Solitamente, si
è portati a credere che Alice nel paese
delle meraviglie, originariamente pubblicata nel 1865, sia un’opera per
bambini.
(immagine tratta
da: http://24.media.tumblr.com/tumblr_lygkapK9sj1r0wqq1o1_500.jpg)
Penso che tale
credenza sia errata. E questa mia opinione è facilmente dimostrabile facendo
osservare come, in genere, i più piccoli mal sopportino tutti i giochi
linguistici, gli specifici non – sensi, con i quali si diletta il suo autore,
Lewis Carroll, al secolo Charles Lutwidge Dodgson. E d’altra parte, non me la
sento proprio di biasimarli poiché l’ironia, il sarcasmo, la parodia esulano decisamente
dal loro “piccolo” (e piacevole) mondo. A differenza di noi “grandi”, semplicemente,
non avvertono l’esigenza di esperienze “altre”, di fenomeni, più o meno
marcati, di “estraneamento”, di rovesciamenti metaforici dell’ordine di questo
nostro mondo.
(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3FGuuVDBBz6l0VoK57ZXzXtI6-r9PYRo6spXciIicwYD3aUKLKXg5WVhCdPT7pxpG3ZrrzI8q3JVx6RSHas3YlAwZNfkT-6TN_h4Qv4UDJfhVnfzZbDaUOHcZjdQAdPu7ohSdC5E_Rnvn/s400/1book3.jpg)
Eppure, la prosa
risulta piacevole, quel mondo a dir poco meraviglioso che viene descritto,
abitato da conigli dagli occhi rosa, da cappellai, da bruchi e gatti ipnotici, da
bevande che invitano ad essere bevute e alimenti che invitano ad essere
mangiati, salvo produrre effetti a dir poco inusitati sul povero malcapitato, è
certamente fantastico ma il senso del “fantastico”, sempre così ben funzionante
nei piccini, non viene acceso in questo caso, salvo rare occasioni. Non che i
bambini siano privi del gusto per il fantastico, il meraviglioso, ma si tratta
di sensi diversi da quelli cui è possibile accedere per il tramite della
lettura carrolliana, di percezioni, di gusto, non adatti ai minori. A differenza,
forse, della fiaba propriamente detta nella quale si fondono “un aggregato di racconti,
di generi e di pratiche” (M. Rak, Logica
della fiaba. Fate, orchi, gioco, corte, fortuna, viaggio, capriccio,
metamorfosi, corpo, Mondadori, Milano, 2005, p. 28), e ove si “produce un’immagine
del tempo” (ivi, p. 29), “un’immagine
dello spazio” (ibidem), e al cui
interno ogni “lettore può vederci quello che vuole e avviarsi dal testo per uno
degli infiniti reticoli di racconti che il suo gruppo possiede e rende
praticabili” (ibidem), dove si “legge
soltanto quello che si conosce e si può conoscere” (supra).
Come mai? La
cosa è, a dir poco, strana, quando non anche “meravigliosa”, volendo seguire
qui il senso dello stupore imbracciato, e sostenuto, da Dodgson.
I bambini non
amano Alice, non amano i soldatini di carta, non amano i dialoghi bizzarri dei
protagonisti, quelle strane contese linguistiche in cui si districano i
bizzarri personaggi che affollano il mondo delle meraviglie, irritando quasi
Alice, una bambina fin troppo educata per abbassarsi a così scoperti mezzucci
linguistici.
Quel mondo pieno
zeppo, sino all’inverosimile, di meraviglie, di “trucchi”, di invenzioni
stilistiche, appare loro insolitamente piatto, molto poco divertente, a voler
prendere in considerazione davvero il testo di Carroll, con buona pace della
sua edulcorazione cinematografica ad opera del pur buon Walt.
(immagine tratta da: http://lafatadeiboschi.files.wordpress.com/2011/05/alice-nel-paese-delle-meraviglie.jpg)
Troppo piatto
per risultare vero, troppo bizzarro per risultare divertente. Eppure, è pur
sempre un testo per bambini, una serie mirabolante di avventure in sequenze,
per metà sogno e per metà visione, suggerito all’autore dalla piccola Alice
Liddell, entusiasta sostenitrice di quelle fantasie, probabilmente anche musa e
partecipante ai giochi comunicativi narrati sotto la forma delle metafore
narrative.
(immagine tratta
da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/4/44/Alice_Liddell_par_Charles_Dodgson.jpg/250px-Alice_Liddell_par_Charles_Dodgson.jpg)
E se le cose
stanno così per il primo romanzo della serie, figuriamoci per il secondo, il
seguito, non il ritorno: una serie nuova zecca di avventure che non hanno
inizio con la caduta in un fosso, portale tra dimensioni diverse, non solamente
esistenziali, ma anche semantiche, percettive, conoscitive. Stavolta, Alice
letteralmente passa attraverso uno specchio per vivere incontri con menti
straordinarie, quindi, in parola, fuori dagli schemi consueti, pedine in carne
ed ossa sulla scacchiera. Si tratta soltanto di una metafora bislacca della
vita? Personalmente non credo, anche perché le logiche della fantasia, e
dell’invenzione slegata dalla fisica del quotidiano, sono diverse da quelle che
reggono usualmente il mondo che
abitiamo. Al di là dello specchio,
seguito delle mirabolanti avventure nel cosiddetto Paese delle meraviglie, è, se si vuole, addirittura più profondo,
più meditato, più ponderato del primo, ed ancora meno adatto a giovani lettori.
In letteratura è
ben noto il fenomeno dei vari piani di lettura che si sovrappongo senza che un
determinato senso, situato ad uno specifico di quei livelli, venga stravolto.
Ebbene, Carroll adopera a piene mani le sue conoscenze di logica formale per delineare mondi paralleli, ma non per questo
meno vivi del nostro, meno reali di quello attuale, costruiti con solida
geometria. Infatti, i capitoli rispondono alla logica dell’intreccio narrativo
ma anche alle esigenze della genetica per piani, sino a che la costruzione del
solido non sia completata.
L’idea alla base
del seguito, che, avrete capito, solletica il mio interesse in misura maggiore
rispetto al primo, è che l’immagine riflessa allo specchio possa venir vissuta,
come se lo specchio altro non fosse che il crinale lungo il quale dimorano due
dimensioni parallele, ed adiacenti, l’una però priva di reali connessioni con
la seconda, e viceversa. Una volta attraversato tale sottile diaframma, però,
la realtà viene rovesciata, viene costellata, e tratteggiata, da sensi
differenti, da movimenti diversi, così estranei a quelli a noi noti. Il perché
è noto: nella sua stesura, Carroll ideò il mondo dello specchio come lo
spostamento di figure sullo spazio piano. Attraverso
lo specchio, così, segue il normale andamento delle pedine sulla
scacchiera, seguendo diagonali, rotazioni, avanzamenti e indietreggiamenti.
Eppur piano, non piatto.
La sua lettura,
in modo particolare del secondo, ma anche del primo, mi riporta alla mente un altro
racconto fantastico, a più dimensioni, anch’esso geometrico, anch’esso frutto
della logica formale, Flatlandia, un
universo a due dimensioni, ove misere figure geometriche vivono in un mondo
piatto e la cui relativamente tranquilla esistenza è sconcertata
dall’apparizione di una figura nuova, non più piana, ma solida, la sfera, proveniente da spacelandia, un mondo a tre dimensioni.
(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg4GddQqGnYUchhlky2zkYnyOM53ATtbLQy2vGP4EfxsDC2y1Eqjpqx4i2_FSKkQI4f-QKOl2GDfEVpU-znoL0rFTZh4_2SYH4u3QeyIDchErzacuFoS2Xyr79ojEYcd6opzRWMJVD82jg/s320/Flatlandia.jpeg)
Per la sua
propria natura, per metà scherzo e per metà discorso serio, desidero qui solo
discutere più puntualmente due singoli momenti del secondo libro di Carroll, il
primo ha, per ovvie ragioni, interessato, e non poco, i filosofi del
linguaggio, il secondo invece interessa il sottoscritto per un discorso in via
di sviluppo che riguarda la conoscenza della realtà e le narrazioni fantastiche. Peraltro, ciò
riguarda anche la crescita personale di ciascuno di noi dato che in genere la
fiaba attiva nei bambini un processo di sviluppo di competenze che lo conducono
fuori dai suoi ristretti orizzonti per abbracciare i rischi del mondo, le paure
della vita adulta (B. Bettelheim, Il
mondo fantastico. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe,
Feltrinelli, Milano, 200813, p. 188). E ciò agendo sul fantastico,
ossia “la proiezione sull’immaginario e sul corpo di quanto avviene
consuetamente nel processo culturale” (M. Rak, op. cit., p. 64), e al quale, pur nella loro misura, partecipano
anche i bambini.
(immagine tratta da: http://www.suoninmovimento.it/Portals/0/mondoincantato.jpg)
Come sappiamo,
ad un certo punto, Alice incontra Humpty Dumpty il quale, al termine di un
episodio senza capo né coda, in questi termini si rivolge alla povera bambina:
- Quando io adopero una parola […] significa
esattamente quel che ho scelto di fargli significare … né più né meno
- La questione è
[…] se lei può fare in modo che le
parole significhino le cose più disparate
- La questione è
[…] chi è il padrone … ecco tutto
(L. Carroll, Al di là dello specchio, Einaudi, Torino, 2003, p. 187)
Che dire? Cosa
aggiungere? Humpty Dumpty mette nero su bianco la reale natura di molte
conversazioni umane ove non vige l’assoluta parità tra gli interlocutori (si
pensi ad esempio al ruolo giocato da tale dissimmetria nella “chiacchiera”), ma
una disparità tra gli uni e gli altri, al punto da inverare, ossia rendere
vera, la discussione propria, senza alcun riguardo, a tal punto, per la verità
o falsità di quanto asserito. Invece, la povera Alice, povera bimba, rimane
legata ad una concezione, per così dire “infantile” di comunicazione secondo la
quale la parola significa solo una data cosa e solo quella, e secondo un nesso
necessario quanto ineludibile tra “nome” della cosa e “cosa” stessa, né può
servire tantomeno per polisensi disparati. Come a dire che Humpty Dumpty
utilizza un modello dinamico e strategico d’interazione umana, una nozione di “gioco
linguistico” per il quale non v’è distinzione alcuna tra regole e meta regole dello
stesso. Cosa che, ovviamente, Alice non può comprendere salvo rimettersi al suo
bislacco interlocutore riconoscendone la maggior forza fattuale.
(immagine tratta da: http://liviabidoli.myblog.it/media/00/00/b6754ae13ea371de35b3151eb26bf3f2.gif)
La seconda
citazione, anch’essa tratta dal seguito, riguarda il patto stipulato tra Alice
e l’unicorno.
- Ma lo sa che
anch’io ho sempre pensato che gli unicorni fossero mostri favolosi? Mai visto
uno vivo prima d’ora!
- Be’, ora che ci siamo visti l’un l‘altro, - disse l’Unicorno,
- se tu crederai a me, io crederò a te. Siamo d’accordo?
- Sì, se le fa
piacere, - disse Alice
(L. Carroll, Al di là dello specchio, Einaudi,
Torino, 2003, p. 199)
Tutti noi
sappiamo che gli Unicorni non esistono, e che, al massimo, si tratta do una
costruzione culturale all’interno del quale un’intera cultura ha messo dentro
il suo immaginario, le sue fantasticherie, e così via. Eppure Alice “vede” l’Unicorno
e quest’ultimo, con la massima naturalità, le parla anche, suggerendole di
stipulare un patto tra loro due che la bimba, da garbata com’è, accetta, anche
per fare un piacere all’Unicorno. Ebbene, è proprio la natura di tale accordo
che solletica la mia attenzione. Infatti, l’animale fantastico, o, per meglio
dire, leggendario, propone ad Alice, una volta che si sono visti entrambi, di
credere nella sua esistenza allo stesso modo di come anche lui crederà nell’esistenza
di Alice. Ebbene, qui non è in gioco la credenza nell’esistenza di esseri
mitici come gli unicorni quanto piuttosto la concezione in forza della quale l’immaginario
si regge sulla dissimmetria tra «chi» produce la fantasia e l’«oggetto» di tale
fantasia. Come a dire che la fantasia carrolliana funziona a due livelli,
distinti ma sovrapposti, il primo, e più elementare ove esistono sia Alice sia
l’Unicorno, ed un secondo, ove esiste anche Alice in quanto l’Unicorno crede
nella sua esistenza. Non più, dunque, solo l’esistenza di una fantasia, ma l’esistenza
anche della realtà stessa. È curioso, ma a tal proposito mi viene in mente la
fantasia ricorrente, sempre più in voga anche in Italia, dopo aver costellato
la subcultura americana, dell’interazione
con non – umani provenienti dallo spazio … esistono? Forse non importa stando a
leggere Carroll: esistiamo noi perché loro credono alla nostra esistenza, nella
(più o meno) stessa misura con la quale noi crediamo alla loro esistenza in
quanto anche loro credono nella nostra. Forse, è un gioco di riflessi
(deformanti) della nostra cultura, ma il patto tra l’Unicorno e Alice ricorda
molto da vicino le fantasie su presunti viaggiatori delle stelle (o forse siamo
proprio noi questi ultimi, anche se difficilmente riusciremo a muoverci in
largo negli spazi siderali).
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