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lunedì 20 marzo 2017

Contrattualismo moderno #4

"I principi di giustizia sono frutto di un accordo. È mio scopo presentare una concezione della giustizia che generalizza e porta a un più alto livello di astrazione la nota teoria del contratto sociale quale si trova ad esempio in Locke, Rousseau e Kant. A questo scopo, non dobbiamo pensare che il contratto originario dia luogo a una particolare società o istituisca una particolare forma di governo. L'idea guida è piuttosto quella che i principi di giustizia per la struttura fondamentale della società sono oggetto dell'accordo originario. Questi sono i principi che persone libere e razionali, preoccupate di perseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione iniziale di eguaglianza per definire i termini fondamentali della loro associazione. Questi principi devono regolare tutti gli accordi successivi; essi specificano i tipi di cooperazione sociale che possono essere messi in atto e le forme di governo della società che possono essere istituite. Chiamerò giustizia come equità questo modo di considerare i principi di giustizia"

(J. Rawls, Una teoria della giustizia)

(url: http://www.vitellaro.it/silvio/storia%20e%20filosofia/Appunti/Rawls%20e%20Sen%20-%20Teorie%20della%20giustizia.pdf)


(url: https://giuseppecapograssi.files.wordpress.com/2014/08/rawls.jpg)

venerdì 11 aprile 2014

La disfida sulla "posizione originaria"



"la famosa posizione originaria di John Rawsl […] immagina in gruppo di uomini e di donne che si uniscono per stipulare un contratto sociale […] uomini e donne con gusti normali, talenti, ambizioni e convinzioni, ma ciascuna di esse è temporaneamente all’oscuro di tali caratteristiche della propria personalità, e deve accordarsi su un contratto prima di tornare ad avere questa consapevolezza"

(R. Dworkin, Giustizia e diritti, in M. Ricciardi (ed.), L’ideale di giustizia. Da John Rawls a oggi, Università Bocconi Editore, Milano, 2010, p. 69)




Ecco qua la finzione ideale della più "robusta" teoria della giustizia ...




Solo che immaginare una situazione così e così nulla dice sulla o in nulla può garantire dalla mancata cooperazione di singoli associati (free rider) o sulle inevitabili distorsioni e disfunzioni della società politica, sotto ogni aspetto un sistema complesso, e per numero di associati e per livelli di funzionamento ...




Peraltro, è davvero razionale optare per una determinata serie di principi politici fondamentali a partire dall'ipotizzata situazione originaria? Dworkin non è di questa idea, e meno ancora lo sono Sen e Nussbaum ... come a dire che Rawls ... beh, lascio che finisca tu, lettore, la frase ...






(immagine tratta da: http://www.thewatchdogonline.com/wp-content/uploads/2012/11/john_rawls.jpg)

martedì 4 marzo 2014

Nussbaum su disabilità e giustizia


Liberi, eguali e indipendenti?



(immagine tratta da: http://chronicle.com/img/photos/biz/2408-5702-nussbaum.jpg)


Le persone disabili costituiscono il più grande scandalo della ragione occidentale, quegli esempi negativi che la razionalità pura ed ideale non può riconoscere[00] e che preferisce, di gran lunga, nascondere, dunque, in luoghi separati, in “altrove”, in modo tale che siano lontani dagli occhi e da qualsiasi possibile cognizione.


I filosofi, in genere, non si occupano di disabilità, forse troppo umiliante per i propri voli della fantasia, forse troppo limitante per la profonda finitudine che connota le esistenze di coloro che incontrano ostacoli maggiori rispetto ad altri nello sviluppo della propria personalità.


In questo panorama fortemente desolante ed arido, riscontro solo una strana eccezione nella filosofa statunitense Martha C. Nussbaum la quale, al contrario, ha anche incentrato la sua ricerca proprio sulla condizione esistenziale delle persone disabili[01].


A mio modesto modo di vedere, il tema presente ha un'indubbia rilevanza teorica, anche come metro per valutare l'efficacia delle formule politiche che, in genere, i filosofi producono nel tentativo di interpretare, o di riformare, a seconda dei casi, l'ordine sociale.


Tuttavia, prima di entrare nello specifico del tema in questione, è bene spendere ancora alcune parole per chiarire alcuni presupposti davvero importanti sulla disabilità.


Le persone disabili certamente soffrono la presenza di ostacoli oggettivi di varia natura che interferiscono immediatamente con l'espletamento di funzioni personali al punto da rallentarne in maniera tanto vistosa e profonda l'effettuazione. Il mancato rispetto di uno standar da parte delle persone disabili spinge a non considerarle “normali”. Ovviamente, nel caso presente non ha proprio alcuna importanza parlare di “normalità” o di “ordine” o di “standard evolutivo”, l'importanza appare solo relativa. La presenza di un handicap, pertanto, nell'accezione inglese del termine, vale a dire di “peso aggiuntivo”, che in questo caso grava sulle spalle delle persone disabili, e che interferisce con le loro normali funzionalità, è la differenza che corre tra una persona normodotata, la quale può tranquillamente contare sulle proprie forze per superare i normali ostacoli della vita quotidiana, e una persona disabile, la quale non può contare sulle proprie forze per andare avanti nella propria vita personale e per sviluppare in maniera adeguata le proprie lecite aspettative esistenziali. L'interferenza della menomazione fisica con il pieno sviluppo personale incide o sull'autonomia personale o sulle capacità cognitive oppure sull'indipendenza nelle relazioni umane.



Detto questo, sia pure molto brevemente, emerge subito come alcuni aspetti, di per sé rilevanti, della condizione vissuta dalle persone disabili, pur nell'estrema generalità di quanto sto dicendo, siano, in primo luogo, l'estrema dipendenza cui vanno incontro le persone disabili e, in secondo luogo, la manifestazione radicale in esse dei limiti della nostra condizione umana, come la sofferenza, la mancanza di capacità, il bisogno, e così via. La relazione di cura, la quale, detto per inciso, sovente, e molto spesso, a dire il vero, caratterizza la condizione esistenziale delle persone disabili, è talmente importante da far dire alla Nussbaum come sarebbe bene riformulare tutte le nostre teorie della giustizia al fine di tenerne conto[1]. Questo perché le cure alle persone disabili, per la loro durata, coincidente in genere con quasi l'intera vita di queste ultime, e per la loro natura, sono molto onerose e tali da incidere in maniera formidabile sulle finanze della collettività. Il trattamento da riservare loro, pertanto, è così importante da influenzare la nostra stessa concezione della giustizia sociale, la nostra stessa idea di diritto. Infatti, hanno le persone disabili delle pretese, peraltro legittime, vista la loro condizione, da far valere nei confronti del resto della comunità oppure no? E se sì, non vanno soddisfatte, costi quel che costi? Forse ha ragione Dworkin quando asserisce che, in genere, ed intendo presso il centro occidentale della medesima teorizzazione politica, i diritti non vengono presi sul serio, e, aggiungo, sempre più considerati come privilegi che le finanze pubbliche non possono più concedere, come sprechi che la crisi attuale non può più tollerare. Ma questo accade perché l'intrinseca asimmetria dei rapporti di forza tra persone disabili e persone normodotate finisce con il realizzare il rischio, a suo modo paventato, nella sua prosa romanzata, da Pontiggia secondo il quale il rischio razzista, con riguardo al tema attuale, è sempre presente ed agente. Nel momento in cui si riconosce la diversità e da questa si prendono le mosse al fine di dedurre diritti differenti, ossia separati, vale a dire specificatamente in funzione dei differenti fruitori finali, ecco che ha luogo la discriminazione[2].


Quando accade ciò, la giustizia fallisce, ma, e prima ancora, fallisce l'intelligenza umana, quella stessa meravigliosa creazione di cui tanto si beano i filosofi, gli stessi che, in genere, preferiscono ignorare la disabilità tout – court.


Invece, la disabilità è una cosa concreta, è una declinazione, magari radicale, della medesima condizione umana e interpella direttamente tutte le nostre teorie politiche, ed economiche, mette in questione le nostre più profonde convinzioni, i nostri più radicali convincimenti personali. Solo riconoscendo nei soggetti disabili la medesima umanità, è possibile dare seguito ad una riconsiderazione generale in tema di diritti, giustizia e redistribuzione del reddito secondo il bisogno. In fondo, infatti, le persone disabili sono “persone”, non “qualcosa”[3], magari da rifiutare o misconoscere. Al di sotto del mero riconoscimento di un diritto, v'è un diritto ancor più fondamentale, ancora più radicale, ancora più “di principio”: il diritto di avere diritti[4], vale a dire la possibilità, anche per loro, di essere titolari di diritti, costi quel che costi. Altrimenti, finiamo con la finzione della giustizia o dei diritti soggettivi e continuiamo, ma stavolta alla luce del sole, a negare parità ed eguaglianza di diritti.


Secondo Nussbaum proprio il tema della disabilità, e della connessa giustizia dovuta alle persone disabili, dovrebbe spingerci, magari anche in maniera celere, a ri – pensare il nostro modello politico. Perché dovrebbe accadere questo? La risposta è tanto semplice quanto radicale: tutti i teorici del contratto sociale, e, quindi, di una certa modalità di pensare ai rapporti, in termini di costi e benefici, tra i singoli membri della società politica, hanno sempre caratterizzato il soggetto che entra in relazione, per il tramite del contratto sociale, come non – disabile. Anzi, i soggetti che successivamente costituirebbero la comunità politica sono concepiti come liberi, eguali ed indipendenti[5]. In questo modo, i teorici del contratto sociale negano cittadinanza a tutti coloro che, per vari motivi, o per diversi handicaps, non possono agire come fanno coloro i quali, al contrario, sono liberi, eguali ed indipendenti. Infatti, i contraenti del contratto sono gli stessi per i quali vengono redatti i principi della comunità politica[6]. Di conseguenza, se le persone disabili non possono entrare come pari rispetto agli altri contraenti, come uguali tra eguali, non possono far valere alcuna pretesa successivamente. La loro esclusione appare dunque tanto radicale quanto criticabile.


L'estromissione doppia, prima dall'elenco dei contraenti il patto, e dopo dai fruitori dello stesso, è il simbolo più vistoso dello stigma sociale con il quale, in genere, si occulta l'umanità[7]. Questo perché, in genere, la presenza di handicap così importanti spinge a considerare le persone che ne portano il segno quotidianamente come non – normali[8]. E questo è un problema “classico”, oserei dire, per la disabilità in generale[9].


Tuttavia, ciò non significa che si debbano lasciare le cose così come stanno.
Per la Nussbaum, questa stessa mancanza è indice del fallimento del modello stesso: i disabili esistono, non sono scherzi o bizzarrie singole della Natura.


Per affrontare, appunto, questo problema, rilevante per qualsiasi teoria politica che voglia farsi apprezzare come realmente valida, Nussbaum sottopone a critica l'intera tradizione liberale occidentale, e, in modo particolare, il modello contrattualista, dal periodo classico, con Locke e Hume, sino al neocontrattualismo, con Rawls sugli scudi.


Il discorso della filosofa è, nel contempo, pregevole, per l'impegno analitico profuso, e interessante, per gli esiti imprevisti cui mette capo. Per la Nussbaum, gli uomini stipulano tra loro un contratto, cioè «decidono di rinunciare all'uso privato della forza e alla possibilità di sottrarre i beni agli altri, in cambio di pace, sicurezza e con la prospettiva di un vantaggio reciproco»[10]. L'idea alla bade di qualsiasi formulazione di marca contrattualista è che una comunità politica si costituisca in un momento non storico, ma ideale, come il voluto superamento dello stato di natura e con lo scambio di pretese naturali con vantaggi sociali. In modo particolare, gli uomini accettano di rinunciare alla loro libertà di natura in nome di un vantaggio reciproco altrimenti non conseguibile. Per gli autori classici, dunque, vi sono dei beni indisponibili al consumo durante lo stato naturale, ed è in vista di quest'ultimo, possibile solo dopo il superamento dello stato di natura, che decidono di uscirne e di accedere ad altre forme di organizzazione sociale.


Quel che, però, tutte le concezioni contrattualiste fanno è giustificare teoricamente un modello di società politica fondata su un insieme di «principi politici fondamentali»[11], uno dei maggiori contributi della filosofia politica liberale[12]. Questa società politica mostra come tutti possono rinunciare al proprio potere «a favore del diritto e dell'autorità debitamente costituita»[13] a condizione di essere spogliati dei vantaggi artificiali che alcuni di essi hanno nelle società reali. In quest'ultimo caso, infatti, avviene che, tolte tutte le differenze di partenza, gli uomini non possono che accordarsi «su un certo tipo di contratto»[14]. Ne emerge, allora, che se il punto di partenza è equo, «i principi che ne emergeranno saranno anch'essi equi»[15].


La stessa idea procedurale di società politica, non per forza Stato, precisa Nozick[16], è presente in Rawls per il quale, avverte invece Nussbaum[17], il discorso è più complesso, sia con riferimento alle sue fonti sia con riguardo alla specifica modalità con cui discute alcuni punti specifici della propria teoria di società politica giusta. Il punto di partenza resta, però, lo stesso: come assicurare ai singoli tutti quei diritti che lo stato di natura non consente? Anche Nozick scorge il medesimo problema, commentando il discorso lockiano: «nello stato di natura una persona può essere priva del potere di far rispettare i propri diritti; può non essere capace di punire o farsi risarcire da un avversario più forte che li ha violati»[18].


Rispetto alla teoria ralwsiana, Nussbaum individua ben tre differenti problemi irrisolti, e punti critici per la stessa. Per gli scopi presenti, però, ci concentreremo solamente su uno di questi, quello relativo, per l'appunto, alla disabilità, e al ruolo che chi ne soffre assume nella società politica.


Nussbaum osserva come per tutti i teorici classici del modello contrattualista di società politica «i soggetti contraenti siano uomini approssimativamente eguali riguardo alle capacità e in grado di svolgere attività economica produttiva»[19]. Le persone disabili, chi in misura maggiore e chi in misura minore ma tale comunque dall'essere esclusi dall'insieme delle persone “produttive”, sono così estromesse dalla società politica. Le persone disabili, dunque, sono escluse dal gruppo «di coloro che scelgono i principi politici fondamentali»[20]. I teorici classici non contemplano la presenza, vale a dire il ruolo attivo, di persone disabili tra coloro che stabiliscono i principi morali di una società giusta. Semplicemente, i disabili non fanno parte della pars valentior, rappresentativa dell'intera specie umana, incaricata di elaborare i valori fondamentali di una società politica che possa fregiarsi della virtù morale. Il problema di tale esclusione è che se i disabili non sono inclusi nel gruppo di coloro che scelgono, essi «non sono inclusi […] nel gruppo di coloro per i quali i principi sono scelti»[21]. In maniera del tutto caratteristica, a mio avviso, accade una pericolosa transizione in virtù della quale essere inclusi nell'elenco di coloro che stabiliscono i principi fondamentali, che una futura società politica deve avere, significa anche essere tra i futuri fruitori degli stessi. Viceversa, non avere rappresentanza nell'insieme dei formulatori dei principi di base della futura società politica comporta, di conseguenza, non essere presi in considerazione in qualità di possibili fruitori dei principi politici fondamentali nella futura società politica. Il problema, nel caso delle persone affette da disabilità, è doppio: non far parte della pars valentior, che formula i principi insindacabili sui quali deve fondarsi la futura società politica, e non venir contemplati quali possibili beneficiari degli stessi principi politici fondamentali. Si potrebbe anche dire che si tratta di una medesima esclusione, la quale opera in due momenti differenti ma collegati: nel momento di codificazione dei principi basilari della società politica e in quello del godimento degli stessi.


Per Nussbaum il problema, in sede teorica, risiede in quella condizione iniziale che, in nessun caso, una persona disabile può rispettare: essere libera, eguale ed indipendente. I bisogni delle persone disabili sono così “speciali” da impedire che possano relazionarsi con loro simili come farebbe normalmente una qualsiasi persona bianca occidentale, tale cioè da conformarsi al modello “borghese” codificato durante l'Illuminismo. É questo il problema, è qui che si colloca la radice del “male” contrattualista: formulare un modello privatistico di fondazione dello Stato, presupponendo, a torto, che gli uomini siano tutti liberi, eguali ed indipendenti. Così non è e ne consegue che il modello del contratto, in virtù del quale dei privati in posizione paritetica contrattano tra di loro cosa cedere, in termini di libertà personale, e cosa ottenere, in termini di vantaggi sociali, è la sanzione formale che riconosce come valida, ed assicura anche in termini politici, la differenza sostanziale che sussiste nello stato di natura rispetto alla differente distribuzione della forza personale e delle capacità naturali di entrare in relazione con gli altri.


Se l'idea morale centrale nella tradizione contrattualista è il «mutuo vantaggio e reciprocità»[22], l'esclusione iniziale delle persone disabili comporta la loro esclusione futura dall'elenco delle persone che possono godere dei principi politici stessi. Infatti, non far parte dei contraenti originali del patto sociale significa che le persone disabili non hanno «eguale cittadinanza»[23] con gli altri.


Nella teoria politica di Rawls, che riprende ampliandola ed aggiornandola, sotto un certo punto di vista, la teoria classica del contratto sociale, la società politica viene intesa nei termini di un'impresa cooperativa per il mutuo vantaggio[24]. Di conseguenza, il problema diviene quello di spiegare come mai le parti decidano di abbandonare lo stato di natura per ottenere dei vantaggi reciproci derivanti dalla cooperazione sociale. Le parti, cioè, vanno alla ricerca di un vantaggio reciproco da conseguirsi per il tramite della cooperazione in società. L'idea di Rawls è che persone razionali siano in grado di compiere una scelta tra la cooperazione e la non cooperazione per il «vantaggio reciproco»[25], capaci di comprendere come la cooperazione sia sempre preferibile alla non cooperazione, e che, dunque, in ultima istanza, la società politica stessa sia di per sé preferibile, vale a dire più vantaggiosa, allo stato di natura. In altri termini, le parti non devono decidere se sia preferibile una società esistente, quella “naturale”, o una società futura, quella “politica”, ma solamente riconoscere la ragionevolezza di alcuni principi e l'assenza stessa di principi e scegliere i primi. É infatti razionalmente preferibile la cooperazione sociale, ossia la presenza di alcuni principi politici fondamentali, anziché vivere l'arbitrio dell'assenza totale di principi o del più forte, come si configura, in genere, lo stato di natura, non a caso considerato da Hobbes una condizione di perenne bellum ominium contra omnes.


Rispetto all'argomento presente, la teoria di Rawls, pur configurandosi come un progresso rispetto al modello classico di contrattualismo, non risolve il problema della giustizia sociale rispetto al trattamento da riservare alle persone disabili. Anche Rawls, infatti, considera i disabili dei soggetti marginali rispetto all'insieme complessivo dei soggetti politici e finisce con il posticipare ogni considerazione al riguardo in un imprecisato momento futuro.


Ciò spinge Nussbaum ad asserire come le «teorie contrattualiste devono fare affidamento su una qualche concezione di razionalità nel processo contrattuale e tutte assumono che i contraenti siano lo stesso gruppo sociale dei cittadini per i quali i principi sono stato redatti»[26]. La conseguenza è piana e lineare: «nessuna teoria di questo tipo può includere completamente persone con gravi menomazioni mentali come persone per le quali, in prima istanza, i principi sono stati progettati»[27].


Pur riconoscendo valore alle moderne teorie contrattualiste, con speciale riferimento alle loro concezioni di giustizia, Nussbaum sente di dover rilevare come non siano in grado di affrontare in maniera adeguata il problema della giustizia sociale che deriva dalla sostanziale esclusione delle persone disabili dal godimento dei principi politici fondamentali di una società[28].


Al prototipo di “personalità occidentale”, l'uomo borghese della tradizione illuministica, vale a dire il soggetto libero, eguale ed indipendente, che produce un elenco di principi politici fondamentali, Nussbaum sostituisce un elenco di capacità le quali vanno intese nei termini di «principi politici per una società liberale pluralista»[29]. Ella stabilisce una soglia minima di capacità e prevede per obiettivo della società «portare i cittadini al di sopra di questa soglia delle capacità»[30]. In altri termini, Nussbaum non concepisce un modello generale e comprensivo di giustizia sociale, ma solamente un correttivo funzionale che possa migliorare il grado complessivo attuale di giustizia[31]. Ella non dice nulla riguardo alla maniera concreta in virtù della quale la giustizia tratterebbe le ineguaglianze al di sotto della soglia minima, ma indica i livelli essenziali perché una vita umana possa considerarsi dignitosa. Pertanto, l'approccio alle capacità indica il «nucleo minimo di diritti sociali»[32] che viene garantito dal riconoscimento, e dalla conseguente promozione, delle capacità umane centrali. Nussbaum elenca le seguenti capacità:

  1. Vita;
  2. Salute;
  3. Integrità fisica;
  4. Immaginazione;
  5. Sentimenti;
  6. Ragion pratica;
  7. Appartenenza;
  8. Relazionarsi con altre specie;
  9. Gioco;
  10. Controllo del proprio ambiente.



L'idea di base di tale elenco è che una vita priva di una di queste capacità centrali non è una vita umanamente dignitosa. In altri termini, esso è un particolare approccio ai diritti umani[33]. Per il tramite di tale elenco, Nussbaum sposta il discorso sulla giustizia sociale dalle premesse all'esito finale del processo politico. Pertanto, la giustizia «sta nel risultato e la procedura è valida se sostiene tale esito»[34]. Di conseguenza, quel che importa ad una teoria della giustizia è la «qualità della vita delle persone»[35]. Allora, tutti i diritti dovrebbero essere garantiti alle persone «in quanto requisiti centrali di giustizia»[36].


L'approccio alle capacità non presuppone che le persone debbano essere libere, eguali ed indipendenti e, quindi, consente di «usare una concezione politica della persona che riflette più da vicino la vita reale»[37]. D'altro canto, infatti, lo stesso approccio parte da una concezione della persona come animale sociale la cui dignità non deriva da una razionalità idealizzata ed offre «una concezione più adeguata della piena ed eguale cittadinanza delle persone con menomazioni fisiche e mentali e di quella di coloro che si occupano di esse»[38].


Il difetto della teoria ralwsiana di giustizia è, in buona sostanza, far affidamento su una concezione presuntiva di normalità. Di conseguenza, Rawls non può spiegare perché a tutti coloro che si collocano al di sotto della mediana della normalità sia dovuta giustizia «piuttosto che carità»[39]. Ciò svela il vero carattere della finzione originaria del contratto sociale. Infatti, la cooperazione sociale promessa, e promossa, «è intimamente connessa all'idea che si debba restringere il gruppo iniziale dei contraenti a coloro che posseggono “normali” capacità produttive»[40]. Per poter includere le persone con disabilità entro il normale range di funzionamento della società politica, retta dal principio della cooperazione sociale per il mutuo vantaggio, Rawls dovrebbe riprogettare la razionalità delle parti al fine di includervi anche la cura degli interessi di terzi «e non solo dei propri»[41]. Per poter cooperare, le persone disabili «hanno bisogno di essere considerate come cittadini degni, cui siano riconosciuti i diritti di proprietà, all'impiego, e così via, e non come meri oggetti di proprietà»[42]. Il curioso paradosso delle teorie della giustizia sociale non fondate sull'approccio alle capacità è di considerare le persone disabili come dei mezzi, e non come dei fini, della medesima cooperazione sociale. Ovviamente, si tratta di “calare” la lista delle capacità umane centrali nella rete dei concreti bisogni delle singole persone con disabilità, ciascuna con i propri personali.



Nussbaum propone, dunque, di rendere più giusta la società politica modificando la prospettiva usuale, considerando le persone disabili dei soggetti politici di cooperazione sociale e non dei meri oggetti politici di cooperazione tra soggetti sociali. Infatti, lo scopo della cooperazione sociale «non è ottenere un vantaggio, bensì promuovere la dignità e il benessere di tutti i cittadini»[43].



Ora, se le condizioni di vita delle persone disabili, e di coloro che se ne prendono cura, sono oggettivamente più difficili delle altre, una «società decente organizzerà lo spazio pubblico, l'istruzione pubblica e altre rilevanti aree della politica pubblica per sostenere queste esigenze e per includerle completamente, dando a coloro che assistono tutte le capacità della nostra lista e dandone ai disabili il maggior numero possibile, nel modo più completo possibile»[44].



In conclusione, a parer mio, Nussbaum ridefinisce la nozione di giustizia cercando di farla aderire alle concrete condizioni di vita reale. In questo modo, il suo approccio fornisce «una parziale teoria della giustizia sociale di base»[45] e sostiene come «un mondo nel quale le persone hanno tutte le capacità della lista è un mondo giusto e decente, almeno ad un livello minimo»[46]. La teoria della giustizia sociale è, sotto ogni punto di vista, una particolare teoria del bene formulata nei termini di «diritti umani fondamentali»[47].




Note
[00] E tutto questo nonostante che la razionalità sia più una meta ideale, che non una condizione realisticamente realizzata. Secondo J. Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 85 e sgg. la razionalità umana è massimamente imperfetta e può essere perfetta solo in rarissimi casi “locali”.
[01] Anche se ciò va inteso come declinazione in concreto della teoria politica al fine di dare risposta a tre temi emergenti: 1) la disabilità; 2) il multiculturalismo; e, 3) la differenza di genere.
[1] Cfr. M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 28.
[2] Cfr. G. Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2012, p. 147.
[3] Cfr. R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma – Bari, 20134, p. 6.
[4] Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma – Bari, 2012, pp. 25 – 6.
[5] Cfr. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 104.
[6] Ivi, p. 84.
[7] Cfr. M. C. Nussbaum, Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 20132, p. 353.
[8] Ivi, p. 355.
[9] Cfr. G. Pontiggia, op. cit., pp. 42 – 3.
[10] Cfr. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere … op. cit., p. 30.
[11] Ibidem.
[12] Supra.
[13] Ibidem.
[14] Supra.
[15] Ivi, p. 31.
[16] Cfr. R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 45.
[17] Cfr. M. C. Nussbaum, Le frontiere … op. cit. p. 32 e sgg.
[18] Cfr. R. Nozick, op. cit., p. 35.
[19] Cfr. M. C. Nussbaum, Le frontiere … op. cit., p. 35.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p. 37.
[22] Ivi, p. 36.
[23] Ivi, p. 38.
[24] Ivi, p. 77.
[25] Ivi, p. 78.
[26] Ivi, p. 84.
[27] Ibidem.
[28] Ivi, p. 86.
[29] Ivi, p. 87.
[30] Ivi, p. 88.
[31] Ivi, p. 92.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p. 95.
[34] Ivi, p. 99.
[35] Ivi, p. 100.
[36] Ivi, p. 102.
[37] Ivi, p. 104.
[38] Ivi, p. 116.
[39] Ivi, p. 138.
[40] Ibidem.
[41] Ivi, p. 142.
[42] Ivi, p. 186.
[43] Ivi, p. 220.
[44] Ivi, pp. 241 – 242.
[45] Ivi, p. 294.
[46] Ibidem.
[47] Supra.




Bibliografia



J. Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità, Il Mulino, Bologna, 2005.
R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008.
M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 50.
M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007.
M. C. Nussbaum, Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 20132.
G. Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2012.
S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma – Bari, 2012.
R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma – Bari, 20134.







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martedì 8 ottobre 2013

Filosofia sociale

(recentemente ho introdotto l'argomento, lo faccio adesso in maniera molto più estesa, recensendo direttamente il testo in questione)


Recensione a: V. Rosito – M. Spanò, I soggetti e i poteri. Introduzione alla filosofia sociale contemporanea, Carocci, Roma, 2013, pp. 250.




Vincenzo Rosito e Michele Spanò scrivono a quattro mani il presente volume che introduce alla filosofia sociale contemporanea.


Il testo, corposo nel numero di pagine, consta di una introduzione e di cinque capitoli, ciascuno dei quali significativamente declinati al plurale ed indicanti specifici verbi della filosofia sociale.


Gli autori forniscono un inquadramento di massima della disciplina. Essa «indaga […] i nessi sociali che precedono e consentono ogni messa in forma istituzionale» (p. 9), quei legami tra attori sociali i quali, per loro specifica natura, stanno sia prima sia durante ogni manifestazione istituzionale dei comportamenti sociali. La filosofia sociale «descrive tipi diversi di normatività» (p. 10), vale a dire che procede alla «descrizione dei regimi di normatività che percorrono la società e che sono dunque la premessa […] per poterla eventualmente criticare e trasformare» (p. 10). Detto altrimenti, la filosofia sociale non si presenta come una critica della società, come una prescrizione ideale di organizzazioni alternative della stessa, quanto piuttosto come discorso della società. Il teorico viene chiamato in causa per poter “dire” la società. La società, infatti, «è il “luogo comune” di soggetti e poteri» (p. 11), quel «luogo in cui si situa la filosofia sociale» (p. 11) chiamata a compiere «un'indagine dinamica dei rapporti interni a soggetti e poteri […] e del loro modo di comporsi» (p. 11). Pertanto, essa viene compiutamente concepita come «una forma di critica immanente al proprio tempo» (p. 13) poiché «descrive il rapporto tra i soggetti e i poteri in una data epoca» (p. 13) e «diagnostica le forme degli uni e degli altri» (pp. 13 – 4), riflette in maniera critica «sulla trasformabilità della condizione presente» (p. 14) e offre «gli strumenti per dare corso a questa trasformazione» (p. 14). I soggetti e i poteri, pertanto, non si danno come 'cose', ma sempre come 'discorsi'. Allora, la filosofia sociale opera sul linguaggio, «sui suoi limiti e le sue potenzialità, sul suo carattere vincolante e su quello abilitante» (p. 14).


Il primo capitolo prende le mosse da un verbo particolare, vale a dire Riconoscersi. Per gli autori, esso significa gettare uno sguardo sulle pratiche del riconoscimento. La scuola di Francoforte è, al riguardo, il punto focale di tale discorso in quanto si cerca di fornire importanti chiavi di lettura per lo spaesamento moderno della soggettività, oramai incapace di riconoscersi. Ma non basta certo denunciare il processo alienante del sistema di produzione capitalistico per salvare il soggetto, è necessario piuttosto spostare il discorso sulle «pratiche discorsive in seno alle quali il sociale prende forma e la realtà viene cooperativamente costruita» (p. 22). È tuttavia con Honneth che la pratica del riconoscimento viene fattivamente riconosciuta come tale e presa seriamente in considerazione. Egli, infatti, «intende fornire principalmente una concezione critico-normativa dei processi costitutivi dell'autocoscienza e del valore strutturalmente produttivo del conflitto e del dissenso» (p. 27). Attingendo al lascito culturale di Habermas da un lato e di Foucault dall'altro, Honneth si propone come saggio interprete della secolarizzazione, vale a dire dell'attuale disagio della civiltà occidentale stretta dalla perdita della propria centralità secolare e pressata da forze esterne potenti. Più sede di contrasti e conflitti che di composizioni e mediazioni. Solo attraverso il cooperativo riconoscimento dell'identità singola con l'identità dell'altro appare possibile rinnovare il processo del dialogo tra soggetti. Ovviamente, la filosofia sociale non guarda solamente a questo apparato teorico, ma prende in considerazione anche ben altri registri, come la teoria del dono, equiparato ad un vero e proprio «modello sociale onnivalente» (p. 41), vale a dire una struttura sociale ubiquitaria. Con la donazione, in altri termini, si instaura una «circolarità virtuosa» (p. 46) del dare, del ricevere e del ricambiare che realizza una «costituzione partecipata di rapporti sociali» (p. 46). Tuttavia, non tutti concordano sulla natura disinteressata della donazione. Derrida è uno dei massimi esponenti di questa teoria ed oppone dono a reciprocità nello scambio. Recentemente, si è anche insediato un altro modello filosofico che prende il nome di filosofia della cura. Essa «descrive infatti un modo delle relazioni sociali attraverso il quale prende forma una specifica gestualità morale: quella dell'interessamento pratico, della sollecitudine affettiva e della tutela etica» (pp. 59 – 50). Prendendo atto della consustanziale vulnerabilità umana, la nozione di cura esprime una tipologia di relazioni sociali fondate appunto sull'interessarsi del destino esistenziale altrui e del prendersi cura dei propri simili, al punto a configurarsi come la «possibilità di una base etica condivisa tra pubblico e privato» (p. 53). La filosofia politica moderna, invece, ha orientato la propria riflessione attorno al rapporto problematico della libertà e della eguaglianza. Basti pensare a Rawls per il quale la giustizia è «la categoria primaria dell'analisi filosofica delle interazioni sociali» (p. 61). Ne emerge, pertanto, come nei coevi conflitti sociali un ruolo sempre maggiore venga ad essere svolto dall'«identità sociale» (p. 65) la quale svolge due distinte funzioni: 1) identificare i gruppi sociali di appartenenza dei singoli a determinate categorie, in funzione della quale formulare in maniera corretta le «realtà materiali o immateriali che definiamo beni sociali» (p. 65); e, 2) solo in base ad essa, ciascun individuo «matura quelle capacità specifiche con cui è in grado di percepire il mondo come proprio e sé stesso come membro di una determinata comunità» (p. 65). Il riconoscimento di un ruolo importante all'identità sociale, e alla riscoperta del suo ruolo all'interno delle teorie economiche, è uno dei grandi meriti di Sen secondo il quale il grande limite delle teorie economiche contemporanee è di muovere «dall'illusione dell'unicità» (p. 66), vale a dire ignorare come alla base dell'identità sociale possano esservi processi arbitrari e decisionali che sperimentano e sintetizzano appartenenze diverse in funzione al genere sessuale, alla lingua, alle abilità pratiche, alle conoscenze culturali. Così, l'equità sociale andrebbe valutata «in relazione alle modalità concrete che permettono a ciascuno di realizzare funzioni e di sviluppare competenze reali» (p. 67). La libertà per Sen consiste «nella disponibilità concreta ed equamente garantita» (p. 68) delle condizioni che rendono possibile il dispiegamento delle capacità individuali.



Il secondo capitolo s'intitola Governarsi e pone al centro della riflessione la forma di organizzazione politica attraverso la quale i soggetti si pongono in relazione a dei poteri. La filosofia sociale guarda alla democrazia «come un dato sociologico» (p. 72), ravvisandone anche l'«ineliminabile componente emotiva, affettiva, passionale» (p. 72). In questo modo, ad esempio, per Tocqueville la democrazia non è una forma di governo, ma «uno stato della società» (p. 74), segnatamente quella condizione che si realizza con la scomparsa dell'aristocrazia e con l'estensione universale del principio di eguaglianza. Ma alla pari di Tocqueville, Mill riscontra la necessità del governo di una società la quale proprio perché plurale è «mossa da interessi e desideri diversi» (p. 76). Così, la filosofia sociale si trova a lavorare su questo terreno, «l'antropologia dell'homo democraticus contemporaneo» (p. 77). La disamina dei mutamenti nei desideri dei soggetti relati da diversi poteri è alla base della ricognizione foucaltiana intorno ai governi delle società. Foucault conia appunto il concetto di governamentalità, vale a dire «una specifica razionalità di potere» (p. 81) che non si identifica né con un'istituzione né con una teoria. Essa si rivela un «dispositivo articolato secondo una duplice polarità: il governo di sé e il governo degli altri» (p. 82). Esso permette a Foucault di criticare il modello giuridico del potere, di rendere più chiaro il rapporto tra tecniche del sé e tecniche del dominio, di estendere il campo del potere sino a poterlo descrivere «come un gioco strategico, come governo e come dominio» (p. 86). Il principale lascito teorico di Foucault alla filosofia sociale appare essere quello di aver suggerito come il potere non debba essere analizzato in funzione di una sua pretesa essenza, ma «nei modi specifici in cui si esercita» (p. 89), ossia come entra in contatto con i soggetti. Vi sono, comunque, anche altre prospettive al riguardo le quali conducono una critica alla democrazia la quale va di pari passo alla crisi della stessa. Per rispondere a quest'ultima, Sintomer propone la procedura del sorteggio perché garantisce «imparzialità e favorisce la qualità della deliberazione» (p. 103). Si tratterebbe, per dirlo altrimenti, di uno strumento democratico che impone «il principio di eguaglianza» (p. 103). Nonostante ciò, però, esiste un grosso limite alla pratica in questione. Infatti, a chi rispondono quanti sono eletti per sorteggio? Si tratta, allora, del problema di «un equilibrio tra la procedura del sorteggio e il rispetto di una rappresentanza sociologica della società» (p. 103). A fronte di questi problemi, altri autori hanno proposto modelli teorici del tutto differenti, come nel caso dei comunitaristi. Per tutti costoro, infatti, la comunità è un «modo di abitare la società, un modo di farne esperienza» (p. 106). Le principali fonti di questo filone di pensiero sono Tönnies e Bataille. Per Nancy, invece, la comunità è il luogo «dell'esposizione delle esistenze finite» (p. 120). Per la filosofia sociale della comunità, «l'altro, il simile, non è riconosciuto perché uguale a me» (p. 123) dal momento che non esiste una comune origine «cui fare riferimento» (p. 123). Se ciascuno «è il suo fuori, è solo nella propria esteriorità che ci si riconosce simili» (p. 123). La comunità è appunto quel regime ontologico «in cui l'uno e l'altro sono simili» (p. 123), in cui cioè «l'identità è sempre spartita e perciò sempre perduta e mai posseduta» (p. 123). Di conseguenza, la progettualità politica da descrivere cui si mette capo non è quella comune dei diritti, dei doveri, delle tutele, dei contratti, del consenso, ma quella dell'esperienza, vale a dire «un'esperienza della spartizione, dell'inoperosità e della comunicazione dell'una come dell'altra» (p. 126). La riflessione di Nancy però spinge il pensiero sulla comunità ben oltre tutto ciò, attestandosi piuttosto su una «prospettiva ontologica sulla politica» (p. 126). Peraltro, tutto il fiorire di filosofie fenomenologiche nel corso del XX secolo ha a cuore la tematizzazione del rapporto tra il soggetto e l'altro al punto che non è scorretto né esagerare affermare che proprio questo sia uno dei temi che «definisce la stessa struttura dell'essere» (p. 128).



Il terzo capitolo s'intitola Sollevarsi e si occupa principalmente della sovversione del soggetto ad opera di psicoanalisi e marxismo. Grazie a Freud, sappiamo che il soggetto è perfino estraneo a sé stesso, in alcun caso «padrone e sovrano dei suoi atti e dei suoi pensieri» (p. 137). La sovversione nei confronti del sovrano assoluto della filosofia occidentale è radicale ed impone una riflessione del tutto diversa del rapporto tra i singoli, così sottodeterminati dal giogo dell'irrazionalità, e i poteri, così determinati da logiche estranee alla razionalità occidentale. Peraltro, la civiltà stessa finisce con l'apparire la negazione stessa della naturalità degli esseri umani, come una gabbia che irretisce gli uomini. La psicoanalisi, dal canto suo, diviene una «pratica di orientamento del desiderio e della sua soggettivazione singolare da parte di ciascuno» (p. 143). Tuttavia, la nota comune all'ipermodernità di cui siamo transito, secondo Recalcati, è caratterizzata dal trionfo del discorso del capitalista, vale a dire che la continua archiviazione del desiderio, altrimenti non soddisfacibile in alcun caso, nell'inconscio dove però continua ad operare, provoca l'evaporazione stessa del desiderio. Otteniamo, pertanto, un soggetto «colpevole, ma non dotato di senso di colpa» (p. 145). L'elemento, però, che maggiormente colpisce nel panorama contemporaneo è il conflitto, ossia l'esistenza di un legame sociale il quale si realizza solamente nella forma dello scontro. Pertanto, gli autori mettono assieme, proprio con riguardo alla tematizzazione del conflitto figure l'una diversa dall'altra, come Gramsci, Schmitt e Althusser. Questo perché essi sono accomunati da una comune maniera di concepire la società, vale a dire un «campo di lotta» (p. 147) di «visioni parziali di verità che lottano per istituirsi come universali» (p. 148). Tuttavia, il presente discorso sulla contesa di parzialità che vorrebbero imporsi come generalità incrocia il discorso sui significanti, ossia sui meccanismi sociali di riconoscimento e identificazione per mezzo dello scontro tra opzioni diverse e sovente contrarie.




Il quarto capitolo ha come titolo Nominarsi ad indicazione dell'orizzonte tematico prescelto: l'esame del rapporto tra i soggetti e i poteri «interrogandosi criticamente sul soggetto» (p. 175). La filosofia sociale deve stavolta prendere in considerazione tutti quei fermenti e quelle idee che l'antropologia, la relatività della cultura postcoloniale e la differenza sessuale offrono alla sua tematizzazione. Infatti, mentre il postcolonialismo chiede al soggetto «della filosofia sociale da dove parla» (p. 175), il femminismo gli «chiede chi è» (p. 175). Il soggetto viene così decostruito dalla forma generale ed occidentale quale è stato conosciuto in filosofia. La ricerca del chi del potere delinea in questo modo un orizzonte semantico innovativo, per non dire differente dalla tradizione consolidata in questo senso. In questo modo, anche, decostruire la razionalità occidentale consente pure di porre in essere «una continua autocritica» (p. 197). Anche il femminismo critica l'usurpazione dell'universale da parte di una parzialità. Per di più, contesta «la stessa forma simbolica dell'universale» (p. 199), un prodotto come tanti altri «del pensiero maschile» (p. 199). Bisogna così abbandonare il dualismo sinora imperante, anche se occultato dietro le parvenze di generalità ed universalità, «per aprire le forme del sapere all'esperienza femminile» (p. 199). L'idea di una differenza sessuale da far valere anche in sede teorica comporta cambiare punto di partenza per le riflessioni filosofiche: non più concetti o modelli generali, ma la particolarità di corpi gli uni differenti dagli altri. Per Butler, ad esempio, la differenza sessuale è «una delle norme che rende possibile il soggetto» (p. 207), vale a dire che lo rende «intelligibile e leggibile nello spazio sociale» (p. 207). In altri termini, va disinnescata «la polarizzazione tra natura (il sesso e il femminile) e la cultura (il genere maschile)» (p. 207). Il soggetto, cioè, non esiste né prima né dopo la corporeità, la dimensione della differenza corporale. Solo così diventa spiegabile la maniera attraverso la quale la costruzione del soggetto abbia sempre comportato un'esclusione: «se porta qualcosa nel campo della lingua […] lascia fuori qualcos'altro» (p. 208).




Il quinto capitolo s'intitola Immaginarsi. La natura del titolo non è casuale dal momento che i processi di globalizzazione in atto appaiono così irresistibili e violenti da porre al filosofo sociale il compito, certo difficile anche se non impossibile, per il mezzo della critica, di «creare le condizioni di possibilità per nuove configurazioni di senso all'interno della prospettiva globale» (p. 211). La globalizzazione non descrive un'estensione globale delle relazioni, dei saperi e delle pratiche, ma il fatto che «questi mutamenti interessano trasversalmente discipline diverse e ambiti differenti del sapere» (p. 212). Di fronte a questo scenario, il compito della filosofia sociale è quello di «rinvenire ambiti e significati in virtù dei quali possano essere “immaginati” funzioni, ruoli e saperi in grado di limitare gli eccessi in-globanti del capitalismo contemporaneo» (p. 213). D'altra parte, è anche vero che i soggetti sociali «sono attori non statali» (p. 214), ma planetari. Lo sfumare dei contorni nazionali è anche l'orizzonte di senso del fenomeno meglio conosciuto come glocalismo, vale a dire la «formazione e la rivendicazione crescente di identità culturali locali, che tendono ad accentuare fortemente alcuni tratti particolaristici di tipo etnico o religioso» (p. 216), apparentemente forme locali di resistenza all'omologazione planetaria, in realtà «parte integrante di quel processo di omologazione» (p. 216). I processi di globalizzazione, in altri termini, impongono di tener debitamente conto di tre differenti elementi: 1) lo sganciamento da forme e vincoli sociali precostituiti in senso tradizionale; 2) perdita delle sicurezza tradizionali; 3) istituzione di un nuovo tipo di legame. In questo senso, appare importante il contributo della prospettiva interculturale la quale cerca di «giudicare determinati contesti sociali nella misura in cui questi creano rappresentazioni di culture considerate estranee» (p. 225). Sicché, l'«interazione reciproca e la compenetrazione dialettica tra cultura e politica rappresentano infatti il vero polo duale intorno al quale è possibile ripensare la categoria di umanesimo come ambito di interpretazione e di critica del mondo contemporaneo» (p. 226). Come lo sfondamento dei confini nazionali impone un ripensamento alla dialettica tra la politica e la cultura, allo stesso modo anche lo sfondamento degli orizzonti culturali della biologia impone una nuova riflessione attorno all'umano. L'essere umano, perché soggetto della tecnica, «si presenta come l'unico essere vivente capace di attivare processi di modificazione riflessiva e ragionata delle coordinate naturali in cui è iscritto» (p. 227). La filosofia sociale, dunque, deve porsi in dialogo con l'antropologia della tecnica in quanto quest'ultima si configura come «una disciplina imprescindibile e un campo tematico necessario» (p. 227). Essa, infatti, «è indispensabile per comprendere e interpretare i mutamenti antropologici in atto nelle società contemporanee, in relazione ai recenti sviluppi delle nuove tecnologie» (p. 229), in maniera tale che la filosofia sociale possa soffermarsi «su queste trasformazioni» (p. 229) individuando quelle categorie «in grado di valutarne la portata e i significati» (p. 229). Su tutti i temi importati dall'antropologia della tecnica ne spicca uno: quello «dell'identità personale» (p. 233). Un altro aspetto che la condizione postmoderna della società umana planetaria impone è quello relativo all'autocoscienza religiosa. Negli ultimi anni è tornato di moda il sentimento religioso al punto che la filosofia sociale non può sognarsi di ignorarlo. Così, essa si trova costretta a prendere in considerazione gli effetti di tre elementi necessari: «le credenze, i riti e le istituzioni» (p. 234). Su questi gioca adesso un ruolo imprescindibile il pluralismo religioso il quale irrompe «in tempi e forme molto spesso inaspettati» (p. 237). Infatti, è al suo interno che si colloca l'orizzonte «in cui interpretare le implicazioni sociali e politiche di tali mutamenti» (p. 237).




(immagine tratta da: http://www.inmondadori.it/img/soggetti-poteri-Introduzione-Michele-Spano-Vincenzo-Rosito/ea978884306630/BL/BL/12/NZO/?tit=I+soggetti+e+i+poteri.+Introduzione+alla+filosofia+sociale+contemporanea&aut=Vincenzo+Rosito)