, e una persona disabile, la quale non può contare sulle proprie forze per andare avanti nella propria vita personale e per sviluppare in maniera adeguata le proprie lecite aspettative esistenziali. L'interferenza della menomazione fisica con il pieno sviluppo personale incide o sull'autonomia personale o sulle capacità cognitive oppure sull'indipendenza nelle relazioni umane.



Detto questo, sia pure molto brevemente, emerge subito come alcuni aspetti, di per sé rilevanti, della condizione vissuta dalle persone disabili, pur nell'estrema generalità di quanto sto dicendo, siano, in primo luogo, l'estrema dipendenza cui vanno incontro le persone disabili e, in secondo luogo, la manifestazione radicale in esse dei limiti della nostra condizione umana, come la sofferenza, la mancanza di capacità, il bisogno, e così via. La relazione di cura, la quale, detto per inciso, sovente, e molto spesso, a dire il vero, caratterizza la condizione esistenziale delle persone disabili, è talmente importante da far dire alla Nussbaum come sarebbe bene riformulare tutte le nostre teorie della giustizia al fine di tenerne conto[1]. Questo perché le cure alle persone disabili, per la loro durata, coincidente in genere con quasi l'intera vita di queste ultime, e per la loro natura, sono molto onerose e tali da incidere in maniera formidabile sulle finanze della collettività. Il trattamento da riservare loro, pertanto, è così importante da influenzare la nostra stessa concezione della giustizia sociale, la nostra stessa idea di diritto. Infatti, hanno le persone disabili delle pretese, peraltro legittime, vista la loro condizione, da far valere nei confronti del resto della comunità oppure no? E se sì, non vanno soddisfatte, costi quel che costi? Forse ha ragione Dworkin quando asserisce che, in genere, ed intendo presso il centro occidentale della medesima teorizzazione politica, i diritti non vengono presi sul serio, e, aggiungo, sempre più considerati come privilegi che le finanze pubbliche non possono più concedere, come sprechi che la crisi attuale non può più tollerare. Ma questo accade perché l'intrinseca asimmetria dei rapporti di forza tra persone disabili e persone normodotate finisce con il realizzare il rischio, a suo modo paventato, nella sua prosa romanzata, da Pontiggia secondo il quale il rischio razzista, con riguardo al tema attuale, è sempre presente ed agente. Nel momento in cui si riconosce la diversità e da questa si prendono le mosse al fine di dedurre diritti differenti, ossia separati, vale a dire specificatamente in funzione dei differenti fruitori finali, ecco che ha luogo la discriminazione[2].


Quando accade ciò, la giustizia fallisce, ma, e prima ancora, fallisce l'intelligenza umana, quella stessa meravigliosa creazione di cui tanto si beano i filosofi, gli stessi che, in genere, preferiscono ignorare la disabilità tout – court.


Invece, la disabilità è una cosa concreta, è una declinazione, magari radicale, della medesima condizione umana e interpella direttamente tutte le nostre teorie politiche, ed economiche, mette in questione le nostre più profonde convinzioni, i nostri più radicali convincimenti personali. Solo riconoscendo nei soggetti disabili la medesima umanità, è possibile dare seguito ad una riconsiderazione generale in tema di diritti, giustizia e redistribuzione del reddito secondo il bisogno. In fondo, infatti, le persone disabili sono “persone”, non “qualcosa”[3], magari da rifiutare o misconoscere. Al di sotto del mero riconoscimento di un diritto, v'è un diritto ancor più fondamentale, ancora più radicale, ancora più “di principio”: il diritto di avere diritti[4], vale a dire la possibilità, anche per loro, di essere titolari di diritti, costi quel che costi. Altrimenti, finiamo con la finzione della giustizia o dei diritti soggettivi e continuiamo, ma stavolta alla luce del sole, a negare parità ed eguaglianza di diritti.


Secondo Nussbaum proprio il tema della disabilità, e della connessa giustizia dovuta alle persone disabili, dovrebbe spingerci, magari anche in maniera celere, a ri – pensare il nostro modello politico. Perché dovrebbe accadere questo? La risposta è tanto semplice quanto radicale: tutti i teorici del contratto sociale, e, quindi, di una certa modalità di pensare ai rapporti, in termini di costi e benefici, tra i singoli membri della società politica, hanno sempre caratterizzato il soggetto che entra in relazione, per il tramite del contratto sociale, come non – disabile. Anzi, i soggetti che successivamente costituirebbero la comunità politica sono concepiti come liberi, eguali ed indipendenti[5]. In questo modo, i teorici del contratto sociale negano cittadinanza a tutti coloro che, per vari motivi, o per diversi handicaps, non possono agire come fanno coloro i quali, al contrario, sono liberi, eguali ed indipendenti. Infatti, i contraenti del contratto sono gli stessi per i quali vengono redatti i principi della comunità politica[6]. Di conseguenza, se le persone disabili non possono entrare come pari rispetto agli altri contraenti, come uguali tra eguali, non possono far valere alcuna pretesa successivamente. La loro esclusione appare dunque tanto radicale quanto criticabile.


L'estromissione doppia, prima dall'elenco dei contraenti il patto, e dopo dai fruitori dello stesso, è il simbolo più vistoso dello stigma sociale con il quale, in genere, si occulta l'umanità[7]. Questo perché, in genere, la presenza di handicap così importanti spinge a considerare le persone che ne portano il segno quotidianamente come non – normali[8]. E questo è un problema “classico”, oserei dire, per la disabilità in generale[9].


Tuttavia, ciò non significa che si debbano lasciare le cose così come stanno.
Per la Nussbaum, questa stessa mancanza è indice del fallimento del modello stesso: i disabili esistono, non sono scherzi o bizzarrie singole della Natura.


Per affrontare, appunto, questo problema, rilevante per qualsiasi teoria politica che voglia farsi apprezzare come realmente valida, Nussbaum sottopone a critica l'intera tradizione liberale occidentale, e, in modo particolare, il modello contrattualista, dal periodo classico, con Locke e Hume, sino al neocontrattualismo, con Rawls sugli scudi.


Il discorso della filosofa è, nel contempo, pregevole, per l'impegno analitico profuso, e interessante, per gli esiti imprevisti cui mette capo. Per la Nussbaum, gli uomini stipulano tra loro un contratto, cioè «decidono di rinunciare all'uso privato della forza e alla possibilità di sottrarre i beni agli altri, in cambio di pace, sicurezza e con la prospettiva di un vantaggio reciproco»[10]. L'idea alla bade di qualsiasi formulazione di marca contrattualista è che una comunità politica si costituisca in un momento non storico, ma ideale, come il voluto superamento dello stato di natura e con lo scambio di pretese naturali con vantaggi sociali. In modo particolare, gli uomini accettano di rinunciare alla loro libertà di natura in nome di un vantaggio reciproco altrimenti non conseguibile. Per gli autori classici, dunque, vi sono dei beni indisponibili al consumo durante lo stato naturale, ed è in vista di quest'ultimo, possibile solo dopo il superamento dello stato di natura, che decidono di uscirne e di accedere ad altre forme di organizzazione sociale.


Quel che, però, tutte le concezioni contrattualiste fanno è giustificare teoricamente un modello di società politica fondata su un insieme di «principi politici fondamentali»[11], uno dei maggiori contributi della filosofia politica liberale[12]. Questa società politica mostra come tutti possono rinunciare al proprio potere «a favore del diritto e dell'autorità debitamente costituita»[13] a condizione di essere spogliati dei vantaggi artificiali che alcuni di essi hanno nelle società reali. In quest'ultimo caso, infatti, avviene che, tolte tutte le differenze di partenza, gli uomini non possono che accordarsi «su un certo tipo di contratto»[14]. Ne emerge, allora, che se il punto di partenza è equo, «i principi che ne emergeranno saranno anch'essi equi»[15].


La stessa idea procedurale di società politica, non per forza Stato, precisa Nozick[16], è presente in Rawls per il quale, avverte invece Nussbaum[17], il discorso è più complesso, sia con riferimento alle sue fonti sia con riguardo alla specifica modalità con cui discute alcuni punti specifici della propria teoria di società politica giusta. Il punto di partenza resta, però, lo stesso: come assicurare ai singoli tutti quei diritti che lo stato di natura non consente? Anche Nozick scorge il medesimo problema, commentando il discorso lockiano: «nello stato di natura una persona può essere priva del potere di far rispettare i propri diritti; può non essere capace di punire o farsi risarcire da un avversario più forte che li ha violati»[18].


Rispetto alla teoria ralwsiana, Nussbaum individua ben tre differenti problemi irrisolti, e punti critici per la stessa. Per gli scopi presenti, però, ci concentreremo solamente su uno di questi, quello relativo, per l'appunto, alla disabilità, e al ruolo che chi ne soffre assume nella società politica.


Nussbaum osserva come per tutti i teorici classici del modello contrattualista di società politica «i soggetti contraenti siano uomini approssimativamente eguali riguardo alle capacità e in grado di svolgere attività economica produttiva»[19]. Le persone disabili, chi in misura maggiore e chi in misura minore ma tale comunque dall'essere esclusi dall'insieme delle persone “produttive”, sono così estromesse dalla società politica. Le persone disabili, dunque, sono escluse dal gruppo «di coloro che scelgono i principi politici fondamentali»[20]. I teorici classici non contemplano la presenza, vale a dire il ruolo attivo, di persone disabili tra coloro che stabiliscono i principi morali di una società giusta. Semplicemente, i disabili non fanno parte della pars valentior, rappresentativa dell'intera specie umana, incaricata di elaborare i valori fondamentali di una società politica che possa fregiarsi della virtù morale. Il problema di tale esclusione è che se i disabili non sono inclusi nel gruppo di coloro che scelgono, essi «non sono inclusi […] nel gruppo di coloro per i quali i principi sono scelti»[21]. In maniera del tutto caratteristica, a mio avviso, accade una pericolosa transizione in virtù della quale essere inclusi nell'elenco di coloro che stabiliscono i principi fondamentali, che una futura società politica deve avere, significa anche essere tra i futuri fruitori degli stessi. Viceversa, non avere rappresentanza nell'insieme dei formulatori dei principi di base della futura società politica comporta, di conseguenza, non essere presi in considerazione in qualità di possibili fruitori dei principi politici fondamentali nella futura società politica. Il problema, nel caso delle persone affette da disabilità, è doppio: non far parte della pars valentior, che formula i principi insindacabili sui quali deve fondarsi la futura società politica, e non venir contemplati quali possibili beneficiari degli stessi principi politici fondamentali. Si potrebbe anche dire che si tratta di una medesima esclusione, la quale opera in due momenti differenti ma collegati: nel momento di codificazione dei principi basilari della società politica e in quello del godimento degli stessi.


Per Nussbaum il problema, in sede teorica, risiede in quella condizione iniziale che, in nessun caso, una persona disabile può rispettare: essere libera, eguale ed indipendente. I bisogni delle persone disabili sono così “speciali” da impedire che possano relazionarsi con loro simili come farebbe normalmente una qualsiasi persona bianca occidentale, tale cioè da conformarsi al modello “borghese” codificato durante l'Illuminismo. É questo il problema, è qui che si colloca la radice del “male” contrattualista: formulare un modello privatistico di fondazione dello Stato, presupponendo, a torto, che gli uomini siano tutti liberi, eguali ed indipendenti. Così non è e ne consegue che il modello del contratto, in virtù del quale dei privati in posizione paritetica contrattano tra di loro cosa cedere, in termini di libertà personale, e cosa ottenere, in termini di vantaggi sociali, è la sanzione formale che riconosce come valida, ed assicura anche in termini politici, la differenza sostanziale che sussiste nello stato di natura rispetto alla differente distribuzione della forza personale e delle capacità naturali di entrare in relazione con gli altri.


Se l'idea morale centrale nella tradizione contrattualista è il «mutuo vantaggio e reciprocità»[22], l'esclusione iniziale delle persone disabili comporta la loro esclusione futura dall'elenco delle persone che possono godere dei principi politici stessi. Infatti, non far parte dei contraenti originali del patto sociale significa che le persone disabili non hanno «eguale cittadinanza»[23] con gli altri.


Nella teoria politica di Rawls, che riprende ampliandola ed aggiornandola, sotto un certo punto di vista, la teoria classica del contratto sociale, la società politica viene intesa nei termini di un'impresa cooperativa per il mutuo vantaggio[24]. Di conseguenza, il problema diviene quello di spiegare come mai le parti decidano di abbandonare lo stato di natura per ottenere dei vantaggi reciproci derivanti dalla cooperazione sociale. Le parti, cioè, vanno alla ricerca di un vantaggio reciproco da conseguirsi per il tramite della cooperazione in società. L'idea di Rawls è che persone razionali siano in grado di compiere una scelta tra la cooperazione e la non cooperazione per il «vantaggio reciproco»[25], capaci di comprendere come la cooperazione sia sempre preferibile alla non cooperazione, e che, dunque, in ultima istanza, la società politica stessa sia di per sé preferibile, vale a dire più vantaggiosa, allo stato di natura. In altri termini, le parti non devono decidere se sia preferibile una società esistente, quella “naturale”, o una società futura, quella “politica”, ma solamente riconoscere la ragionevolezza di alcuni principi e l'assenza stessa di principi e scegliere i primi. É infatti razionalmente preferibile la cooperazione sociale, ossia la presenza di alcuni principi politici fondamentali, anziché vivere l'arbitrio dell'assenza totale di principi o del più forte, come si configura, in genere, lo stato di natura, non a caso considerato da Hobbes una condizione di perenne bellum ominium contra omnes.


Rispetto all'argomento presente, la teoria di Rawls, pur configurandosi come un progresso rispetto al modello classico di contrattualismo, non risolve il problema della giustizia sociale rispetto al trattamento da riservare alle persone disabili. Anche Rawls, infatti, considera i disabili dei soggetti marginali rispetto all'insieme complessivo dei soggetti politici e finisce con il posticipare ogni considerazione al riguardo in un imprecisato momento futuro.


Ciò spinge Nussbaum ad asserire come le «teorie contrattualiste devono fare affidamento su una qualche concezione di razionalità nel processo contrattuale e tutte assumono che i contraenti siano lo stesso gruppo sociale dei cittadini per i quali i principi sono stato redatti»[26]. La conseguenza è piana e lineare: «nessuna teoria di questo tipo può includere completamente persone con gravi menomazioni mentali come persone per le quali, in prima istanza, i principi sono stati progettati»[27].


Pur riconoscendo valore alle moderne teorie contrattualiste, con speciale riferimento alle loro concezioni di giustizia, Nussbaum sente di dover rilevare come non siano in grado di affrontare in maniera adeguata il problema della giustizia sociale che deriva dalla sostanziale esclusione delle persone disabili dal godimento dei principi politici fondamentali di una società[28].


Al prototipo di “personalità occidentale”, l'uomo borghese della tradizione illuministica, vale a dire il soggetto libero, eguale ed indipendente, che produce un elenco di principi politici fondamentali, Nussbaum sostituisce un elenco di capacità le quali vanno intese nei termini di «principi politici per una società liberale pluralista»[29]. Ella stabilisce una soglia minima di capacità e prevede per obiettivo della società «portare i cittadini al di sopra di questa soglia delle capacità»[30]. In altri termini, Nussbaum non concepisce un modello generale e comprensivo di giustizia sociale, ma solamente un correttivo funzionale che possa migliorare il grado complessivo attuale di giustizia[31]. Ella non dice nulla riguardo alla maniera concreta in virtù della quale la giustizia tratterebbe le ineguaglianze al di sotto della soglia minima, ma indica i livelli essenziali perché una vita umana possa considerarsi dignitosa. Pertanto, l'approccio alle capacità indica il «nucleo minimo di diritti sociali»[32] che viene garantito dal riconoscimento, e dalla conseguente promozione, delle capacità umane centrali. Nussbaum elenca le seguenti capacità:

  1. Vita;
  2. Salute;
  3. Integrità fisica;
  4. Immaginazione;
  5. Sentimenti;
  6. Ragion pratica;
  7. Appartenenza;
  8. Relazionarsi con altre specie;
  9. Gioco;
  10. Controllo del proprio ambiente.



L'idea di base di tale elenco è che una vita priva di una di queste capacità centrali non è una vita umanamente dignitosa. In altri termini, esso è un particolare approccio ai diritti umani[33]. Per il tramite di tale elenco, Nussbaum sposta il discorso sulla giustizia sociale dalle premesse all'esito finale del processo politico. Pertanto, la giustizia «sta nel risultato e la procedura è valida se sostiene tale esito»[34]. Di conseguenza, quel che importa ad una teoria della giustizia è la «qualità della vita delle persone»[35]. Allora, tutti i diritti dovrebbero essere garantiti alle persone «in quanto requisiti centrali di giustizia»[36].


L'approccio alle capacità non presuppone che le persone debbano essere libere, eguali ed indipendenti e, quindi, consente di «usare una concezione politica della persona che riflette più da vicino la vita reale»[37]. D'altro canto, infatti, lo stesso approccio parte da una concezione della persona come animale sociale la cui dignità non deriva da una razionalità idealizzata ed offre «una concezione più adeguata della piena ed eguale cittadinanza delle persone con menomazioni fisiche e mentali e di quella di coloro che si occupano di esse»[38].


Il difetto della teoria ralwsiana di giustizia è, in buona sostanza, far affidamento su una concezione presuntiva di normalità. Di conseguenza, Rawls non può spiegare perché a tutti coloro che si collocano al di sotto della mediana della normalità sia dovuta giustizia «piuttosto che carità»[39]. Ciò svela il vero carattere della finzione originaria del contratto sociale. Infatti, la cooperazione sociale promessa, e promossa, «è intimamente connessa all'idea che si debba restringere il gruppo iniziale dei contraenti a coloro che posseggono “normali” capacità produttive»[40]. Per poter includere le persone con disabilità entro il normale range di funzionamento della società politica, retta dal principio della cooperazione sociale per il mutuo vantaggio, Rawls dovrebbe riprogettare la razionalità delle parti al fine di includervi anche la cura degli interessi di terzi «e non solo dei propri»[41]. Per poter cooperare, le persone disabili «hanno bisogno di essere considerate come cittadini degni, cui siano riconosciuti i diritti di proprietà, all'impiego, e così via, e non come meri oggetti di proprietà»[42]. Il curioso paradosso delle teorie della giustizia sociale non fondate sull'approccio alle capacità è di considerare le persone disabili come dei mezzi, e non come dei fini, della medesima cooperazione sociale. Ovviamente, si tratta di “calare” la lista delle capacità umane centrali nella rete dei concreti bisogni delle singole persone con disabilità, ciascuna con i propri personali.



Nussbaum propone, dunque, di rendere più giusta la società politica modificando la prospettiva usuale, considerando le persone disabili dei soggetti politici di cooperazione sociale e non dei meri oggetti politici di cooperazione tra soggetti sociali. Infatti, lo scopo della cooperazione sociale «non è ottenere un vantaggio, bensì promuovere la dignità e il benessere di tutti i cittadini»[43].



Ora, se le condizioni di vita delle persone disabili, e di coloro che se ne prendono cura, sono oggettivamente più difficili delle altre, una «società decente organizzerà lo spazio pubblico, l'istruzione pubblica e altre rilevanti aree della politica pubblica per sostenere queste esigenze e per includerle completamente, dando a coloro che assistono tutte le capacità della nostra lista e dandone ai disabili il maggior numero possibile, nel modo più completo possibile»[44].



In conclusione, a parer mio, Nussbaum ridefinisce la nozione di giustizia cercando di farla aderire alle concrete condizioni di vita reale. In questo modo, il suo approccio fornisce «una parziale teoria della giustizia sociale di base»[45] e sostiene come «un mondo nel quale le persone hanno tutte le capacità della lista è un mondo giusto e decente, almeno ad un livello minimo»[46]. La teoria della giustizia sociale è, sotto ogni punto di vista, una particolare teoria del bene formulata nei termini di «diritti umani fondamentali»[47].




Note
[00] E tutto questo nonostante che la razionalità sia più una meta ideale, che non una condizione realisticamente realizzata. Secondo J. Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 85 e sgg. la razionalità umana è massimamente imperfetta e può essere perfetta solo in rarissimi casi “locali”.
[01] Anche se ciò va inteso come declinazione in concreto della teoria politica al fine di dare risposta a tre temi emergenti: 1) la disabilità; 2) il multiculturalismo; e, 3) la differenza di genere.
[1] Cfr. M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 28.
[2] Cfr. G. Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2012, p. 147.
[3] Cfr. R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma – Bari, 20134, p. 6.
[4] Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma – Bari, 2012, pp. 25 – 6.
[5] Cfr. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 104.
[6] Ivi, p. 84.
[7] Cfr. M. C. Nussbaum, Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 20132, p. 353.
[8] Ivi, p. 355.
[9] Cfr. G. Pontiggia, op. cit., pp. 42 – 3.
[10] Cfr. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere … op. cit., p. 30.
[11] Ibidem.
[12] Supra.
[13] Ibidem.
[14] Supra.
[15] Ivi, p. 31.
[16] Cfr. R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 45.
[17] Cfr. M. C. Nussbaum, Le frontiere … op. cit. p. 32 e sgg.
[18] Cfr. R. Nozick, op. cit., p. 35.
[19] Cfr. M. C. Nussbaum, Le frontiere … op. cit., p. 35.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p. 37.
[22] Ivi, p. 36.
[23] Ivi, p. 38.
[24] Ivi, p. 77.
[25] Ivi, p. 78.
[26] Ivi, p. 84.
[27] Ibidem.
[28] Ivi, p. 86.
[29] Ivi, p. 87.
[30] Ivi, p. 88.
[31] Ivi, p. 92.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p. 95.
[34] Ivi, p. 99.
[35] Ivi, p. 100.
[36] Ivi, p. 102.
[37] Ivi, p. 104.
[38] Ivi, p. 116.
[39] Ivi, p. 138.
[40] Ibidem.
[41] Ivi, p. 142.
[42] Ivi, p. 186.
[43] Ivi, p. 220.
[44] Ivi, pp. 241 – 242.
[45] Ivi, p. 294.
[46] Ibidem.
[47] Supra.




Bibliografia



J. Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità, Il Mulino, Bologna, 2005.
R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008.
M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 50.
M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007.
M. C. Nussbaum, Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 20132.
G. Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2012.
S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma – Bari, 2012.
R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma – Bari, 20134.







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