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venerdì 31 maggio 2013

Inval ... sì!



Lo spauracchio degli ultimi anni per la scuola italiana non è più il taglio nei bilanci, cosa ormai accettata di buon grado, nonostante i suoi devastanti pesi e esistenziali, per chi vi lavora, e strutturali, per la qualità finale del servizio erogato, ma la cosiddetta valutazione (tutta italica) del sistema d'istruzione, e che passa attraverso i famigerati test Invalsi.

Non m'importa qui il merito della questione né tantomeno argomentare pro o contra gli stessi: m'interessa solamente aggiungere alla discussione una semplice indicazione, peraltro di assoluta banalità.

Leggo di passaggio in un recente testo di Viesti:


"Un insegnante di un liceo milanese frequentato dalla borghesia più agiata ha studenti che raggiungono risultati elevati, ma non è necessariamente più bravo di un insegnante che nell'hinterland napoletano lotta giorno dopo giorno per dare una formazione decente ai suoi ragazzi"[1]


E' una considerazione oserei dire ovvia dal momento che sussistono sul territorio delle differenze socioculturali difficilmente oscurabili. Una famiglia dove non circolano libri e dove il titolo di studio più elevato è la licenza elementare avrà figli che non potranno eccellere a scuola. E questo quasi indipendentemente dalla bravura o meno del personale scolastico.

Quando si avvia un processo di valutazione del sistema d'istruzione, bisognerebbe, per onestà intellettuale, tener conto anche di ciò, anche delle differenze socioculturali della rispettiva utenza, e non demandare il tutto a livelli (presunti) standard, peraltro molto elevati, valutati sulla base di griglie e crocette (sulle competenze di base in lettura, comprensione e calcolo).

Non è sbagliato valutare, è sbagliata, a mio sommesso parere, la modalità di valutazione, standard, e non flessibile nel caso specifico, così come è sbagliato l'uso retorico che pubblicamente si fa dei risultati.

Purtroppo, le precedenti rilevazioni sono state brandite per giustificare decisioni politiche peraltro già prese prima ancora di conoscere i dati statistici, al fine di dividere il Paese in zone non omogenee e per stilare vere e proprie graduatorie di merito tra gli operatori scolastici. In genere, al Nord i migliori, al Sud i peggiori.

Questo approccio è stato ideologico e poco produttivo in termini di resa statistica dei dati stessi.

Aggiunge ancora Viesti:

"Una valutazione si può fare in assoluto: dove funziona meglio che cosa. ma è assai più utile fatta in termini realtivi: dove funziona meglio che cosa, alla luce delle risorse utilizzate. Merito non significa che chi è più avanti è più bravo, se i punti di partenza non sono uguali. Il più bravo è chi, per dove opera e per le risorse che ha disposizione, raggiunge i risultati migliori"[2]

Invece, il ragionamento pubblico seguito è stato, grosso modo, il seguente: considerati i risultati conseguiti, è meglio non spendere altro denaro.

Il cane ha continuato a mordersi la coda: per migliorare le prestazioni, bisognerebbe spendere ancora di più, ma l'aleatorietà del rapporto costo - beneficio futuro sconsiglia l'investimento.


Pertanto, meglio confermare lo stereotipo del Nord civile, e virtuoso, e del Sud africano, e vizioso, che accettare di interpretare i nudi dati.

Ma questa, si sa, è politica, non statistica!


(immagine tratta da: http://www.roars.it/online/wp-content/uploads/2013/05/invalsi.jpg)


Note
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[1] Cfr. G. Viesti, “Il Sud vive sulle spalle dell'Italia che produce” (Falso!), Laterza, Roma – Bari, 2013, p. 59.
[2] Ivi, p. 58.

giovedì 30 maggio 2013

I Canto Inferno di Dante

Il Canto I dell'Inferno di Dante recita così:

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti:

A metà della nostra vita, mi ritrovai in un buio bosco perché avevo smarrito la dritta direzione di cammino


Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Ahi com’è difficile ripetere a parole quanto fosse selvaggio e duro e violento questo bosco, il solo ricordarlo rinnova la paura provata!

Tant'è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, dirò de l'altre cose ch'i' v' ho scorte. 

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Tanto amaro che la morte lo è solo di più; ma per parlare del bene che vi trovai, parlerò anche delle altre cose che vi vidi.

Io non so ben ridir com'i' v'intrai, tant'era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Non so ben dire come vi entrai, tanto ero confuso a quel punto che la via vera abbandonai.


Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto, là dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Una volta che giunsi ai piedi di un colle, là dove terminava quella valle che mi aveva riempito il cuore di paura

guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de' raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: guardai in alto e vidi dietro che luceva il pianeta che conduce diritto ognuno per il suo cammino. Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m'era durata la notte ch'i' passai con tanta pieta.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Allora si calmò un poco la paura che era durata a lungo in cuore in quella notte passata con tanta agitazione.

[…]

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, una lonza leggera e presta molto, che di pel macolato era coverta;

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: ed ecco, quasi al cominciar della salita, mi si parò davanti una un felino a pelo macchiato e molto veloce. e non mi si partia dinanzi al volto, anzi 'mpediva tanto il mio cammino, ch'i' fui per ritornar più volte vòlto

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: e non si toglieva dal mio volto, anzi m’impediva il cammino tant’è che fui più volte sul punto di tornare indietro. 

[…] 



l'ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse la vista che m'apparve d'un leone.


In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: le stagioni e il passar del tempo; ma non che non provassi paura alla vista d’un leone.

Questi parea che contra me venisse con la test'alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l'aere ne tremesse

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: questi sembrava che venisse contro di me a testa alta e con fame rabbiosa sì che sembrava quasi che l’aria stesse tremasse. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: E una lupa, che sembrava carica di tutti i desideri nella sua magrezza, e rende molti poveri. questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch'uscia di sua vista, ch'io perdei la speranza de l'altezza.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: questa mi dette tanta pesantezza con la sola vista da non riuscire più a salire.

[…]

Dante è risospinto in basso dalle tre fiere che gli sbarrano il passaggio.

Quando vidi costui nel gran diserto, «Miserere di me», gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Quando costui nel deserto, gli gridai «Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo!».

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Mi rispose: «Non sono uomo, lo fui in passato e i miei genitori furono lombardi, ambedue mantovani per nascita».

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Nacqui sotto Giulio, prima che morisse, e vissi a Roma sotto il buon Augusto al tempo degli dei falsi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise che venne di Troia, poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Fui poeta e cantai di quel giusto figlio di Anchise che venne in Italia da Troia dopo che la superba Troia venne distrutta.

Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Ma tu perché torni indietro? Perché non Sali il gioioso monte principio e causa di completa gioia?».

«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?», rispuos'io lui con vergognosa fronte.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: «Ora sei tu quel Virgilio?» risposi io con capo chinato. […] Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, tu se' solo colui da cu' io tolsi lo bello stilo che m' ha fatto onore.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Tu sei il mio maestro e il mio autore preferito, tu sei colui dal quale attinsi lo stile che mi rese famoso.

Vedi la bestia per cu' io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi»

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Vedi la bestia per colpa della quale mi volsi indietro; aiutami da lei, famoso saggio, perché mi fa tremare i nervi e i polsi.

«A te convien tenere altro vïaggio», rispuose, poi che lagrimar mi vide, «se vuo' campar d'esto loco selvaggio;

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: «A te conviene prendere un’altra strada», rispose, dopo che mi vide piangere, «se vuoi uscire vivo da questo luogo selvaggio; 

[…]


Ond'io per lo tuo me' penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida, e trarrotti di qui per loco etterno;

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Quindi, ritengo sia meglio che tu mi segui, io sarò la tua guida per questo luogo eterno.

ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, ch'a la seconda morte ciascun grida;

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: dove udrai le grida disperate, vedrai gli antichi spiriti sofferenti tanto da invocare ciascuno la seconda morte.

e vederai color che son contenti nel foco, perché speran di venire quando che sia a le beate genti.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: e vedrai color che sono contenti nel fuoco perché sperano di purificarsi al punto da ascendere tra le beate genti.

ché quello imperador che là sù regna, perch'i' fu' ribellante a la sua legge, non vuol che 'n sua città per me si vegna.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: perché quell’Imperatore che regna lassù non vuole che giungano nella Città eterna se furono ribelli alla Sua legge.

In tutte parti impera e quivi regge; quivi è la sua città e l'alto seggio: oh felice colui cu' ivi elegge!».

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: In tutti i luoghi regna e qui regge in prima persona; qui è la sua città e l’alto seggio: oh beato colui che vi designa.

E io a lui: «Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, acciò ch'io fugga questo male e peggio, 

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: E io a lui: «Poeta, io ti seguo per quel Dio che non conosceti affinché fugga questa sofferenza e la possibile dannazione futura.


che tu mi meni là dov'or dicesti, sì ch'io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mesti».

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: che tu mi conduca là dove ora dicesti, affinché io veda la porta di San Pietro e coloro che tu descrivi tanto mesti. Allor si mosse, e io li tenni dietro.

In italiano corrente, i versi diventano i seguenti: Allora si mosse e io lo seguii.



(immagine tratta da: http://www.vincastro.it/images/presentazione2.jpg)







Alessandro Pizzo

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mercoledì 29 maggio 2013

Vento tra le fronde ...



Cosa lascia questa stagione?
Cosa resta del suo passaggio?
Cosa non resta al suo passare?


Tre domande,
tre questioni,
tre indecisioni


L'anno finisce,
come cominciato,
ovvero mai iniziato.


E tu, che mi guardi e mi minacci,
cosa resta del tuo sorriso?
Cosa lascia quel tuo sorriso?
Cosa non dona quel tuo sorriso?



Imberbe, eppure truce,
ignaro, eppure in luce,
beffardo, eppure in trance.



Mi sorridi, arrogante,
forte di un tuo pensiero, ignorante
sicuro di una tua volontà, accecante.


Il vento soffia placido tra le fronde degli alberi,
la stagione termina placida tra i fiori,
le nuvole si rincorrono placide tra i mulini.



Cosa resta di questa stagione?
Cosa dona questa stagione?
Cosa muta con questa stagione?



La risposta la conosce il vento, agile
la risposta la credi tu, vile
la risposta la conosco io, facile.



Ma pena mi fai,
sventurato rampollo di un tempo che gli uomini rende lai,
della violenza del mondo mimesi,
parole senza sostanza, parole non fatti.



(immagine tratta da: http://disinformazia.ilcannocchiale.it/mediamanager/sys.user/170548/Lino-Banfi.jpg)




lunedì 27 maggio 2013

Fora di ball!




Viviamo in tempi di retoriche pubbliche decisamente divisive. Tra queste, a mio sommesso parere, bisogna distinguere tra quelle realmente tali e quelle opportunisticamente gettate nella mischia dell'agone pubblico.



Perché opportunistiche? Perché chi le pronuncia sa benissimo che sono false, ossia non descrivono puntualmente come stiano le cose nella realtà, ma tornano utili nel tentativo retorico di convincere molti, e, quindi, nella direzione di coagulare un consenso intersoggettivo attorno ad una tesi, per fallibile che sia.



In tempi di magra poi i qualunquisti di tale risma hanno buon gioco nel soffiare sul vento dei contrasti interni a proprio favore, per ottenere qualche vantaggio magari elettorale adoperando per l'appunto simili retoriche pubbliche.



In passato ne è stata campione la Lega Nord, ma la crisi economica non solo ha accresciuto la concorrenza in tal senso, non a caso premiata alle ultime consultazioni politiche, ma ha riabilitato vecchi slogan di tempi felici che furono.


Tra questi vi ritroviamo la seguente retorica che nella sua apparente monolitica fermezza appare, prima facie, una tesi vera:


"Non importa quanto si spende, se poco o molto. Il fatto è che le politiche di sviluppo, e in genere le politiche pubbliche, che si fanno al Sud sono soldi buttati. quel che si spende si spreca; è inutile, in molti casi addirittura dannoso. Il Sud è la terra dello spreco. Che questo finisca o si riduca non può essere che una buona notizia"[1]



Quante volte abbiamo sentito negli ultimi decenni questo stesso slogan sotto apparenze e movenze diverse? Il ritornello, però, è sempre lo stesso: non conviene investire al Sud, meglio farlo altrove! 


Questa è sicuramente una retorica divisa nel senso che mira a dividere creando un coagulo di consenso attorno ad una tesi che divide gli uni e gli altri, i buoni da una parte, i cattivi dall'altra, i virtuosi qui, i viziosi lì ....


Essendo una retorica pubblica, funziona esattamente come una mitologia politica: serve a dividere i più e a compattare i pochi. In un Paese che arranca, suona confortante[2], anche se falso.


Certo, pur essendo una mitologia ha "una parte di verità"[3]. Molto denaro è stato speso, ma i suoi risultati appaiono miseri. Ma attenzione alla distorsione percettiva: sussistendo comunque un divario di partenza, è ingenuo pensare che investire in aree depresse possa in pochi decenni servire a colmare la differenza (pensando magari anche nel frattempo che le aree non depresse del Paese restino ferme al livello attuale). 


Peraltro, se di spreco si tratta, non si deve mai dimenticare che quanto è vero al Sud è anche vero al Nord, con un'unica solitaria e sconfortante differenza: l'inefficienza della politica è maggiormente visibile ove si trovano le difficoltà e meno ove sono minori le difficoltà. Come a dire che non ha senso comparare lo sviluppo urbano di Alba, in provincia di Cuneo, con lo sviluppo urbano di Marsala, in provincia di Trapani. Spendere 100 a Marsala non sortisce gli stessi effetti che avrebbe spenderli invece ad Alba. Non solo la differenza iniziale non verrebbe nemmeno intaccata, ma alla lunga sorgerebbero lamentele sullo spreco di denaro, a causa proprio dell'inefficienza dell'intervento medesimo.



Ecco allora che si presenta la classica figura degli argomenti speciosi: il cane che si morde la coda. Bisognerebbe investire ma siccome qualunque cifra spesa non sortisce i risultati attesi, meglio non spenderli affatto!



Quando si parla, allora, di "territori" lo si faccia con meno ideologia. Infatti, se si pone mente alle differenze territoriali, significa solamente riempirsi la bocca in chiave elettorale mentre irrisolti i problemi insistono sul territorio. Aggiunge Viesti che "Nel Mezzogiorno queste difficoltà sono ancora più accentuate"[4].


Ma i tempi di realizzazione delle opere, a prescindere dalla località geografica "sono spesso simili"[5]. Il cane continua a mordersi la coda: persistiamo nel guardare con occhi distorti la medesima realtà.


Se poi si fa valere solamente il criterio ragionieristico della "convenienza", chi ci garantisce che sia produttivo investire là dove già c'è ricchezza? E perché sarebbero importanti solo le grandi opere, anziché le piccole? Il dubbio che l'autore insinua è rilevante: la cosa importante non è grande o piccolo, ma opere "che siano di qualità, rapide, integrate in programmi coerenti e con chiari benefici una volta che vengono utilizzate"[6].


Quando si cammina su un marciapiede di Marsala molto spesso sembra di essere in Africa ... ma questo dice forse qualcosa sullo spreco dei soldi versati al Sud in spregio del duro lavoro del (resto del) Paese che produce?


Sì, che la retorica in questione è una comoda e rassicurante falsità che non rende giustizia alla complessità, anche storica, di un territorio che ha le sue difficoltà ma che non è di per sé sinonimo di spreco e, di conseguenza, da abbandonare al suo destino segnato.


E quando dovessi sentire ancora simili retoriche, risponderò a tono, con un altro motto dei gestori della divisione: "Fora di ball!".





(immagine tratta da: http://img3.libreriauniversitaria.it/BIT/240/653/9788858106532.jpg)


Note
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[1] Cfr. G, Viesti, "Il Sud vive sulle spalle dell'Italia che produce" (Falso!), Laterza, Roma - Bari, 2013, p. 28.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 29.
[4] Ivi, p. 31.
[5] Ivi, p. 32.
[6] Ibidem.

Alessandro Pizzo

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venerdì 24 maggio 2013


Spunti di filosofia sociale

  1. Gustiamo la socialità.

Sarebbe bello poter conseguire almeno una volta la finalità massima della filosofia secondo Aristotele, ossia poter dire tutto quel che c'è che da dire intorno ad una cosa, un argomento di propria scelta. Purtroppo, siamo uomini e le cose non vanno così, in genere quasi mai, figuriamoci allora una volta che ci proponiamo un compito così impegnativo com'è quello di parlare della filosofia sociale.


Nel corso del presente contributo, pertanto, m'impegno a fornire un resoconto “umano” della filosofia sociale, nella piena, e, spero anche matura, consapevolezza che non è possibile fornire un resoconto completo, esaustivo e corretto della materia in questione. Siccome non mi è consentito, per miei limiti e per ovvie esigenze di spazio, condurre un discorso completo ed esaustivo delle molteplici possibilità in campo, fornirò solamente degli “assaggi” della filosofia sociale, ossia dei “carotaggi” nel suolo costituito da questa materia, vasta ma affascinante, e stimolante nelle sue mille sfaccettature.


Pertanto, lungi da me qualsiasi tentazione enciclopedica e/o esaustiva. Come moderne termiti, sonderò il terreno sul quale desidero muovermi qua e là e renderò conto di quel poco che è possibile dire sopra tali assaggi. 

Ma non intendo farlo alla maniera a me consueta, stavolta intendo muovermi lungo sentieri nuovi, secondo movenze a me non consuete. Pertanto, prendo le mosse dal riconoscimento dei limiti propri all'umano, tanto in estensione quanto in profondità. Non posso certo dilungarmi molto nell'analisi e nemmeno illudermi di poter affondare sensibilmente in profondità. Le mie parole sono limitate così come le mie visioni e interpretazioni. Riconoscere ciò non solo è saggio, ma rende anche onesto il lavoro che si cerca di compiere. D'altra parte, mi trovo nelle medesime condizioni della metafisica occidentale: costruisce una rete con la quale cerca di catturare la preda salvo accorgersi solo in un secondo tempo che, a dispetto delle sue intenzioni e speranze, la selvaggina è fuggita dalla rete[1]. 


Francamente, penso che molto spesso al contrario la selvaggina non ricada nemmeno entro lo spazio della rete stessa. Così, ci indaffariamo molto spesso a costruire categorie concettuali e strumenti euristici senza pensare anche solo per un attimo che magari queste nostre costruzioni falliscono allo scopo. 


Il discorso che condurrò pertanto in questa sede non può che riconoscere i propri limiti, come il frutto di un uomo fatto di carne ed ossa, fragile sin nel midollo eppure capace di pensieri mirabili. Costruiamo una disciplina con un nome altisonante, filosofia sociale, ma questa deve accettare la fallibilità umana, di pensiero, di concetto, di lessico, di utilizzo, e così via. Essere limitati vuol dire anche, e forse non solamente, mettercela tutta nel pensare ad una certa cosa, nel dire una certa cosa, nell'agire in un certo modo, nel fare le cose così e colà, ma accettare sin da principio la possibilità, sempre presente, di sbagliare, di fallire, di dover modificare successivamente previsioni, certezze, conoscenze, etc. 


La filosofia sociale è, così, solo una possibilità fallibile dell'umano, e il presente discorso su di essa un discorso ancor più limitato e provvisorio. Il postmoderno ci dice che ora nulla più è capace di muovere le coscienze in una direzione piuttosto che in un'altra, che abbiamo preso congedo, definitivo e provvisorio, croce e delizia dei paradossi propri dell'attuale condizione (post)moderna della cultura contemporanea[2], dalle grandi metanarrazioni del passato[3]. Non si tratta più, allora, di concepire l'impresa del filosofo come un processo di ascensione verso l'alto, la purezza e la globalità di quanto v'è da conoscere, per, infine, riempirsi di tale conoscenza[4], ma di rendersi conto di quanto sia influenzata, da motivi esterni, la nostra stessa conoscenza, e di come, anche, ogni nostra costruzione sia sempre “meticcia”, impura, complessa, mai del tutto esente da condizionamenti. 


Certo, non me la sento di condividere in pieno la prospettiva postmoderna, che certo ha i suoi indubbi meriti, e talvolta anche pregi, ma ritengo che ciò possa essere di una certa rilevanza soprattutto in questa sede, dal momento che abbiamo a che fare con una disciplina dallo statuto certamente originale, molto di confine, che opera sul filo del rasoio, come peraltro sarà più chiaro in seguito, tra discorsi “altri”, tra razionalità differenti, tra tipi di discorsi, e giustificazioni, del tutto eterogenei gli uni agli altri. 



Se così stanno le cose, ha più senso proporsi l'ideale della scienza rigorosa? Ritengo di sì perché qui non si sta negando valore alle costruzioni razionali, ma si sta richiedendo onestà intellettuale nel nostro “sporcarci le mani” in prima persona. Per Husserl ancora la filosofia è ricerca rigorosa che soddisfi le più alte esigenze teoretiche[5], per noi le cose sono pure così ma tengono conto di una complessità sconosciuta agli inizi del XX secolo. Tant'è vero che la massima manifestazione di questa matura consapevolezza è proprio la produzione di opzioni teoriche paradossali, come, ad esempio, quella postmoderna la quale pone in essere un contenuto in diretta contraddizione con la forma del dire filosofico, del discorso filosofico[6]. Riconosciuti i limiti della conoscenza umana, non resta che accedere agli ultimi sbocchi possibili del processo meglio noto come secolarizzazione, ovvero immanentizzare il discorso filosofico stesso[7]. 


Per me, però, immanentizzare non vuol dire ridurre forma e contenuto del discorso filosofico, ma solo concedermi un freno epistemico: ridurre pretese e complessità d'analisi a tutto vantaggio, spero, dell'efficacia comunicativa. D'altra parte, se mettessi capo ad un assaggio di filosofia sociale privo di efficacia espressiva, c'è forse qualcuno che vorrebbe premiarmi?



Per questo motivo, e non solo però, il presente contributo assume una veste agile e sovente limitata: passerò velocemente da una definizione incompleta, e, quindi, “minima”, della materia in oggetto, al tipo di discorso suo proprio e ai suoi oggetti. Infine, un po' di tempo verrà dedicato alla mera indicazione, certo non esaustiva, delle discipline “altre” che la filosofia sociale certamente interseca nelle sue analisi.



(immagine tratta da: http://www1.lexmark.com/it_IT/about-us/corporate-social-responsibility/csr.jpg)


  1. Definizione minima.

La filosofia sociale è, innanzitutto e per lo più, una considerazione filosofica della socialità umana. Detto in questi termini, la disciplina in questione si occupa di una tema singolo, per quanto complesso al suo interno, la socialità, da intendersi in senso generale e vasto: dalle motivazioni che spingono un attore sociale a compiere, o meno, una determinata azione all'analisi degli effetti delle azioni umane su altri attori sociali, e così via. 


La nozione chiave è qui quella di 'socialità': l'insieme plurale che possiamo listare, senza pretesa di priorità e/o di rilevanza, come 1) intenzioni; 2) azioni; 3) risultato di intenzioni e azioni.



In questo modo, appare chiaro come la filosofia sociale si occupi sì del sociale, ma secondo un'ottica sua peculiare, ovvero del tipo di relazione tra (due o più) attori sociali intorno ad alcuni elementi importanti per ques'ultima (anche in questo caso, si tratta di un elenco senza ordine d'importanza): a) moventi; b) desideri; c) volontà; d) comportamento; e) contesto;f) influenze.

Su cosa sia un 'attore sociale' penso, sperando nel contempo di non sbagliarmi, dovrebbe essere chiaro ai più: l'essere umano preso nella sua singolarità nel momento in cui è calato, suo malgrado all'interno di una rete sociale di relazione (venendo ad essere chiamato anche a mettere in campo un comportamento sociale così e così in relazione a quello di altri come lui). Detto altrimenti, l'attore sociale è l'agente umano che mette in scena un comportamento socialmente riconoscibile come tale. Non tragga in inganno la finzione sociologica: l'essere umano è uno tramite di relazione con i suoi simili, in vista del quale legame opera in un certo modo (anziché in un altro). Come sosteneva Heidegger, pur nella sua fenomenologia astratta, la quale, appunto, si arresta sulla soglia della forma pura, senza cioè riuscire a scavare un po' più in profondità, l'esistenza è un esistere-con-altri[8]. 


La natura umana è, pertanto, eminentemente, relazionale: ha bisogno di riconoscersi negli altri e di comunicare con i propri simili. Nel racconto biblico, ad esempio, Dio crea Adamo e gli mette ai piedi un Regno, ma l'uomo si sente solo, ha bisogno di un suo simile, di un compagno, non per forza un "doppio", ma un altro che gli somigli[9]. Ma nell'entrare in relazione con altri, l'attore sociale compie delle azioni le quali sono collegate a moventi e desideri (desideri e attese in vista dei quali l'attore sociale compie scelte e azioni), volontà (la forza con la quale l'attore sociale opera per conseguire moventi e desideri prescelti), contesto (la rete sociale al cui interno muoversi, come orizzonte di senso e come limite alla propria libertà d'azione) e influenze (pur essendo in linea di principio libero, l'attore sociale sconta, data la sua natura relazionale, un influenzamento, tanto in termini cognitivi quanto in termini pratici).

L'interazione tra i moventi (che determinano la volontà), i desideri (che orientano le scelte), la volontà (il suo esercizio), il contesto (entro il quale agire) e le influenze (biologiche, culturali e contingenti) costituiscono globalmente il comportamento che la filosofia sociale desidera intenzionare.


La socialità, pertanto, come si vede, è molto vasta e presenta indifferenti sfaccettature sulle quali, di volta in volta, può cadere l'accento del ricercatore, così come, nel presente caso, del pensatore. 



Resta comunque il fatto che per darsi socialità vera e propria che il discorso non venga limitato al singolo attore sociale, ma che venga sempre presa in considerazione il risultato dinamico dell'interazione tra (almeno) due attori sociali (o più).

3. Argomenti.

Siccome la filosofia sociale, almeno per come la intendo in questa sede, è un discorso, suo malgrado, limitato su opzioni fallibili, dal momento che prende in considerazione il comportamento sociale di attori, ossia di persone in carne ed ossa le quali, e non solo per definizione, sono esseri connotati dalla finitudine, possiamo indicare grosso modo alcuni dei suoi argomenti, non so se principali o solo parziali e che elenco nella maniera seguente, senza allegare a tale elenco chissà quale opzione di rilevanza: 1) le istituzioni; 2) le norme; 3) l'azione; 4) i diritti; 5) la libertà.

La storia della filosofia ha mostrato nei secoli come il discorso possa essere condotto su ciascuno di questi temi. Ebbene, se ci limitassimo a seguirla mimeticamente, quale sarebbe lo specifico della disciplina in questione? Ne verrebbe fuori una materia affatto originale, priva, cioé, di un suo specifico. Allora, la filosofia sociale si occupa sì degli argomenti suindicati, ma lo fa in una sua maniera del tutto specifica.

Le istituzioni sono quelle azioni sociali, formali e informali, che vengono mandate ad effetto sulla base di regole condivise. Detto altrimenti, quando gli attori sociali operano secondo regole condivise e realizzano così delle pratiche sociali tra loro omogenee nel tempo si parla di istituzioni. Possiamo elencarne, a mo' di esempio, alcune: a) i contratti; b) i giochi; c) la famiglia; d) il lavoro; e così via.

Le norme sono quelle azioni sociali ordinate da norme, siano esse formali o meno. Detto altrimenti, quando gli attori sociali operano secondo regole condivise le quali vengono imposte coercitivamente e realizzano così delle pratiche socialie tra loro omogenee nel tempo si parla, riguardo a tali regole, di norme. Possiamo  elencarne, a mo' di esempio, alcune le quali operano a livelli diversi, tra loro in funzione gerarchica: a) norme consuetudinarie; b) norme morali; c) norme sociali; d) norme giuridiche; e così via. 


Non è un elenco esaustivo, ma rende bene l'idea di cosa siano le norme e quali ambiti regolino.

L'azione è lo specifico tipo di comportamento attivato dagli attori sociali. Penso si possa distinguere in merito, ancora senza nessuna pretesa di completezza e/o di infallibilità, tra: a) azioni; b) commissioni; c) omissioni. La differenza tra le prime, le seconde e le terze consiste nel rispettivo differente grado di decisione da parte degli agenti sociali: 1) iniziativa casuale del singolo attore sociale (che compie una generica azione sociale); 2) iniziativa voluta del singolo attore sociale (nel mandare ad effetto una determinata azione sociale); e, 3) iniziativa voluta del singolo attore sociale (nell'astenersi dal compiere una determinata azione).

I diritti sono delle pretese soggettive riconosciute, e promosse come tali, dall'insieme sociale. Detto altrimenti, la situazione sociale di tutti gli attori umani è differente: ad alcuni, rispetto ad altri, sono riconosciute e favorite delle posizioni di vantaggio. In questo caso, è l'organismo sociale che accorda a sue parti dei vantaggi mentre li nega ad altri. Nella comune teoria politica o anche giuridica, questo fatto viene legato all'equilibrio dinamico tra diritti e diritto: se aumentano i primi, diminuisce il secondo (e viceversa). Oppure, all'equilibrio dinamico tra la giustizia da una parte e l'arbitrio dall'altra: all'accrescere dell'una, diminuisce l'altro (o viceversa).

La libertà attiene all'iniziativa spontanea degli attori sociali e la filosofia sociale se ne occupa nella misura in cui intende compiere una ricognizione, pur limitata e fallibile, intorno ai limiti di tale libera iniziativa. Di conseguenza, la filosofia sociale prende in considerazione, ancora senza significati particolari da annettere a seguente elenco: a) interazione (tra attori sociali: quale limite all'azione singola); b) comunicazione (tra attori sociali: quale orizzonte condiviso nella scambio simbolico tra più attori sociali); c) azioni congiunte (tra attori sociali: come la libertà singola si coniughi con quella altrui); d) azioni cooperative (tra attori sociali: come la libertà singola cooperi con quella di altri); e) azioni opposte (di attori sociali: come le singole libertà vengano limitate dall'opposizione indiretta di altre loro pari); f) azioni confliggenti (di attori sociali: come le singole libertà si annullino nell'opposizione diretta di altre libertà loro pari ma si segno contrario); g) limiti all'azione (di attori sociali: come il grado complessivo di libertà per i membri di una data collettività sociale dipenda da fattori interni ed esterni).



Questi argomenti rendono conto, sia pure parzialmente, della stratificazione sociale, ossia della costruzione per livelli diversi, e differenti, ma tra loro relati, dell'insieme sociale. Ciascun livello inferiore è a sua volta funzione del livello superiore. Ragion per cui, cominciando dal più elementare, possiamo osservare, sia pure situazionalmente all'epoca coeva, la seguente strutturazione sociale: 1) individui; 2) gruppi; 3) classi; 4) società; 5) comunità; 6) stati; 7) relazioni internazionali.

La nota principale che, a mio sommesso parere, possiamo osservare nella condizione storica attuale, è l'elevata complessità raggiunta e progressivamente crescente la quale ri - definisce, entro certi limiti, la partecipazione del singolo attore sociale alla vita pratica di tali livelli. La cosiddetta globalizzazione enfatizza questo processo il quale non fa altro che aumentare la conflittualità interna al singolo livello al punto da paralizzare la stessa cooperazione tra attori sociali[10]. La partecipazione alla vita del proprio livello sociale viene messa in crisi dai processi economici i quali rivelano la reale natura dei rapporti politici coperti dalla finzione dell'elargizione moderna dei diritti[11]. E tuttavia non v'è alternativa alla dialettica dinamica tra i diritti (dei soggetti) e le differenze (tra i soggetti) all'interno di uno stesso livello sociale (per tacere, per esigenze di spazio, di quella tra livelli differenti).


La disamina dei differenti livelli entro i quali si esplica il comportamento degli attori sociali descrive l'ambito proprio della filosofia sociale: l'analisi dei molteplici aspetti della socialità. Quest'ultima, infatti, delinea, abbastanza bene ritengo, l'insieme di aspetti che costituiscono le relazioni tra gli attori sociali: 1) l'indifferenza; 2) l'interazione; 3) la comunicazione; 4) la cooperazione; 5) l'ostilità. Tralascio gli aspetti (1), (2) e (5) e spendo alcune parole sul (3) e sul (4). La comunicazione è, secondo me, la cartina di tornasole del comportamento sociale degli esseri umani. Infatti, è nello scambio verbale e non verbale tra due o più attori sociali che si può scorgere l'azione di quello scambio simbolico che è il lasciarsi attraversare dalla parola altra ed accettare di venire a patti con l'altro. Non è esattamente una forma di influenza esterna, che pure è presente, ma del medium in forza del quale un attore sociale agisce congiuntamente con un altro suo pari. 


Detto altrimenti, entrare in comunicazione è il prodromo dell'azione sociale vera e propria, prima ancora che l'azione sociale stessa possa essere cooperativa o oppositiva.


Ma veniamo adesso alla cooperazione. Tempo fa scrissi una cosetta sulla cooperazione: là la intendevo come "sottomissione" di interessi e volontà del singolo alla "reciprocità" del singolo tra altri singoli suoi pari[12]. Sostanzialmente, penso ancora che le cose siano così, ma la mia prospettiva di allora, magari ancora ingenua, è oggi più problematica: sino a che punto il singolo attore sociale accetta consapevolmente e volontariamente a limitare la propria libertà personale in favore di una reciprocità sociale? La storia italiana di questi ultimi anni, infatti, ha fatto vacillare la mia fiducia nella capacità umana di scorgere il "bene comune" dal momento che l'iniziativa libera dei singoli è stata in vario modo soggetta al potere di parti della società, ossia di caste e lobbies le quali non hanno affatto a cuore il bene di tutti, ma solo il proprio personale tornaconto. 


Ma il problema non è neppure questo, quanto piuttosto cercare di capire come mai comunque in singoli abbiano accettato di cooperare al progetto di benessere di questi gruppi sociali, dimenticando magari che ben altro doveva essere il loro! 



La cooperazione, per dirla altrimenti, quando funziona è una gran bella cosa, ma quando non funziona genera "mostri" sociali: un'azione collettiva, congiunta e collaborativa per favorire il vantaggio di pochi ...


4. Uno sguardo da nessun luogo. Il filo di rasoio della filosofia sociale.

Necessariamente plurale, ed interdisciplinare, e non solo per via dei suoi argomenti, la filosofia sociale interseca sul proprio cammino tante discipline, umane e naturali, filosofiche e non, senza comunque risolversi mai in una sola di queste stesse. Come a dire che si fa filosofia sociale solo accettando la diversità scientifica delle altre discipline e consentendo che il discorso sia impuro, sia contaminato da saperi altri, da conoscenze eterogenee[13].

Non esistono frutti puri, così come, molto probabilmente, neppure teorie incontaminate, ma (quasi) sempre teorie ibride. La filosofia sociale è una di queste teorie, batte diversi sentieri per condurre un suo discorso originale intorno a determinati argomenti.

Anche qui senza alcuna pretesa di completezza e/o infallibilità, ritengo che le discipline intersecate lungo il proprio cammino da parte della filosofia sociale siano: 1) la teoria delle istituzioni; 2) la logica delle azioni; 3) la teoria delle decisioni; 4) la filosofia delle norme; 5) i modelli psicosociologici di spiegazione del comportamento sociale; 6) la filosofia della politica e del diritto; 7) l'etica filosofica.

In breve, la filosofia sociale nel suo interessarsi alla dinamica sociale delle azioni dei singoli attori umani, deve per forza di cose lasciarsi guidare nell'esplorazione delle istituzioni umane, nella spiegazione logica, piscologica e sociale delle azioni umane, nell'esame dell'equilibrio tra partecipazione politica, giuridica ed etica alla cittadinanza umana.

Se così stanno le cose, dove è collocato lo sguardo della filosofia sociale? Molto probabilmente da nessuna parte dal momento che essa è certamente una disciplina ibrida, originale, sempre sul filo del rasoio o, meglio, operante nella terra di nessuno dei rispettivi confini tra differenti prospettive scientifiche intorno all'umano.

5. Glossa finale.

Mi si conceda ancora del tempo, poco in verità.

Che tipo di discorso conduce allora la filosofia sociale? Possiamo trarre fuori dal discorso disorganizzato e poco omogeneo sin qui condotto, le seguenti possibilità, distinte ma tra loro non irrelate: a) un discorso interdisciplinare (perché taglia longitudinalmente qualsiasi steccato tra discipline); b) un discorso "aperto" (perché mai concluso davvero e sempre pronto a modifiche e revisioni nel dinamico confronto con la realtà); c) un discorso flessibile (perché accetta di piegarsi a novità e modifiche); d) un discorso fallibile (perché riconosce di poter sbagliare data la sua natura concettuale di per sé eterogenea rispetto al fluire liquido della socialità umana); e) un discorso limitato (perché a causa della propria natura concettuale non può dire "tutto" intorno alla socialità umana).


Ma quel poco che riesce a cogliere è di estrema importanza se si desidera comprendere come si compiano o non si compiano azioni in questo mare magno della vita associata.




(immagine tratta da: http://marianna06.typepad.com/.a/6a00e54f0b19908834017ee3b6ef7a970d-800wi)


Note
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[1] Cfr. S. Natoli, Soggetto e fondamento. Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 56.
[2] Cfr. J. F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 24: «Un artista, uno scrittore postmoderno è nella situazione di un filosofo: il testo che egli scrive, l’opera che porta a compimento non sono in linea di massima retti da regole prestabilite e non possono esser giudicati attraverso un giudizio determinante, attraverso l’applicazione di categorie comuni […] Deve essere chiaro infine che il nostro compito non è quello di fornire realtà, ma di inventare allusioni al concepibile che non può essere presentato». Ma l'alludere, specie se si è nella condizione di piena consapevolezza dei propri limiti, espressivi e conoscitivi, non può che divenire un curioso 'balbettare', dagli ancor più buffi effetti paradossali.
[3] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 200516, p. 6.
[4] Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 20073, p. 116.
[5] Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma – Bari, 1994, p. 3.
[6] Cfr. L. V. Tarca, Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova, 19932, p. 237.
[7] Cfr. G. Vattimo, Perché «debole», in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, p. 187.
[8] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2000, p. .
[9] Gn II, 18 e sgg.[10] Cfr. M. L. Salvadori, Il Novecento. Un'introduzione, Laterza, Roma – Bari, 2004, p. 170.
[11] Cfr. M. L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma – Bari, 2011, p. 51.
[12] Cfr. A. Pizzo, Il diritto tra cultura e azione umana. Frammenti di antropologia del diritto, "Diritto & Diritti", ISSN 1127-8579, p. 2 (contenuto on - line: http://www.diritto.it/docs/21793-il-diritto-tra-cultura-e-azione-umana-frammenti-di-antropologia-del-diritto).
[13] Cfr. J. Feinberg, Filosofia sociale, Il Saggiatore, Milano, 1996, p. 9 e sgg.