La “regolarità”
all’alba delle poleis
Una delle
principali fonti che è possibile consultare per farsi almeno un’idea di come le
società arcaiche si organizzassero in comunità è la descrizione che Omero compie
dello scudo di Achille nell’Iliade.
(immagine tratta da: G. Reale - D. Antiseri - M. Baldini, Antologia filosofica, La Scuola, Brescia, 1990, p. 6)
È stato certamente
argomento di studio da parte di molti autori, primi nel cogliere le profonde
suggestioni che la lettura omerica offre, e lo propongo adesso in questa sede,
anche come proseguimento di un discorso già avviato con il viaggio per Itaca.
Omero descrive
ai vv. 483 – 607 l’intera superficie esterna dello scudo che avrebbe dovuto
proteggere Achille dalle armi dei troiani nella sua vendetta per la precoce
dipartita del suo amico Patroclo[1]. Non a caso è Efesto a forgiare
l’armamento, su invito della madre del pelide, Teti. Eppure, sulla superficie
viene raffigurata l’intera cosmologia dell’epoca, dagli estremi confini del
mondo, lungo il limes Oceano, ai
contesti organizzati della vita associata.
Omero narra come
il fabbro divino organizzasse lo spazio sullo scudo in cinque parti, ornandoli
con i «suoi sapienti pensieri» (vv. 482), fissandovi sopra le costellazioni, il
sole, la luna, il cielo, la terra, il mare, proprio nella zona centrale. A seguire, a cerchio concentrico, vi pose
«due città mortali» (v. 490), l’una in pace, l’altra in guerra. La prima
descrive due istituzioni
caratteristiche di comunità organizzate ove la distinzione tra «pubblico» e
«privato», con le due corrispettive «giustizia», la giustizia distributiva e
la giustizia commutativa, ben equilibrate, è molto marcata, e rispettata. In
modo particolare, vi sono descritte le istituzioni del matrimonio e del processo.
La prima scena è quella del corteo nuziale mentre la seconda rappresenta una
lite tra due contendenti davanti ad una giuria di gherontes, di anziani seduti «su pietre lisce in sacro cerchio»[2].
All’organizzazione,
in apparenza armonica della città in pace, fa da contraltare il disordine della
città in guerra, con agguati, tranelli, insicurezza diffusa, confusione,
dilapidazione delle ricchezze della città, dove i morti «come fossero uomini
vivi si mescolavano e lottavano e trascinavano i morti nella strage reciproca»
(v. 539). La città in pace appare guidata dalla pacifica regolarità di norme
riconosciute e rispettate, le quali garantiscono ordine e risoluzione anche delle
relazioni umane non pacifiche, come nel caso specifico della lite davanti alla
corte descritta. La città in guerra, invece, appare priva della pacifica
regolarità di norme riconosciute e rispettate, le quali garantiscono ordine.
Anzi, l’ordine sereno delle norme civiche sembra revocato nella sua validità,
sospeso dall’eccezionalità della guerra, la quale rispetta magari ben altre
leggi, regole, norme.
I due cerchi
concentrici esterni, e seguenti, descrivono in qualche modo la regolarità dei
cicli naturali. Infatti, essi narrano il normale anno lavorativo umano, fatto
di aratura, mietitura e vendemmia. Se
l’uomo attraverso il proprio lavoro, le proprie fatiche, riesce a procacciarsi
di che vivere, è anche vero che così facendo seguita al corso della natura, alle stagioni metereologiche, alla
partecipazione, più o meno, diretta di Madre natura allo sviluppo delle
coltivazioni.
Alla stessa
maniera, la stessa Natura partecipa al ciclo successivo dell’allevamento
animale sui pascoli, ossia sui terreni liberi da coltivazioni mirate. L’aratura, mietitura e vendemmia
sono i tre momenti topici del corso naturale, secondo il prima e il dopo, con
la conseguente idea di ciclicità che nelle regolarità naturali è sempre
possibile scorgere. Allo stesso modo, la stessa ciclicità è presente anche nei
successivi tre momenti topici: mandria;
pascoli; danze. Di questi ultimi tre momenti, appare interessante l’accento
omerico alla ricchezza. Infatti, «le vacche erano d’oro e di stagno» (v. 574) e
i «pastori d’oro» (v. 577). Si riferisce soltanto alla natura della decorazione
sullo scudo oppure sottintende anche un rimando simbolico alla ricchezza di una
popolazione che da nomade diventa stanziale? Rispondere sarebbe interessante da
un punto di vista storico, tacendo di quello antropologico, ma tuttavia siamo
costretti a lasciare la domanda senza risposta dato che non possediamo
ulteriori elementi che ci consentano di trovare una risposta che possa dirsi
adeguata.
La scena della
danza, peraltro, che chiude l’ultimo cerchio interno prima dell’estremo limite
del fiume Oceano che perimetra l’universo umano, attesta ulteriori elementi,
come la gioia dei festeggianti, la presenza di materiali nobili, che risultano
di una certa rilevanza se si desidera porre mente allo sviluppo della civiltà
occidentale.
Dall’esame
completo dello scudo emerge come esistesse già una civiltà in possesso anche di
una profonda coscienza di sé, se è vero, com’è vero, che si rappresenta a sua
volta, sia pure come decorazione, un poco estrema, di uno scudo pronto per la
battaglia.
Questa stessa
civiltà, denota uno sviluppo completo di istituzioni che costruiscono una
realtà sociale ben precisa, ben tratteggiata, ben organizzata, sulla base dei
meri fatti bruti, come possono essere i materiali, il clima, le stagioni che
la natura, per quanto ciclica, e regolare, può offrire. Questo significa,
forse, che il grado di sviluppo conseguito è molto più avanzato di quanto
sembra in quanto appare completo il processo d’intenzionalità che dai «meri
fatti» conduce ai «fatti sociali»[3].
Pertanto, a
modello delle regolarità del ciclo naturale, l’alba della civiltà occidentale
può essere vista come l’organizzazione secondo regole armoniche della vita di
comunità.
Note
[1] Cfr. g. reale – d. antiseri – m. baldini, Antologia filosofica, La Scuola,
Brescia, 19946, p. 3 e sgg.
[2] Cfr. E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli,
Milano, 20117, p. 197 e sgg.
[3] Cfr. j. r. searle, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino, 2006, p. 36 e
sgg.
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