Il narratore biblico
narra l'episodio della Torre di Babele nel libro del Genesi (XI, 1 –
9) e nella vulgata popolare è
passato il messaggio secondo il quale Dio avrebbe punito gli uomini,
rei di aver voluto salire in cielo sino a Dio stesso, con la
dispersione delle lingue. Da qui in poi il termine babele
avrebbe significato, per l'appunto, la pluralità di lingue, culture,
idiomi, abitudini, costumi, e così via.
Io
non sono esattamente un teologo e poco so di linguaggio biblico, però
mi pare come non sia affatto veritiera questa interpretazione,
diciamo così pop.
Infatti, non emerge in modo chiaro quale sia la vera colpa degli
uomini. E, d'altro canto, è invece chiaro che la dispersione,
che il narratore indica come punizione divina, non è per nulla la
sanzione negativa alle colpe umane nel caso in esame. Infatti, la
lista di discendenti di Noé (Gn X, 1 - 31), che precede il racconto
della torre di Babele, mostra chiaramente come i popoli fossero già
dispersi sulla terra, e come gli uomini parlassero già più lingue
ed usassero già più costumi. Questa semplice constatazione viene
confermata dalla successiva lista di discendenze che segue il
racconto in questione (Gn XI, 10 e sgg.).
Allora
è lecito porsi la domanda: qual'era la colpa dei costruttori della
Torre di Babele? É, infatti, scontato come il presentarsi di una
punizione, da parte di Dio, sia conseguente ad una colpa in
precedenza commessa. Se, pertanto, Dio punisce gli uomini, per quale
ragione avviene ciò? Qual è siffatta colpa? Il narratore ci dice
che tutta la terra “aveva una sola lingua e le stesse parole” (Gn
XI, 1) e che gli uomini si stabilirono “nel paese di Senaar” (Gn
XI, 2), avendo emigrato da Oriente. Dietro la simbologia biblica, si
cela forse l'oscura reminiscenza di un passato nomade che vede il
popolo eletto girovagare nell'area dell'attuale Vicino Oriente, a
contatto con popoli dalle usanze nettamente differenti. Divenuti
stanziali, questi uomini presero a produrre dei mattoni (Gn XI, 3) e
dopo cominciarono a costruirsi una città (Gn XI, 4) e in questa
anche una torre, “la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome,
per non disperderci su tutta la terra” (Gn XI, 4). In questa
sequenza non emerge colpa alcuna, semplicemente gli uomini stanno
facendo quanto Dio ha consentito loro di fare: utilizzare i talenti
ricevuti per trarne frutti.
Utilizzando
l'intelligenza, si costruiscono una città. Il fatto che costruiscano
una torre al fine di non venir confusi con il resto dei popoli vicini
non deve trarre in inganno: era comune infatti in quell'area
edificare delle torri, ossia delle Ziqqurat,
che identificassero bene ciascuna città. Ma costruire una ziqqurat
non è certo una colpa né tantomeno può esserlo volersi distinguere
dagli altri popoli, evitando cioè che il proprio nome venga confuso
con quello di altri popoli.
(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9O2h6wk_VJ58F7WHuBHK4YWDHgLhg8PvbeDWrLW-kxgYaibQiBO_WFXEvMX5E8S6J898dvBoDD2iRlsckgeGJeWSKz6CBZ_372dQscJE_7Ik4cXWlH66qRU88BwQiMbTNDpQCZYkHNsI2/s400/ziqqurat.jpg)
Se
così stanno le cose, non si comprende come mai Dio, improvvisamente,
scenda a “vedere la città e la torre” (Gn XI, 5) per affermare
che “essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo
è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare
non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque, e confondiamo la loro
lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro”
(Gn XI, 6 – 7). Vigendo il classico meccanismo dell'etica ebraica
della corresponsione
(a tanta colpa tanta sanzione), qual è dunque la colpa degli ebrei
antichi? Dei discendenti di Noè?
La
posizione tra due liste di discendenze, però, suggerisce l'idea di
un doppione, che cioè il presente racconto narri, in forma diversa,
un episodio già avvenuto, sotto altre forme. Per questo motivo,
l'indicazione netta della colpa commessa è dovuto ad una sorta di
refuso: originalmente c'era, adesso manca perché omesso in fase di
raccolta delle diverse narrazioni confluite nella stesura complessiva
del Genesi.
Molto
probabilmente, credo che il racconto della Torre di Babele sia una
versione differente del medesimo racconto delle origini.
Il narratore biblico descrive in altri termini la natura della colpa
umana, ossia il medesimo peccato di Adamo ed Eva, la colpa forse più
antica e più grave.
Dio
scende due volta a visitare gli uomini, una prima volta valuta la
vita mortale mentre la seconda volta materialmente punisce gli uomini
con la dispersione “su tutta la terra” (Gn XI, 8).
L'immagine
di Dio che scende materialmente sulla terra, tra gli uomini, è
frequente nei racconti biblici, e, in modo particolare, la ritroviamo
nel racconto di Adamo (Gn III, 8). Dio scopre che gli uomini hanno
infranto la promessa fatta, si sono resi colpevoli della colpa
peggiore che possa esserci: farsi come Dio.
Questo è il senso del peccato originale, il significato della colpa
dei progenitori,
pretendere di sostituirsi a Dio. Non è forse questo quel che il
serpente suggerisce ad Eva? Diventare come
Dio, avendo coscienza del bene e del male? La narrazione biblica
lascia pochi dubbi al riguardo (Gn III, 5).
Ci
troviamo, dunque, di fronte ad una diversa versione del medesimo
racconto? Probabilmente sì, anche se non disponiamo di alcuna
certezza al riguardo e balbettiamo davanti ai racconti dell'origine.
Ma del medesimo parere è certamente Ercoleo la quale scrive in modo
netto “il celebre racconto della “torre di Babele” rappresenta
un'altra versione del peccato originale” (M. Ercoleo, Una
lettura teologico – filosofica dei primi capitoli della Bibbia,
Edizioni della Fondazione Nazionale «Vito
Fazio Allmayer»,
Palermo, 2000, p. 100).
Allora,
Dio non punisce gli uomini per il loro ingegno, che pure è un dono
divino, né per le loro capacità, altro dono divino, ma perché
hanno preteso di agire, ossia vivere, come
Dio.
Il
sicut
non rende, però, bene l'idea. Il peccato non è vivere ad imitazione
di Dio e, forse, nemmeno invidiare la divinità. Ma il voler vivere
senza
Dio: essere come Dio significa poterne fare a meno. Adamo ed Eva,
dopo aver mangiato del frutto dell'albero della conoscenza del bene e
del male (perfetta simbologia biblica della conoscenza morale) sono
come Dio,
nel senso che, come Dio, anche loro adesso conoscono la differenza
tra bene e male. Tant'è vero che ora sanno di essere nudi, ne
provano vergogna e cercano addirittura di nascondersi agli occhi di
Dio (Gn III, 8). Ma non possono sfuggire all'Onnipotente e vengono
puniti per la loro colpa.
Così
accade anche agli uomini di Babele: sebbene potenti, subiscono
inesorabile la loro punizione. Ma mentre Adamo ed Eva peccano
personalmente, ossia individualmente, nelle loro distinte
personalità, gli abitanti di Babele peccano collettivamente
(M. Ercoleo, op.
cit.,
p. 100).
Questi
misteriosi uomini si raccolgono attorno ad una torre e cercano di
opporsi con tutte le loro forze all'omologazione del loro ambiente
geografico. La loro colpa è, dunque, chiara: Elohim “ha comandato
all'uomo di allargare i confini, di espandersi su tutta la terra”
(M. Ercoleo op.
cit.,
p. 103) ma loro “sembrano volersi rinchiudere in un progetto di
autonomia egoistica” (ibidem).
Babele
non significa, come erroneamente si crede, “confusione” o
“pluralità di lingue”, ma semplicemente “porta di Dio” (M.
Ercoleo, op.
cit.,
p. 103). La colpa dei babelisti non è la costruzione della torre e
nemmeno voler parlare una sola lingua, ma chiudersi nel loro recinto
e fare a meno di Dio, ossia il peccato dell'uomo che crede di “poter
bastare a se stesso” (M. Ercoleo, op.
cit.,
p. 104).
Il
riferimento del narratore ai pensieri di Dio sulla torre, molto
probabilmente, sono il frutto della messa alla berlina, da parte del
narratore stesso, della consuetudine dei popoli del Vicino Oriente i
quali edificavano imponenti costruzioni in mattoni che si ergevano
verso il cielo, simbolo “della protervia umana che pretende di fare
a meno di Dio” (M. Ercoleo, op.
cit.,
p. 104).
La
fusione dei vari registri, consente la stesura finale del racconto in
questione: Dio punisce gli uomini per aver preteso di fare a meno del
Creatore.
La
torre è solo il simbolo dell'arroganza umana e il suo racconto la
messa alla berlina delle pretese ridicole degli uomini.
Il
Cielo non può mai essere preda degli appetiti mortali.
La
confusione, o dispersione, che il narratore fa seguire alla
costruzione della Torre di Babele, allora, è solo la ripresa del
filo narrativo originale, a seguito del peccato di Adamo ed Eva e
presente anche nella ripopolazione della Terra a seguito del Diluvio.
Babele
indica, allora, solamente, l'arroganza umana che vorrebbe essere come
Dio, autosufficiente, bastevole a sé stessa, chiusa nella sua
autonomia. Ma così non è, e gli uomini ne pagano il fio.
(immagine tratta da: http://www.filippin.it/casar/images/big/babele.jpg)
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