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sabato 25 marzo 2017

Contrattualismo moderno #5

"Qui vediamo il vero volto dell’idea contrattualista: per quanto si possa moralizzare il punto di partenza, ci scontriamo comunque con il fatto che il motivo fondamentale per deviare dallo stato di natura è trarre benefici dalla cooperazione reciproca e i benefici sono definiti da tutti i teorici con termini economici piuttosto noti. Una tale visione della cooperazione è intimamente connessa all’idea che si debba restringere il gruppo iniziale dei contraenti a coloro che posseggono «normali» capacità produttive"

(Le nuove frontiere della giustizia, p. 138)


(url: http://images.indianexpress.com/2015/07/untitled-11.jpg?w=400)

lunedì 20 marzo 2017

Contrattualismo moderno #4

"I principi di giustizia sono frutto di un accordo. È mio scopo presentare una concezione della giustizia che generalizza e porta a un più alto livello di astrazione la nota teoria del contratto sociale quale si trova ad esempio in Locke, Rousseau e Kant. A questo scopo, non dobbiamo pensare che il contratto originario dia luogo a una particolare società o istituisca una particolare forma di governo. L'idea guida è piuttosto quella che i principi di giustizia per la struttura fondamentale della società sono oggetto dell'accordo originario. Questi sono i principi che persone libere e razionali, preoccupate di perseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione iniziale di eguaglianza per definire i termini fondamentali della loro associazione. Questi principi devono regolare tutti gli accordi successivi; essi specificano i tipi di cooperazione sociale che possono essere messi in atto e le forme di governo della società che possono essere istituite. Chiamerò giustizia come equità questo modo di considerare i principi di giustizia"

(J. Rawls, Una teoria della giustizia)

(url: http://www.vitellaro.it/silvio/storia%20e%20filosofia/Appunti/Rawls%20e%20Sen%20-%20Teorie%20della%20giustizia.pdf)


(url: https://giuseppecapograssi.files.wordpress.com/2014/08/rawls.jpg)

mercoledì 15 marzo 2017

contrattualismo moderno #3



"Ma, poiché non ci può essere né può sussistere nessuna società politica, che non abbia essa stessa il potere di conservare la proprietà e, a questo fine, di punire le offese di tutti quelli che costituiscono i membri di quella società, la società politica c'è se e soltanto se ciascuno dei suoi membri ha abbandonato questo potere naturale, lo ha rassegnato nelle mani della comunità in tutti i casi che non gli precludono di appellarsi, per ottenere protezione, alla legge stabilita dalla comunità. E cosí, essendo escluso ogni giudizio di ciascun membro particolare, la comunità diventa arbitra, in base a regole stabilite, stabili, indifferenti e uguali per tutte le parti. Per opera di uomini, che hanno autorità dalla comunità, per l'esecuzione di quelle regole, essa decide tutte le controversie che possono sorgere tra membri di quella società, riguardanti una qualsiasi materia di diritto, punisce le offese che un membro qualsiasi ha commesso contro la società, con le pene che la legge ha stabilito. [...]
E cosí la società politica ottiene il potere di stabilire quale punizione corrisponde alle diverse trasgressioni commesse dai membri della società ritenuti meritevoli di punizione; e questo è il potere di fare le leggi. Ma essa ottiene anche il potere di punire qualsiasi torto fatto a uno dei suoi membri da uno che non appartenga alla società; e questo è il potere di guerra e di pace. E tutto ciò ha come fine la preservazione della proprietà di tutti i membri di quella società, nella misura maggiore possibile. Ma, sebbene ogni uomo che è entrato a far parte della società civile, ed è diventato membro di una comunità, abbia con ciò abbandonato il potere di punire le offese contro la legge di natura, traducendo in pratica il suo giudizio privato, tuttavia, insieme con il giudizio delle offese che egli ha rassegnato nelle mani del potere legislativo in tutti i casi in cui può appellarsi al magistrato, ha dato anche il diritto alla comunità di impiegare la sua forza per l'esecuzione dei giudizi della comunità, in tutti i casi in cui egli sarà chiamato a dare il contributo della propria forza; e in realtà si tratta dei suoi propri giudizi, perché essi sono dati da lui stesso o dai suoi rappresentanti.
[...] Come è stato detto, tutti gli uomini sono per natura liberi, uguali e indipendenti, e nessuno può essere tolto da questo stato e sottomesso al potere politico di un altro senza il proprio consenso. L'unico modo in cui uno si priva della propria libertà naturale e accetta i vincoli della società civile è l'accordo con gli altri uomini di congiungersi e unirsi in una comunità per convivere gli uni con gli altri in maniera comoda, sicura e pacifica, nel godimento sicuro delle loro proprietà e con una maggiore sicurezza contro chiunque non faccia parte di quella comunità. Questo può essere fatto da un numero qualsiasi di uomini, perché non reca danno alla libertà degli altri, che sono lasciati come se fossero nello stato di libertà proprio dello stato di natura. Quando un numero qualsiasi di uomini hanno a questo modo consentito di fare una comunità o un governo, essi sono immediatamente incorporati, e costituiscono un unico corpo politico; nel quale la maggioranza ha il diritto di agire e di concludere per il resto.
Se l'uomo nello stato di natura è cosí libero, come è stato detto, se egli è l'assoluto signore della sua persona e delle sue proprietà, se è uguale al piú grande degli uomini e soggetto a nessuno, perché egli vorrà privarsi della propria libertà? Perché vorrà liberarsi di questa sovranità e assoggettarsi al dominio e al controllo di un altro potere? La risposta è ovvia: sebbene nello stato di natura abbia un diritto di questo genere, tuttavia il godimento di esso è molto incerto e costantemente esposto all'usurpazione degli altri. Infatti tutti sono re come lo è lui, tutti sono uguali a lui, e la maggior parte non osserva strettamente l'equità e la giustizia, sicché il godimento della proprietà che egli ha in questo stato è molto insicura e molto incerta. Questo fa sí che egli voglia abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di paure e di continui pericoli. Perciò non senza ragione cerca e desidera di unirsi in società con altri che sono già uniti o hanno intenzione di unirsi per la mutua conservazione delle loro vite, libertà e beni, che io chiamo, con un nome generale, “proprietà”.
Perciò il fine grande e principale per cui gli uomini si riuniscono in comunità politiche e si sottopongono a un governo è la conservazione della loro proprietà. A questo fine infatti nello stato di natura mancano molte cose. In primo luogo manca una legge stabilita, fissa e conosciuta. In secondo luogo, nello stato di natura manca un giudice noto e imparziale, con l'autorità di decidere tutte le controversie in base ad una legge stabilita. In terzo luogo, nello stato di natura manca spesso un potere che sostenga e sorregga la sentenza, quando essa è giusta, e ne dia la dovuta esecuzione.
Ma, sebbene gli uomini, quando entrano a far parte della società, rinuncino all'eguaglianza, libertà e potere esecutivo che avevano nello stato di natura, per riporre queste cose nelle mani della società, affinché il potere legislativo ne disponga nella misura richiesta dal bene della società, tuttavia, poiché ciascuno fa ciò soltanto con l'intenzione di meglio conservare per se stesso la libertà e la proprietà (dal momento che non si può supporre che nessuna creatura razionale cambi la propria condizione con l'intenzione di peggiorarla), non si può mai supporre che il potere della società, ossia il potere legislativo costituito dai membri della società, si estenda al di là del bene comune; anzi esso è obbligato ad assicurare a ciascuno la sua proprietà, prendendo provvedimenti contro quei tre difetti sopra menzionati, che fanno lo stato di natura cosí insicuro e disagevole. Perciò chiunque abbia il potere legislativo, ossia il potere supremo, di una comunità politica, è tenuto a governare con leggi stabilite e fisse, promulgate e rese note al popolo, e non con decreti estemporanei; deve servirsi di giudici imparziali e giusti, che devono decidere le controversie in base a quelle leggi; deve impiegare la forza della comunità all'interno soltanto per eseguire quelle leggi, o all'esterno per prevenire o riparare torti provocati da stranieri, e assicurare la comunità da incursioni e invasioni. E tutto ciò deve essere diretto a nessun altro fine, se non alla pace, alla sicurezza e al bene pubblico del popolo"

(J. Locke, Secondo trattato sul governo, parr. 87, 88, 95, 123-126, 131)

(url: http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaL/LOCKE_%20LA%20SOCIETA%20POLITICA%20E%20IL%20.htm)


(url: http://www.homolaicus.com/teorici/locke/Jo_Locke.jpg)

lunedì 6 marzo 2017

Contrattualismo moderno #2

"Suppongo che gli uomini siano arrivati a quel punto in cui gli ostacoli che si oppongono alla loro conservazione nello stato di natura prendono con la loro resistenza il sopravvento sulle forze che ogni individuo può impiegare per mantenersi in tale stato. Allora questo stato primitivo non può più sussistere e il genere umano perirebbe se non cambiasse il suo modo di essere. Ora, poiché gli uomini non possono generare nuove forze, ma solo unire e dirigere quelle esistenti, non hanno più altro mezzo per conservarsi se non quello di formare per aggregazione una somma di forze che possa vincere la resistenza, mettendole in moto mediante un solo impulso e accordandole nell’azione. Questa somma di forze può nascere solo dal concorso di parecchi uomini; ma, essendo la forza e la libertà di ciascun uomo i primi strumenti della sua conservazione, come potrà impegnarli senza nuocersi o senza trascurare le cure che deve a se stesso? Tale difficoltà, riportata al mio argomento, si può enun­ciare nei seguenti termini: «Trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima». Ecco il problema fondamentale di cui il contratto sociale dà la soluzione.
Le clausole di tale contratto sono talmente determinate dalla natura dell’atto che la minima modificazione le renderebbe vane e senza effetto; dimodoché, quantunque, forse, non siano mai state enunciate formalmente, son dappertutto uguali, dappertutto taci­tamente ammesse e riconosciute; fino a che, essendo stato violato il patto sociale, ciascuno non rientra nei suoi primitivi diritti e riprende la sua libertà naturale perdendo la libertà convenzionale con cui l’aveva barattata. Queste clausole, beninteso, si riducono tutte a una sola, cioè all’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità: infatti, in primo luogo, dando ognuno tutto se stesso, la condizione è uguale per tutti, e la condizione essendo uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla gravosa per gli altri. Inoltre, la mancanza di riserve nell’alienazione conferisce all’unione la maggior perfezione possibile e nessun associato ha più nulla da reclamare. Infatti, se i privati conservassero qualche diritto, poiché non vi sarebbe un superiore comune per far da arbitro nei loro contrasti con la comunità, ciascuno, essendo su qualche punto il proprio giudice, pretenderebbe ben presto di esserlo su tutti, lo stato di natura continuerebbe a sussistere e l’associazione diventerebbe necessariamente tirannica o vana. Infine, ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno, e poiché su ogni associato, nessuno escluso, si acquista lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l’equivalente di tutto ciò che si perde e un aumento di forza per conservare ciò che si ha. Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non rientra nella sua essenza, vedremo che si riduce ai seguenti termini: Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto. Istantaneamente, quest’atto di associazione produce, al posto delle persone private dei singoli contraenti, un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti sono i voti dell’as­semblea, che trae dal medesimo atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, così formata dall’unione di tutte le altre, prendeva un tempo il nome di città, e prende oggi quello di repubblica o di corpo politico, detto dai suoi membri Stato, quand’è passivo, Sovrano, quand’è attivo, Potenza, quando lo si considera in rapporto con altre simili unità politiche. Quanto agli associati, prendono collet­tivamente il nome di popolo, mentre, in particolare, si chiamano cittadini, in quanto partecipano dell’autorità sovrana, e sudditi, in quanto soggetti alle leggi dello stato. Ma questi termini spesso si confondono e vengono scambiati; basta saperli distinguere quan­do sono usati in tutta la loro esattezza. […] La prima e più importante conseguenza dei principi stabiliti più sopra è che solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune; infatti, se è stato il contrasto degl’interessi privati a render necessaria l’istituzione della società, è stato l’accordo dei medesimi interessi a renderla possibile. Il legame sociale risulta da ciò che in questi interessi differenti c’è di comune, e, se non ci fosse qualche punto su cui tutti gl’interessi si accordano, la società non potrebbe esistere. Ora, la società deve essere governa­ta unicamente sulla base di questo interesse comune. […] La sovranità, per la stessa ragione per cui è inalienabile, è anche indivisibile. Infatti la volontà o è generale o non lo è; è la volontà del corpo popolare o solo di una parte. Nel primo caso questa volontà dichiarata è un atto sovrano e fa legge; nel secondo è solo una volontà particolare, o un atto di magistratura; tutt’al più un decreto. Ma i nostri politici, non potendo dividere la sovranità nel suo principio, la dividono nel suo oggetto; la dividono in forza e volontà; in potere legislativo ed esecutivo; in diritto d’imposta, di giustizia e di guerra; in amministrazione interna e in potere di trattare con lo straniero; ora confondono tutte queste parti, ora le separano; fanno del sovrano un essere fantastico costituito di pezzi giustapposti, come se componessero l’uomo di più corpi, di cui uno avesse gli occhi,· un altro le braccia, un altro ancora i piedi, e nulla più. I ciarlatani del Giappone – si dice – fanno a pezzi un bambino sotto gli occhi degli spettatori, poi, gettando in aria tutte le sue membra successivamente, fanno ricadere il bam­bino vivo e ricomposto nella sua unità. Tali sono press’a poco i giuochi di bussolotti dei nostri politici; dopo aver smembrato il corpo sociale con un giuoco di prestigio da fiera, non si sa come, ne rimettono insieme i pezzi. L’errore deriva dal fatto di non essersi formate delle esatte nozioni sull’autorità sovrana e dall’aver scambiato con parti della sua autorità quelle che erano soltanto sue emanazioni. Quindi, per esempio, si sono considerati atti di sovranità dichiarare la guerra e concludere la pace, il che non è esatto, perché ciascuno di questi atti non è una legge, ma solo un’applicazione della legge, un atto particolare che determina il caso della legge, come vedremo chiaramente quando sarà fissata l’idea connessa con la parola legge. […] Da quanto si è detto consegue che la volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica; ma non che le deliberazioni del popolo rivestano sempre la medesima rettitudi­ne. Si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre si capisce qual è; il popolo non viene mai corrotto, ma spesso viene ingannato e allora soltanto sembra volere ciò che è male. Spesso c’è una gran differenza fra la volontà di tutti e la volontà generale; questa guarda soltanto all’interesse comune, quella all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari; ma eliminate da queste medesime volontà il più e il meno che si elidono e come somma delle differenze resta la volontà generale. Se, quando il popolo informato a sufficienza delibera, i citta­dini non avessero alcuna comunicazione fra di loro, dal gran numero delle piccole differenze risulterebbe sempre la volontà generale e la deliberazione sarebbe sempre buona. Ma quando si formano delle consorterie, delle associazioni particolari alle spese di quella grande, la volontà di ciascuna di tali associazioni diviene generale in rapporto ai suoi membri e particolare rispetto allo Stato; si può dire allora che non ci sono più tanti votanti quanti sono gli uomini, ma solo quante sono le associazioni. Le differen­ze si fanno meno numerose e il risultato ha carattere meno generale. Infine, quando una di queste associazioni è tanto gran­de da superare tutte le altre, non avete più come risultato una somma di piccole differenze, ma una differenza unica; allora non c’è più volontà generale e il parere che prevale è solo un parere particolare. Per avere la schietta enunciazione della volontà generale è dunque importante che nello Stato non ci siano società parziali e che ogni cittadino pensi solo con la propria testa. Tale fu l’unica e sublime istituzione del grande Licurgo. Se poi vi sono società parziali bisogna moltiplicarne il numero e prevenirne la disuguaglianza, come fecero Solone, Numa e Servio. Queste sono le sole precauzioni valide perché la volontà generale sia sempre illumina­ta e perché il popolo non s’inganni"

(Rosseau, Il contratto sociale, II)
(Url: http://online.scuola.zanichelli.it/lezionidifilosofia/files/2010/01/U8-L13_zanichelli_Rousseau.pdf)


(url: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/b/bf/AduC_004_J.-.J._Rousseau_(1712-1778).JPG/170px-AduC_004_J.-.J._Rousseau_(1712-1778).JPG)

domenica 26 febbraio 2017

Contrattualismo moderno #1

"La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che naturalmente amano la libertà e il dominio sugli altri) nell’introdurre quella restrizione su loro stessi (in cui li vediamo vivere negli Stati) è la previsione di ottenere con quel mezzo la propria preservazione e una vita più soddisfacente, vale a dire, di uscire da quella miserabile condizione di guerra, che è necessariamente conseguente (come si è mostrato nel capitolo XIII), alle passioni naturali degli uomini, quando non c’è un potere visibile per tenerli in soggezione, e legarli, con il timore della puni­zione, all’adempimento dei loro patti e all’osservanza di quelle leggi di natura esposte nei capitoli XIV e XV. Infatti le leggi di natura (come la giustizia, l’equità, la modestia, la misericordia, e, insomma il fare agli altri quel che vorremmo fosse fatto a noi) in sé stesse, senza il terrore di qualche potere che le faccia osservare, sono contrarie alle nostre passioni naturali che ci spingono alla parzialità, all’orgoglio, alla vendetta e simili. I patti senza la spada sono solo parole e non hanno la forza di assi­curare affatto un uomo. Perciò nonostante le leggi di natura (alle quali ognuno si attiene quando ha la volontà di attenervisi e può farlo senza pericolo) se non è eretto un potere o se non è abbastanza grande per la nostra sicurezza, ogni uomo vuole e può contare legittimamente sulla propria forza e sulla propria arte per garantirsi contro tutti gli altri uomini. […] La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di assicurarli in modo tale che con la propria industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere sé stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni, e sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di lui, ed ogni loro giudizio al giudizio di lui.
Questo è più del consenso o della concordia; è un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande leviatano, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare, nello stato è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste l’essenza dello stato che (se si vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni membro di una grande moltitudine, con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e vice­versa, si è fatto autore, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa. Chi regge la parte di questa persona viene chiamato sovrano e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro è suo suddito"

(Hobbes, Leviatano, XVII)

Url: http://online.scuola.zanichelli.it/lezionidifilosofia/files/2010/01/U4-L06_zanichelli_Hobbes.pdf)


(url: http://www.europinione.it/wp-content/uploads/2013/11/contratto-sociale-democrazia-hobbes-locke-rousseau-500x300.jpg)

lunedì 14 aprile 2014

Chi è libero, eguale e indipendente?





Qui l'articolo su Martha Nussbaum e la sua riflessione inerente al rapporto stretto tra la disabilità e la giustizia sociale. Spero possa piacervi.


martedì 4 marzo 2014

Nussbaum su disabilità e giustizia


Liberi, eguali e indipendenti?



(immagine tratta da: http://chronicle.com/img/photos/biz/2408-5702-nussbaum.jpg)


Le persone disabili costituiscono il più grande scandalo della ragione occidentale, quegli esempi negativi che la razionalità pura ed ideale non può riconoscere[00] e che preferisce, di gran lunga, nascondere, dunque, in luoghi separati, in “altrove”, in modo tale che siano lontani dagli occhi e da qualsiasi possibile cognizione.


I filosofi, in genere, non si occupano di disabilità, forse troppo umiliante per i propri voli della fantasia, forse troppo limitante per la profonda finitudine che connota le esistenze di coloro che incontrano ostacoli maggiori rispetto ad altri nello sviluppo della propria personalità.


In questo panorama fortemente desolante ed arido, riscontro solo una strana eccezione nella filosofa statunitense Martha C. Nussbaum la quale, al contrario, ha anche incentrato la sua ricerca proprio sulla condizione esistenziale delle persone disabili[01].


A mio modesto modo di vedere, il tema presente ha un'indubbia rilevanza teorica, anche come metro per valutare l'efficacia delle formule politiche che, in genere, i filosofi producono nel tentativo di interpretare, o di riformare, a seconda dei casi, l'ordine sociale.


Tuttavia, prima di entrare nello specifico del tema in questione, è bene spendere ancora alcune parole per chiarire alcuni presupposti davvero importanti sulla disabilità.


Le persone disabili certamente soffrono la presenza di ostacoli oggettivi di varia natura che interferiscono immediatamente con l'espletamento di funzioni personali al punto da rallentarne in maniera tanto vistosa e profonda l'effettuazione. Il mancato rispetto di uno standar da parte delle persone disabili spinge a non considerarle “normali”. Ovviamente, nel caso presente non ha proprio alcuna importanza parlare di “normalità” o di “ordine” o di “standard evolutivo”, l'importanza appare solo relativa. La presenza di un handicap, pertanto, nell'accezione inglese del termine, vale a dire di “peso aggiuntivo”, che in questo caso grava sulle spalle delle persone disabili, e che interferisce con le loro normali funzionalità, è la differenza che corre tra una persona normodotata, la quale può tranquillamente contare sulle proprie forze per superare i normali ostacoli della vita quotidiana, e una persona disabile, la quale non può contare sulle proprie forze per andare avanti nella propria vita personale e per sviluppare in maniera adeguata le proprie lecite aspettative esistenziali. L'interferenza della menomazione fisica con il pieno sviluppo personale incide o sull'autonomia personale o sulle capacità cognitive oppure sull'indipendenza nelle relazioni umane.



Detto questo, sia pure molto brevemente, emerge subito come alcuni aspetti, di per sé rilevanti, della condizione vissuta dalle persone disabili, pur nell'estrema generalità di quanto sto dicendo, siano, in primo luogo, l'estrema dipendenza cui vanno incontro le persone disabili e, in secondo luogo, la manifestazione radicale in esse dei limiti della nostra condizione umana, come la sofferenza, la mancanza di capacità, il bisogno, e così via. La relazione di cura, la quale, detto per inciso, sovente, e molto spesso, a dire il vero, caratterizza la condizione esistenziale delle persone disabili, è talmente importante da far dire alla Nussbaum come sarebbe bene riformulare tutte le nostre teorie della giustizia al fine di tenerne conto[1]. Questo perché le cure alle persone disabili, per la loro durata, coincidente in genere con quasi l'intera vita di queste ultime, e per la loro natura, sono molto onerose e tali da incidere in maniera formidabile sulle finanze della collettività. Il trattamento da riservare loro, pertanto, è così importante da influenzare la nostra stessa concezione della giustizia sociale, la nostra stessa idea di diritto. Infatti, hanno le persone disabili delle pretese, peraltro legittime, vista la loro condizione, da far valere nei confronti del resto della comunità oppure no? E se sì, non vanno soddisfatte, costi quel che costi? Forse ha ragione Dworkin quando asserisce che, in genere, ed intendo presso il centro occidentale della medesima teorizzazione politica, i diritti non vengono presi sul serio, e, aggiungo, sempre più considerati come privilegi che le finanze pubbliche non possono più concedere, come sprechi che la crisi attuale non può più tollerare. Ma questo accade perché l'intrinseca asimmetria dei rapporti di forza tra persone disabili e persone normodotate finisce con il realizzare il rischio, a suo modo paventato, nella sua prosa romanzata, da Pontiggia secondo il quale il rischio razzista, con riguardo al tema attuale, è sempre presente ed agente. Nel momento in cui si riconosce la diversità e da questa si prendono le mosse al fine di dedurre diritti differenti, ossia separati, vale a dire specificatamente in funzione dei differenti fruitori finali, ecco che ha luogo la discriminazione[2].


Quando accade ciò, la giustizia fallisce, ma, e prima ancora, fallisce l'intelligenza umana, quella stessa meravigliosa creazione di cui tanto si beano i filosofi, gli stessi che, in genere, preferiscono ignorare la disabilità tout – court.


Invece, la disabilità è una cosa concreta, è una declinazione, magari radicale, della medesima condizione umana e interpella direttamente tutte le nostre teorie politiche, ed economiche, mette in questione le nostre più profonde convinzioni, i nostri più radicali convincimenti personali. Solo riconoscendo nei soggetti disabili la medesima umanità, è possibile dare seguito ad una riconsiderazione generale in tema di diritti, giustizia e redistribuzione del reddito secondo il bisogno. In fondo, infatti, le persone disabili sono “persone”, non “qualcosa”[3], magari da rifiutare o misconoscere. Al di sotto del mero riconoscimento di un diritto, v'è un diritto ancor più fondamentale, ancora più radicale, ancora più “di principio”: il diritto di avere diritti[4], vale a dire la possibilità, anche per loro, di essere titolari di diritti, costi quel che costi. Altrimenti, finiamo con la finzione della giustizia o dei diritti soggettivi e continuiamo, ma stavolta alla luce del sole, a negare parità ed eguaglianza di diritti.


Secondo Nussbaum proprio il tema della disabilità, e della connessa giustizia dovuta alle persone disabili, dovrebbe spingerci, magari anche in maniera celere, a ri – pensare il nostro modello politico. Perché dovrebbe accadere questo? La risposta è tanto semplice quanto radicale: tutti i teorici del contratto sociale, e, quindi, di una certa modalità di pensare ai rapporti, in termini di costi e benefici, tra i singoli membri della società politica, hanno sempre caratterizzato il soggetto che entra in relazione, per il tramite del contratto sociale, come non – disabile. Anzi, i soggetti che successivamente costituirebbero la comunità politica sono concepiti come liberi, eguali ed indipendenti[5]. In questo modo, i teorici del contratto sociale negano cittadinanza a tutti coloro che, per vari motivi, o per diversi handicaps, non possono agire come fanno coloro i quali, al contrario, sono liberi, eguali ed indipendenti. Infatti, i contraenti del contratto sono gli stessi per i quali vengono redatti i principi della comunità politica[6]. Di conseguenza, se le persone disabili non possono entrare come pari rispetto agli altri contraenti, come uguali tra eguali, non possono far valere alcuna pretesa successivamente. La loro esclusione appare dunque tanto radicale quanto criticabile.


L'estromissione doppia, prima dall'elenco dei contraenti il patto, e dopo dai fruitori dello stesso, è il simbolo più vistoso dello stigma sociale con il quale, in genere, si occulta l'umanità[7]. Questo perché, in genere, la presenza di handicap così importanti spinge a considerare le persone che ne portano il segno quotidianamente come non – normali[8]. E questo è un problema “classico”, oserei dire, per la disabilità in generale[9].


Tuttavia, ciò non significa che si debbano lasciare le cose così come stanno.
Per la Nussbaum, questa stessa mancanza è indice del fallimento del modello stesso: i disabili esistono, non sono scherzi o bizzarrie singole della Natura.


Per affrontare, appunto, questo problema, rilevante per qualsiasi teoria politica che voglia farsi apprezzare come realmente valida, Nussbaum sottopone a critica l'intera tradizione liberale occidentale, e, in modo particolare, il modello contrattualista, dal periodo classico, con Locke e Hume, sino al neocontrattualismo, con Rawls sugli scudi.


Il discorso della filosofa è, nel contempo, pregevole, per l'impegno analitico profuso, e interessante, per gli esiti imprevisti cui mette capo. Per la Nussbaum, gli uomini stipulano tra loro un contratto, cioè «decidono di rinunciare all'uso privato della forza e alla possibilità di sottrarre i beni agli altri, in cambio di pace, sicurezza e con la prospettiva di un vantaggio reciproco»[10]. L'idea alla bade di qualsiasi formulazione di marca contrattualista è che una comunità politica si costituisca in un momento non storico, ma ideale, come il voluto superamento dello stato di natura e con lo scambio di pretese naturali con vantaggi sociali. In modo particolare, gli uomini accettano di rinunciare alla loro libertà di natura in nome di un vantaggio reciproco altrimenti non conseguibile. Per gli autori classici, dunque, vi sono dei beni indisponibili al consumo durante lo stato naturale, ed è in vista di quest'ultimo, possibile solo dopo il superamento dello stato di natura, che decidono di uscirne e di accedere ad altre forme di organizzazione sociale.


Quel che, però, tutte le concezioni contrattualiste fanno è giustificare teoricamente un modello di società politica fondata su un insieme di «principi politici fondamentali»[11], uno dei maggiori contributi della filosofia politica liberale[12]. Questa società politica mostra come tutti possono rinunciare al proprio potere «a favore del diritto e dell'autorità debitamente costituita»[13] a condizione di essere spogliati dei vantaggi artificiali che alcuni di essi hanno nelle società reali. In quest'ultimo caso, infatti, avviene che, tolte tutte le differenze di partenza, gli uomini non possono che accordarsi «su un certo tipo di contratto»[14]. Ne emerge, allora, che se il punto di partenza è equo, «i principi che ne emergeranno saranno anch'essi equi»[15].


La stessa idea procedurale di società politica, non per forza Stato, precisa Nozick[16], è presente in Rawls per il quale, avverte invece Nussbaum[17], il discorso è più complesso, sia con riferimento alle sue fonti sia con riguardo alla specifica modalità con cui discute alcuni punti specifici della propria teoria di società politica giusta. Il punto di partenza resta, però, lo stesso: come assicurare ai singoli tutti quei diritti che lo stato di natura non consente? Anche Nozick scorge il medesimo problema, commentando il discorso lockiano: «nello stato di natura una persona può essere priva del potere di far rispettare i propri diritti; può non essere capace di punire o farsi risarcire da un avversario più forte che li ha violati»[18].


Rispetto alla teoria ralwsiana, Nussbaum individua ben tre differenti problemi irrisolti, e punti critici per la stessa. Per gli scopi presenti, però, ci concentreremo solamente su uno di questi, quello relativo, per l'appunto, alla disabilità, e al ruolo che chi ne soffre assume nella società politica.


Nussbaum osserva come per tutti i teorici classici del modello contrattualista di società politica «i soggetti contraenti siano uomini approssimativamente eguali riguardo alle capacità e in grado di svolgere attività economica produttiva»[19]. Le persone disabili, chi in misura maggiore e chi in misura minore ma tale comunque dall'essere esclusi dall'insieme delle persone “produttive”, sono così estromesse dalla società politica. Le persone disabili, dunque, sono escluse dal gruppo «di coloro che scelgono i principi politici fondamentali»[20]. I teorici classici non contemplano la presenza, vale a dire il ruolo attivo, di persone disabili tra coloro che stabiliscono i principi morali di una società giusta. Semplicemente, i disabili non fanno parte della pars valentior, rappresentativa dell'intera specie umana, incaricata di elaborare i valori fondamentali di una società politica che possa fregiarsi della virtù morale. Il problema di tale esclusione è che se i disabili non sono inclusi nel gruppo di coloro che scelgono, essi «non sono inclusi […] nel gruppo di coloro per i quali i principi sono scelti»[21]. In maniera del tutto caratteristica, a mio avviso, accade una pericolosa transizione in virtù della quale essere inclusi nell'elenco di coloro che stabiliscono i principi fondamentali, che una futura società politica deve avere, significa anche essere tra i futuri fruitori degli stessi. Viceversa, non avere rappresentanza nell'insieme dei formulatori dei principi di base della futura società politica comporta, di conseguenza, non essere presi in considerazione in qualità di possibili fruitori dei principi politici fondamentali nella futura società politica. Il problema, nel caso delle persone affette da disabilità, è doppio: non far parte della pars valentior, che formula i principi insindacabili sui quali deve fondarsi la futura società politica, e non venir contemplati quali possibili beneficiari degli stessi principi politici fondamentali. Si potrebbe anche dire che si tratta di una medesima esclusione, la quale opera in due momenti differenti ma collegati: nel momento di codificazione dei principi basilari della società politica e in quello del godimento degli stessi.


Per Nussbaum il problema, in sede teorica, risiede in quella condizione iniziale che, in nessun caso, una persona disabile può rispettare: essere libera, eguale ed indipendente. I bisogni delle persone disabili sono così “speciali” da impedire che possano relazionarsi con loro simili come farebbe normalmente una qualsiasi persona bianca occidentale, tale cioè da conformarsi al modello “borghese” codificato durante l'Illuminismo. É questo il problema, è qui che si colloca la radice del “male” contrattualista: formulare un modello privatistico di fondazione dello Stato, presupponendo, a torto, che gli uomini siano tutti liberi, eguali ed indipendenti. Così non è e ne consegue che il modello del contratto, in virtù del quale dei privati in posizione paritetica contrattano tra di loro cosa cedere, in termini di libertà personale, e cosa ottenere, in termini di vantaggi sociali, è la sanzione formale che riconosce come valida, ed assicura anche in termini politici, la differenza sostanziale che sussiste nello stato di natura rispetto alla differente distribuzione della forza personale e delle capacità naturali di entrare in relazione con gli altri.


Se l'idea morale centrale nella tradizione contrattualista è il «mutuo vantaggio e reciprocità»[22], l'esclusione iniziale delle persone disabili comporta la loro esclusione futura dall'elenco delle persone che possono godere dei principi politici stessi. Infatti, non far parte dei contraenti originali del patto sociale significa che le persone disabili non hanno «eguale cittadinanza»[23] con gli altri.


Nella teoria politica di Rawls, che riprende ampliandola ed aggiornandola, sotto un certo punto di vista, la teoria classica del contratto sociale, la società politica viene intesa nei termini di un'impresa cooperativa per il mutuo vantaggio[24]. Di conseguenza, il problema diviene quello di spiegare come mai le parti decidano di abbandonare lo stato di natura per ottenere dei vantaggi reciproci derivanti dalla cooperazione sociale. Le parti, cioè, vanno alla ricerca di un vantaggio reciproco da conseguirsi per il tramite della cooperazione in società. L'idea di Rawls è che persone razionali siano in grado di compiere una scelta tra la cooperazione e la non cooperazione per il «vantaggio reciproco»[25], capaci di comprendere come la cooperazione sia sempre preferibile alla non cooperazione, e che, dunque, in ultima istanza, la società politica stessa sia di per sé preferibile, vale a dire più vantaggiosa, allo stato di natura. In altri termini, le parti non devono decidere se sia preferibile una società esistente, quella “naturale”, o una società futura, quella “politica”, ma solamente riconoscere la ragionevolezza di alcuni principi e l'assenza stessa di principi e scegliere i primi. É infatti razionalmente preferibile la cooperazione sociale, ossia la presenza di alcuni principi politici fondamentali, anziché vivere l'arbitrio dell'assenza totale di principi o del più forte, come si configura, in genere, lo stato di natura, non a caso considerato da Hobbes una condizione di perenne bellum ominium contra omnes.


Rispetto all'argomento presente, la teoria di Rawls, pur configurandosi come un progresso rispetto al modello classico di contrattualismo, non risolve il problema della giustizia sociale rispetto al trattamento da riservare alle persone disabili. Anche Rawls, infatti, considera i disabili dei soggetti marginali rispetto all'insieme complessivo dei soggetti politici e finisce con il posticipare ogni considerazione al riguardo in un imprecisato momento futuro.


Ciò spinge Nussbaum ad asserire come le «teorie contrattualiste devono fare affidamento su una qualche concezione di razionalità nel processo contrattuale e tutte assumono che i contraenti siano lo stesso gruppo sociale dei cittadini per i quali i principi sono stato redatti»[26]. La conseguenza è piana e lineare: «nessuna teoria di questo tipo può includere completamente persone con gravi menomazioni mentali come persone per le quali, in prima istanza, i principi sono stati progettati»[27].


Pur riconoscendo valore alle moderne teorie contrattualiste, con speciale riferimento alle loro concezioni di giustizia, Nussbaum sente di dover rilevare come non siano in grado di affrontare in maniera adeguata il problema della giustizia sociale che deriva dalla sostanziale esclusione delle persone disabili dal godimento dei principi politici fondamentali di una società[28].


Al prototipo di “personalità occidentale”, l'uomo borghese della tradizione illuministica, vale a dire il soggetto libero, eguale ed indipendente, che produce un elenco di principi politici fondamentali, Nussbaum sostituisce un elenco di capacità le quali vanno intese nei termini di «principi politici per una società liberale pluralista»[29]. Ella stabilisce una soglia minima di capacità e prevede per obiettivo della società «portare i cittadini al di sopra di questa soglia delle capacità»[30]. In altri termini, Nussbaum non concepisce un modello generale e comprensivo di giustizia sociale, ma solamente un correttivo funzionale che possa migliorare il grado complessivo attuale di giustizia[31]. Ella non dice nulla riguardo alla maniera concreta in virtù della quale la giustizia tratterebbe le ineguaglianze al di sotto della soglia minima, ma indica i livelli essenziali perché una vita umana possa considerarsi dignitosa. Pertanto, l'approccio alle capacità indica il «nucleo minimo di diritti sociali»[32] che viene garantito dal riconoscimento, e dalla conseguente promozione, delle capacità umane centrali. Nussbaum elenca le seguenti capacità:

  1. Vita;
  2. Salute;
  3. Integrità fisica;
  4. Immaginazione;
  5. Sentimenti;
  6. Ragion pratica;
  7. Appartenenza;
  8. Relazionarsi con altre specie;
  9. Gioco;
  10. Controllo del proprio ambiente.



L'idea di base di tale elenco è che una vita priva di una di queste capacità centrali non è una vita umanamente dignitosa. In altri termini, esso è un particolare approccio ai diritti umani[33]. Per il tramite di tale elenco, Nussbaum sposta il discorso sulla giustizia sociale dalle premesse all'esito finale del processo politico. Pertanto, la giustizia «sta nel risultato e la procedura è valida se sostiene tale esito»[34]. Di conseguenza, quel che importa ad una teoria della giustizia è la «qualità della vita delle persone»[35]. Allora, tutti i diritti dovrebbero essere garantiti alle persone «in quanto requisiti centrali di giustizia»[36].


L'approccio alle capacità non presuppone che le persone debbano essere libere, eguali ed indipendenti e, quindi, consente di «usare una concezione politica della persona che riflette più da vicino la vita reale»[37]. D'altro canto, infatti, lo stesso approccio parte da una concezione della persona come animale sociale la cui dignità non deriva da una razionalità idealizzata ed offre «una concezione più adeguata della piena ed eguale cittadinanza delle persone con menomazioni fisiche e mentali e di quella di coloro che si occupano di esse»[38].


Il difetto della teoria ralwsiana di giustizia è, in buona sostanza, far affidamento su una concezione presuntiva di normalità. Di conseguenza, Rawls non può spiegare perché a tutti coloro che si collocano al di sotto della mediana della normalità sia dovuta giustizia «piuttosto che carità»[39]. Ciò svela il vero carattere della finzione originaria del contratto sociale. Infatti, la cooperazione sociale promessa, e promossa, «è intimamente connessa all'idea che si debba restringere il gruppo iniziale dei contraenti a coloro che posseggono “normali” capacità produttive»[40]. Per poter includere le persone con disabilità entro il normale range di funzionamento della società politica, retta dal principio della cooperazione sociale per il mutuo vantaggio, Rawls dovrebbe riprogettare la razionalità delle parti al fine di includervi anche la cura degli interessi di terzi «e non solo dei propri»[41]. Per poter cooperare, le persone disabili «hanno bisogno di essere considerate come cittadini degni, cui siano riconosciuti i diritti di proprietà, all'impiego, e così via, e non come meri oggetti di proprietà»[42]. Il curioso paradosso delle teorie della giustizia sociale non fondate sull'approccio alle capacità è di considerare le persone disabili come dei mezzi, e non come dei fini, della medesima cooperazione sociale. Ovviamente, si tratta di “calare” la lista delle capacità umane centrali nella rete dei concreti bisogni delle singole persone con disabilità, ciascuna con i propri personali.



Nussbaum propone, dunque, di rendere più giusta la società politica modificando la prospettiva usuale, considerando le persone disabili dei soggetti politici di cooperazione sociale e non dei meri oggetti politici di cooperazione tra soggetti sociali. Infatti, lo scopo della cooperazione sociale «non è ottenere un vantaggio, bensì promuovere la dignità e il benessere di tutti i cittadini»[43].



Ora, se le condizioni di vita delle persone disabili, e di coloro che se ne prendono cura, sono oggettivamente più difficili delle altre, una «società decente organizzerà lo spazio pubblico, l'istruzione pubblica e altre rilevanti aree della politica pubblica per sostenere queste esigenze e per includerle completamente, dando a coloro che assistono tutte le capacità della nostra lista e dandone ai disabili il maggior numero possibile, nel modo più completo possibile»[44].



In conclusione, a parer mio, Nussbaum ridefinisce la nozione di giustizia cercando di farla aderire alle concrete condizioni di vita reale. In questo modo, il suo approccio fornisce «una parziale teoria della giustizia sociale di base»[45] e sostiene come «un mondo nel quale le persone hanno tutte le capacità della lista è un mondo giusto e decente, almeno ad un livello minimo»[46]. La teoria della giustizia sociale è, sotto ogni punto di vista, una particolare teoria del bene formulata nei termini di «diritti umani fondamentali»[47].




Note
[00] E tutto questo nonostante che la razionalità sia più una meta ideale, che non una condizione realisticamente realizzata. Secondo J. Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 85 e sgg. la razionalità umana è massimamente imperfetta e può essere perfetta solo in rarissimi casi “locali”.
[01] Anche se ciò va inteso come declinazione in concreto della teoria politica al fine di dare risposta a tre temi emergenti: 1) la disabilità; 2) il multiculturalismo; e, 3) la differenza di genere.
[1] Cfr. M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 28.
[2] Cfr. G. Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2012, p. 147.
[3] Cfr. R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma – Bari, 20134, p. 6.
[4] Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma – Bari, 2012, pp. 25 – 6.
[5] Cfr. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 104.
[6] Ivi, p. 84.
[7] Cfr. M. C. Nussbaum, Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 20132, p. 353.
[8] Ivi, p. 355.
[9] Cfr. G. Pontiggia, op. cit., pp. 42 – 3.
[10] Cfr. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere … op. cit., p. 30.
[11] Ibidem.
[12] Supra.
[13] Ibidem.
[14] Supra.
[15] Ivi, p. 31.
[16] Cfr. R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 45.
[17] Cfr. M. C. Nussbaum, Le frontiere … op. cit. p. 32 e sgg.
[18] Cfr. R. Nozick, op. cit., p. 35.
[19] Cfr. M. C. Nussbaum, Le frontiere … op. cit., p. 35.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p. 37.
[22] Ivi, p. 36.
[23] Ivi, p. 38.
[24] Ivi, p. 77.
[25] Ivi, p. 78.
[26] Ivi, p. 84.
[27] Ibidem.
[28] Ivi, p. 86.
[29] Ivi, p. 87.
[30] Ivi, p. 88.
[31] Ivi, p. 92.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p. 95.
[34] Ivi, p. 99.
[35] Ivi, p. 100.
[36] Ivi, p. 102.
[37] Ivi, p. 104.
[38] Ivi, p. 116.
[39] Ivi, p. 138.
[40] Ibidem.
[41] Ivi, p. 142.
[42] Ivi, p. 186.
[43] Ivi, p. 220.
[44] Ivi, pp. 241 – 242.
[45] Ivi, p. 294.
[46] Ibidem.
[47] Supra.




Bibliografia



J. Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità, Il Mulino, Bologna, 2005.
R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008.
M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 50.
M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007.
M. C. Nussbaum, Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 20132.
G. Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2012.
S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma – Bari, 2012.
R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma – Bari, 20134.







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