La “riscoperta”
dei fatti (per non parlare delle “cose”)
(immagine tratta da: http://www.libreriallarco.it/wp-content/uploads/2012/03/manifesto-del-nuovo-realismo.jpg)
Il presente post
è una versione provvisoria, ed incompleta, di un ragionamento molto più ampio
che da tempo sto sviluppando su(i limiti de)l postmoderno. E prende le movenze
dalla lettura occasionale del manifesto del “nuovo realismo” di Ferraris. Tuttavia,
essendo tale lettura non ancora conclusa, le conclusioni del presente post sono
da considerarsi provvisorie, anche se non mancheranno di risultare interessanti
a vari livelli. O almeno questa è la mia pia speranza.
La novità più
succulenta di questo 2012 è certamente la polemica tutta “ermeneutica” tra
vetero postmoderni, e debolisti di varia fattura, e neo postmoderni, più teneri
dei primi nei confronti della realtà.
Il caso più
eclatante di questo nuovo atteggiamento è costituito certamente da Maurizio
Ferraris il quale, postmodernista della prima ora in Italia, se non altro per
essere stato uno degli attori principali del volume collettaneo “Il pensiero
debole”[2], vero e proprio manifesto del debol pensiero, variante tutta
nostrana del postmoderno filosofico, ha ora abiurato a quella opzione teorica,
riabilitando, tanto de facto quanto de jure, la reality.
La sua
defezione, oltre a non essere passata (del tutto) inosservata, ha suscitato una
vivace polemica nei suoi ex correligionari i quali proprio non riescono a
comprenderne il voltafaccia (se così può dirsi) [3]. Diciamo che non hanno
mantenuto inalterato il loro atteggiamento compassato di ironico distacco e
disincanto. La ragione di ciò è, in fondo, semplice: non si tratta di
postmodernisti veri e propri, ma di italioti ingegni che quel verbum declinano con la specifica sensibilità
teoretica nazionale.
Senza entrare
nella polemica, dato che si tratta di orizzonti culturali a noi
fondamentalmente alieni, merita osservare alcuni punti interessanti.
Primo. La
polemica, e qui sta il dato saliente, non è “esterna” al dibattito postmoderno,
ma tutta interna. Così, appaiono rilevanti possibili critiche autonome al
fronte postmoderno, con tutto quello che una possibile, almeno nel “manifesto”
neorealista di Ferraris, riabilitazione dei fatti, delle cose, dell’intera
realtà, in sé stessa, comporta per un sapere che si professa decostruzionista,
ironico, perplesso, distaccato.
Secondo. Il
discorso di Ferraris appare coerente con un processo di maturazione del proprio
pensiero che scopre, o ri – scopre, come al di là di tutte le finzioni
costruttiviste, come oltre il disincanto rispetto al mondo, e alla cultura più
in generale, vi siano degli oggetti i quali restano intatti nella loro
autonomia da qualsiasi processo gnoseologico, falsificando così uno degli
assunti di base del postmoderno in forza del quale le cose non esistono “fuori”
di noi, indipendentemente da un processo conoscitivo volto verso di esse.
Questa è un’apertura verso il fuori, verso le cose stesse, per come esse sono
in sé, e non come sono per noi che le conosciamo, e che, proprio perché le
conosciamo, le “costruiamo” sulla base di schemi concettuali, di paradigmi, di
tradizioni culturali, di influenze psicologiche, etc. La presunta “attività”
speculativa, che mettiamo in atto ogniqualvolta conosciamo, non costruisce
affatto l’oggetto, che resta intatto nella sua - se ci si passa l’accento lévinasiano – ipseità, nella sua alterità rispetto
alla nozione che lo rappresenta intellettualmente. Diciamo, allora, che
costruiamo la sua rappresentazione,
non la cosa stessa, che resta integra
sullo sfondo del processo conoscitivo. Come a dire che, forse, si dovrebbe
tornare a Kant, ma non per rafforzare il suo fenomenismo, ma per renderlo più
obiettivo, ossia legato in misura maggiore alla “causa” della conoscenza (per
quanto inconoscibile nella sua ipseità).
Ma sappiamo bene come una tradizione culturale finisca spesso con il
sovvertire, edulcorare, tradire, un autore …
Terzo. Appaiono altamente
interessanti le fallacie di cui soffrirebbe il postmderno e che Ferraris
tematizza. Esse si collocano su tre livelli, diversi ma relati: (i) ontologico;
(ii) critico; e, (iii) illuministico. Con
i livelli (i) – (iii), ovviamente, Ferraris rinvia ad altrettanti tradizioni
speculative non a caso tirate in ballo nel momento in cui intende denunciare
tre fallacie del postmoderno. La fallacia che si colloca al livello (i) è la
fallacia dell’essere – sapere[4];
quella che si colloca al livello (ii) è la fallacia dell’accertare-accettare[5]; infine, la fallacia che si trova al livello
(iii) è quella del sapere-potere[6]. Procediamo
con ordine. Secondo Ferraris, il postmoderno sbaglia a livello ontologico in
quanto confonde «tra ontologia ed epistemologia»[7], equivocando «tra quello
che c’è e quello che sappiamo a proposito di quello che c’è»[8]. Conoscere un
oggetto non vuol dire porre l’oggetto stesso, ma l’esistenza stessa dell’oggetto
rende possibile la sua conoscenza. Certo, perché si abbia conoscenza è bene
disporre di linguaggi, di schemi e di categorie, ma l’oggetto stesso,
considerato in sé, non ha alcun bisogno di linguaggi, di schemi e di categorie
per esistere. Per così dire, l’oggetto “resiste” alla concettualizzazione che
ne compiamo ogniqualvolta conosciamo. Inoltre, l’accertamento dell’esistenza dello
stato di cose esistente non comporta affatto la sua accettazione, magari
edulcorandolo per renderlo più accettabile. Ancora una volta, la realtà
rivendica i suoi diritti, produrre irrealismo è da irresponsabili peché «all’irrealismo
è connaturata l’acquiescenza»[9] mentre solo il realismo consente una vera
critica, se è il caso, della realtà al fine di poterla trasformare (in senso
progressivo). Infine, abbiamo la terza
fallacia, quella che ha attecchito in misura maggiore sul finire del secolo
scorso (basti pensare allo slogan “pensare dopo i Maestri del sospetto!”): «in
ogni forma di sapere si nasconde un potere vissuto come negativo, sicché il
sapere, invece di legarsi prioritariamente alla emancipazione, si presenta come
strumento di asservimento»[10]. Questo atteggiamento, proprio del postmoderno,
che, a parole, afferma di richiamarsi all’Illuminismo, è, in realtà, un vero e
proprio anti-illuminismo, il «cuore di tenebra del moderno»[11].
La presenza di
anche solo una di tali fallacie renderebbe di per sé, quasi in automatico,
inconsistente l’intero movimento. Tuttavia, e parlo per esperienza personale, è
difficile far comprendere tali difetti metateorici ad un postmoderno, ad uno
che, per partito preso, ha preso congedo dai grandi racconti del moderno[12],
collocandosi così, storicamente quanto culturalmente, “dopo” la modernità
stessa. Inutile anche fare osservare come alla fin fine riducano ad unum le varie storie filosofiche della
modernità[13]: o non lo comprendono o non vogliono comprenderlo. Tanto, hanno
preso congedo (anche se non si capisce bene cosa abbiano davvero abbandonato)!
Ma le critiche
dall’esterno non hanno lo stesso valore di critiche dall’interno. Così,
assumono valore le parole di Ferraris.
Secondo l’autore,
vero e proprio proditor, alla fine, e
solo uno sciocco non se ne accorgerebbe, il postmoderno è finito in quanto,
avendo raggiunto i suoi obiettivi, è collassato su sé stesso, ovvero sui limiti
intrinseci del processo conoscitivo. Solo in questo modo si ricava uno spazio
concettuale nuovo per la realtà. Infatti, il “nuovo realismo” altro non è che
una prospettiva interna al postmoderno consistente nel “ricostruire” i fatti
dopo la loro “decostruzione”. Per questo motivo, Ferraris attacca i «tre punti
cruciali»[14] del postmoderno: (I) l’ironizzazione;
(II) la desublimazione; e, (III) la deoggettivazione. In genere, e ne ho
esperienza diretta, i postmoderni amano definirsi ironici, ed invitano gli
altri allo stesso atteggiamento. Cosa vuol dire, però, essere ironici? In genere,
ironizzare su tutto, su di sé, sugli altri, sulla conoscenza altrui, ed anche
sulla propria. Questo perché «prendere sul serio le teorie»[15] è indice di «una
forma di dogmatismo»[16]. Allora, è bene distaccarsi dalle opzioni teoriche,
senza prendersi troppo sul serio. Ecco perché altrettanto spesso i postmoderni
fanno tanto uso (abuso!) di virgolette, di citazioni, di inversioni delle
parole: se bisogna distaccarsi dalle teorie, è bene virgolettarle, anche per
rendere ben visibile il personale distacco. Facile prevedere, allora, come va a
finire: ironizzando, si finisce con il non prendere sul serio (quasi) nulla. La
desublimazione prende forma dall’atteggiamento
postmoderno di considerare la ragione e l’intelletto «forme di dominio»[17],
privilegiando così il desiderio e il corpo una sorta di via per la liberazione,
una riserva di emancipazione. Infine, non essendovi fatti (ma solo
interpretazioni[18]), «la solidarietà amichevole deve prevalere sull’oggettività
indifferente e violenta»[19].
In questa sede,
mi appare rilevante l’ultimo punto, la de
oggettivazione, anche per far luce sulle conseguenze proprie del
postmoderno. Infatti, essa consiste nell’idea secondo la quale la realtà, in
quanto oggettività, sia un male, da evitare anche a costo dell’ignoranza, per
contrasto valutata positivamente. Questa è una deriva da rigettare: la
conoscenza condurrebbe infatti all’ignoranza. Meglio ignoranti, che sapienti. Infatti,
la de oggettivazione delle cose, la
spoliazione del carattere reale della realtà, «si trasforma in una
delegittimazione del sapere umano»[20].
Secondo Ferraris,
l’azione congiunta, e combinata, di ironia, de sublimazione e de oggettivazione,
conduce al «realitysmo»[21], una prospettiva secondo la quale viene «revocata
qualsiasi autorità al reale, e al suo posto si imbandisce una quasi-realtà con
forti elementi favolistici»[22]. Forse questa è una semplificazione[23], ma ha
la sua ragion d’essere.
(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f2/Pier_Aldo_Rovatti.jpg)
Quindi, secondo
l’autore, il postmoderno è stato alfine irresponsabile e demagogo in quanto ha
reso favola il mondo vero e reso inabili a difendersi gli uomini.
È giunto,
dunque, il tempo di tornare alla realtà, ai fatti, alle cose, ricostruendo la
realtà nella sua oggettività[24].
Se così, però,
stanno le cose, mi si conceda di rilevare come quanto per Ferraris è un “nuovo
realismo” per me è un (semplice) realismo. Ma la ragione del neo in Ferraris è piana: recuperare un
orizzonte che la propria prospettiva aveva eclissato dietro le interpretazioni,
dietro le «favole».
A chi non ha mai
smesso di credere nell’esistenza di una realtà, magari anche radicalmente altra
dalla sua stessa conoscenza, Ferraris non toglie nulla, ma aggiunge sicuramente
consapevolezza nella fondatezza della propria posizione realista.
Note
[1] Cfr. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma – Bari, 20122,
p. x e sgg.
[2] Cfr. P. A. Rovatti - G. Vattimo (eds.), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano,
199515.
[3] Cfr. P. A. Rovatti, Inattualità del pensiero debole, Forum, Udine, 2011, p. 10 e sgg.
[4]. Cfr. M. Ferraris, op. cit., p. 29.
[5] Ivi, p. 30.
[6] Ivi, p. 31.
[7] Ivi, pp. 29 – 30.
[8] Ivi, p. 30.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. 31.
[11] Ibidem.
[12] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli,
Milano, 200516, p. 6.
[13] Cfr. P.
Rossi, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Il Mulino, Bologna,
1989, p. 16: «I postmoderni pensano l’intera storia
dell’Occidente […] come un tutto unitario. Hanno una spiccata preferenza per le
sistemazioni unilineari. Vedono il postmoderno come la negazione del moderno e
si appagano spesso di asserzioni definite solo per negazione […] Il postmoderno
[…] è davvero privo di un’idea centrale e si configura come un repêchage, un assemblaggio di parti che
furono di altre epoche».
[14]
Cfr. m. ferraris, op. cit., p. 7.
[15] Ibidem.
[16] Supra.
[17] Ibidem.
[18]
Verrebbe da chiedere se anche questo è un fatto. Ma, in genere, al riguardo
tutti i postmoderni che ho conosciuto mettono in funzione meccanismi di fuga –
evitamento. E d’altra parte, proprio perché non sono postmoderno par loro, come
biasimarli? Sarebbe come metterli allo specchio!
[19]
Cfr. m. ferraris, op. cit., p. 7.
[20] Ivi, p. 22.
[21] Ivi, p. 24.
[22] Ibidem.
[23]
Cfr. p. a. rovatti, Inattualità … op. cit., p. 9 e sgg.
[24] Cfr.
m. ferraris, op. cit., p. 78 e sgg.
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