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venerdì 8 marzo 2019

Sulle spalle dei nani #3




Sulle spalle dei nani #3


Una lettura della cosiddetta autonomia differenziata

Cosa significa, allora, una maggiore autonomia? Siccome quest’ultima è richiesta da alcune regioni, si configurerebbe una situazione ove alcune regioni trattengono sul proprio territorio funzioni rilevanti, oltre che qualificanti, dell’azione propria di uno Stato, mentre tutte le altre, almeno allo stato attuale o in un primo periodo, manterrebbero l’attuale separazione di ruoli, competenze e funzioni tra Stato centrale e Regioni. 


Questo, in assenza di una cornice unica nazionale in merito ai livelli standard di prestazioni al cittadino da erogare sull’intero territorio nazionale, suscita già alcune perplessità e certo non pochi timori in merito all’eccessiva frammentazione locale dell’azione propria di uno Stato. Non per nulla si fa notare infatti come, nella retorica pubblica, si contrapponga uno Stato centrale, inefficiente ed iniquo, a Regioni, efficienti ed eque. In realtà, quel che si rimprovera allo Stato, segnatamente la sua centralità burocratica, può benissimo venir rimproverato alle regioni, ree di volere costituire, a livello locale, la medesima centralità che desiderano sottrarre allo Stato.

Comunque, a nulla valgono premesse come “nell’ambito unitario del sistema nazionale”, ed affini. Ma entriamo nello specifico. Le regioni in questione non si accontentano di nuovi poteri, chiedono anche nuovi finanziamenti. E qui i timori diventano ampi. Infatti, pur nei complessi meccanismi di calcolo, a processo approvato dal Parlamento, nei termini di legge dello Stato che ratifica l’intesa tra le regioni interessate e il Governo, emerge che lo Stato dovrebbe trasferire alle regioni la correlativa spesa, calcolata sul fabbisogno storico di queste ultime. Con l’aggiunta, certo non trascurabile, di ogni qualsiasi nuova entrata tributaria che in futuro potrebbe verificarsi. In altri termini, l’eventuale posteriore extragettito resterebbe sul territorio e verrebbe gestito direttamente dalle regioni medesime. 



E qui cominciano i problemi. Infatti, ciò equivarrebbe a consentire a queste regioni, le più ricche del Paese, di trattenere approssimativamente qualcosa come il 90% delle entrate fiscali attuali, pur in regime di compartecipazione tra Stato e regioni, nonché ogni futuro incremento nella misura del 100% del totale. Ma dette regioni contribuiscono alle entrate fiscali di tutto lo Stato. Ne consegue, pertanto, che, a regime, la quota complessiva dei finanziamenti centrali ai territori più depressi dovrebbe giocoforza diminuire. Non a caso, in molti hanno visto nella richiesta di maggiore autonomia una sorta di “secessione dei ricchi”, e sotto un certo aspetto, non può dirsi che abbiano torto. 


Altri ancora hanno ravvisato il concreto rischio di una “morte dello Stato”. Quest’ultima ipotesi, pur nebulosa dato che discutiamo di possibilità e di scenari inediti, però, non tiene conto della possibilità prevista dal decisore politico, ovvero quanto previsto dal terzo comma dell’art. 116 Cost. Vale a dire, perché prevedere questa possibilità se spostare funzioni, competenze e risorse dal centro alla periferia appare pericoloso? Soprattutto per la tenuta stessa della coesione nazionale? 

Il problema, a dire il vero, non è la forma della previsione, ma la sostanza dell’intesa tra Regioni e Governo. Detto altrimenti, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle possibilità previste dal comma terzo dell’art. 116 Cost., ma nessun Governo sarebbe obbligato ad accettarle tutte. Ed ancora, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle risorse attualmente erogate per svolgere queste funzioni a livello centrale o concorrente, ma in alcun caso il Governo è automaticamente costretto a cedere. 

Il problema, come si vede, è più di levatura morale degli attuali decisori politici che di tenuta democratica del sistema nel suo complesso, e rimanda, pur con una pluralità di livelli diversi, alla dicotomia tra forte e debole, tra attori istituzionali e decisori politici, dai territori economici alla redistribuzione della ricchezza, etc.


Apriamo, infine, una piccola parentesi sulla cornice di equità di un simile progetto.


Non si tratta, a ben vedere, di astratte ed altissime questioni morali, anche se in realtà la maggiore o minore prossimità di queste ultime alle situazioni reali dipende dall’ingegno che le declina in concreto e non da loro stesse. Si tratta, invece, di vere e proprie questioni di giustizia materiale, o, se si preferisce, sostanziale. Come asserisce Martha Nussbaum, ad esempio, «i doveri di giustizia sono molto rigidi e richiedono alti standard morali di tutti gli attori nel loro agire» (Nussbaum, Giustizia e aiuto materiale, p. 11). Per poter declinare in concreto cornici teoriche di riferimento ci vorrebbero decisori politici di grande statura, e questi, purtroppo, al momento mancano. Ma se a prendere le decisioni sono piccoli personaggi politici, ecco che le questioni di giustizia potrebbero venir eluse, con grave danno per l’intera collettività.


Da ultimo, certe realizzazioni concrete dell’ideale di giustizia vengono giustificate in nome di un tecnicismo politico avalutativo, vale a dire neutro rispetto alle medesime finalità cui mette capo. Questa sorta di avalutatività ruota intorno al frainteso concetto di diritto: non il diritto dei soggetti, ma l’oggettività materiale di leggi, codici, norme … Questo modo di procedere, oltre che ideologico, e per preciso calcolo politico, sul quale non entriamo, un po’ per pudore e un po’ per non fare il loro gioco, manca di considerare o di dichiarare che la legge «è un districarsi difficile e impegnativo nel ragionevole compito di trovare le strade per smussare i contrasti, promuovere la convivenza, impedire le prevaricazioni, assicurare a ciascuno, nella vita comune, una parte non mortificata» (Zagrebelsky, La virtù del dubbio, p. 51). Non una legge assoluta, e, per ciò stesso, vera, oltre che giusta, ma un diritto mite, «strumento di convivenza delle diversità» (Ivi, p. 50). Ma in questa presunta neutralità materiale del diritto, i suoi sostenitori innalzano un Moloch unico al cui altare sacrificare ogni differenza, ogni diversità, costituendo un unico diritto per tutti e per nessuno.

E la giustizia? Già, dov’è finita? Far parti eguali tra diseguali non è equo. Se il diritto ad una dimensione considera tutti su un piano di eguaglianza, sia pure solamente formale, non tiene conto, per come dovrebbe invece, di tutta una serie di «diseguaglianze che sorgono dalle abilità produttive, dai bisogni e altre variabili personali» (Sen, La diseguaglianza, p. 169). Detto altrimenti, nessuno nasce in parità con gli altri. Ognuno nasce all’interno di una rete di diversità, economica, culturale, sociale. Questa diversità influenza pesantemente la posteriore esistenza del soggetto, in positivo ma anche in negativo, con tutte le ricadute del caso riguardo a libertà personale, capacità lavorativa e benessere esistenziale complessivo. Dire che siamo liberi non ci rende affatto liberi se poi vi sono difficoltà materiali all’esercizio effettivo di detta libertà.

Inoltre, istituzioni che si limitano a declamare avalutativamente l’eguaglianza formale o la libertà teorica delle persone, rendono un buon servizio alla giustizia? Ovviamente, no. E questo la dice lunga sulla vocazione progressista o umana di coloro che esaltano la natura tecnica del diritto e delle legge. 


Al contrario, così come la libertà umana non esiste nella sola concezione astratta, ma, al contrario, ha bisogno di condizioni materiali di effettivo esercizio, per poter esistere non di per sé, ma al servizio di attori sociali umani concreti, le istituzioni come intendono promuovere la giustizia? Rammentiamo che il costituzionalista ha ben inteso questo compito nei due paragrafi dell’art. 3 Cost., un illustre sconosciuto ai novelli costituzionalisti degli ultimi decenni. Ci dice ancora una volta Sen, non a caso ideatore di un approccio alle capacità come declinazione concreta delle esigenze di giustizia, «dobbiamo anche riflettere su come le istituzioni dovrebbero essere regolate qui e ora, in modo da promuovere la giustizia favorendo la libertà e il benessere di coloro che vivono oggi, e che domani non ci saranno più» (Sen, L’idea di giustizia, p. 92). Come potrebbe conciliarsi un’autonomia differenziata con il compito costituzionale della rimozione delle cause materiali dell’ingiustizia? Oppure, peggio, come potrebbe accettarsi una ripartizione delle risorse economiche che rendesse impossibile la rimozione di dette cause in alcuni territori? O, ancora, come sarebbe possibile garantire standard anche minimi di servizi alla collettività con una dotazione finanziaria anche inferiore a quella attuale? Ma, e allargando ulteriormente il focus, come si potrebbe ancora parlare di redistribuzione della ricchezza se questa rimane su alcuni territori?


Sembra quasi, che noi si viaggi sulle spalle di nani, i quali soffrono di un particolare disturbo visivo in forza del quale il molto piccolo, e particolare, ha sostituito tutto il resto. Una caratteristica inversione del rapporto hegeliano tra le parti e il Tutto, indicativa della loro levatura politica.



(url: http://www.affaritaliani.it/static/upl2018_restyle/vies/viesti-secessione10.jpg)

Indice degli articoli relativi all'autonomia differenziata e ai suoi problemi (qui)

domenica 5 febbraio 2017

martedì 19 luglio 2016

Alcune pubblicazioni

A mero esercizio di narcisismo, listo di seguito dei link ad alcune mie ultime pubblicazioni!

Non so se possano interessare, ma intanto ne documento e pubblicizzo l'esistenza ...


Rendicontazione scolastica (http://www.academia.edu/14078996/La_rendicontazione_scolastica._Dalla_valutazione_degli_apprendimenti_alla_valutazione_di_sistema) 

Note sulla contraddizione (http://www.academia.edu/17567772/Note_sulla_contraddizione)

Lo strano caso del Buon Samaritano (http://www.academia.edu/25745117/Lo_strano_caso_del_Buon_Samaritano)

In cerca della libertà (http://www.academia.edu/26508323/In_cerca_della_libert%C3%A0.pdf)

Riflessioni sul paradosso (https://www.academia.edu/26927265/Riflessioni_sul_paradosso)

La "colpa" nella discussione post Shoah (https://www.academia.edu/26927200/La_colpa_nella_discussione_post_Shoah)

Buona lettura!

giovedì 17 settembre 2015

Un discorso jobico

"Il libro di Giobbe non è un testo di antropologia del dolore […]; non è un manuale di teodicea […]; non è un saggio etico sulla pazienza […]. Siamo, invece, in presenza di un discorso sulla fede autentica che esige il superamento di ogni concezione «economica» del credere, così come propongono le teorie retributive degli amici […]. La fede è libertà e non risponde a canoni schematici di giustizia e di ricompensa e di logica immediata"

(G, Ravasi, Questioni di fede. 150 risposte ai perché di chi crede e di chi non crede, Mondadori, Milano, 2010, pp. 159 – 160)

Cosa ci dice la narrazione biblica su Giobbe? Che fosse un bestemmiatore? Che fosse un peccatore? Che subisse ingiustamente disgrazie gratuite? Che non fu capito né da moglie né da amici? Cosa ci dice veramente?

Giobbe rappresenta in chiave lirica la dimensione stessa dell'umano, quel che siamo tutti noi, vale a dire uomini tentati dalla fatica di abitare questo mondo pur dovendo non distogliere mai lo sguardo dal ponte che collega questo opaco atomo del male al mondo di là ...

Le prove della vita abilitano la libertà nell'esperienza di fede jobica sino al punto di entrare in dialogo diretto con Dio, e, nello scambio vivo di battute e parole, riuscire a trovare lenimento per le proprie sofferenze terrene, consolazione per le proprie tribolazioni, incontro con la persona divina, al di là dei propri miseri dubbi, al di là della gretta tentazione mondana della moglie, al di là dello sterile correlare punizione a colpa commessa da parte degli amici ...

Giobbe esperisce sulla propria carne l'esperienza del malum mundi, ma non per questo la sua fede viene meno.

E di questa fedeltà trova premio presso Dio.

sabato 12 luglio 2014

Declinazioni della libertà ...

In riferimento alla libertà naturale, scrive Magni:

Qualcosa è possibile quando non è in contrasto con le leggi di natura, impossibile quando è in contrasto con le leggi di natura, necessario quando il suo contrario è impossibile, cioè in contrasto con le leggi di natura[1]

Invece, la libertà politica e sociale fa riferimento alle nozioni deontiche di lecito, divieto ed obbligo. Infatti,

qualcosa è possibile quando è lecito, impossibile quando vietato, necessario quando è obbligatorio; e qualcosa è lecito quando è permesso dalle leggi, non è cioè in contrasto con esse, vietato quando non è permesso, obbligatorio quando non è permesso il suo contrario[2]


Già, proprio così. Finalmente, ho trovato un'esplicitazione accettabile dei miei stessi pensieri, e che mettesse a tema proprio la differenza tra la possibilità naturale, intesa nei termini di fattibilità o meno modale, e la possibilità sociale, intesa nei termini di possibilità o meno deontica. Certo, ancora molto resta da fare, ma siamo sulla buona strada.

Note

[1] Cfr. F. S. Magni, Teorie della libertà. La discussione contemporanea, Carocci, Roma, 2005, p. 17.
[2] Ivi, p. 18.


(url immagine: http://www.corrispondenzaromana.it/wp-content/uploads/2013/07/vignetta-di-mafalda-sulla-liberta-di-parola-copia.jpg)



sabato 21 giugno 2014

Impairment e relazione di cura

Ultimo articolo scritto, stavolta sulla libertà personale in soggetti sottoposti in qualche modo ad ostacoli, naturali e sociali. Spero possa piacere. Di seguito la preview e subito dopo il link all'articolo.



Qui l'articolo completo.



martedì 29 aprile 2014

Immorale



"Attribuire a un essere umano un livello di vita meramente animale, un livello di vita in cui le facoltà tipicamente umane di scelta e di socialità sono completamente svuotate, è immorale e inammissibile"

(citazione in esergo a: M. C. Nussbaum, Giustiza e aiuto materiale, Il Mulino, Bologna, 2008)


Cos'è immorale se non ridurre le esistenze umane ad una condizione non umana?

Regredendo all'assenza animale di scelta e/o di cooperazione sociale, l'esistenza di esseri umani diviene nulla.

Far regredire le esistenze umane ad esistenze solamente animali, per scelta o per dolo, è tanto immorale quanto inammissibile!



(url immagine: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj8IA_MlbD19QF6hVa0x9pM0GY-CukvCGhU30C0lTZo3gjksg1i00YQL2ifcLDvgV-RCF83xsKMF6a7C0h_bxd3yugaNAuE9TN41gOu3cxUvAzgDGKYrS8-zOpHrsSWnHDmMkXFp9fT1g/s1600/libero+arbitrio.jpg)

giovedì 11 luglio 2013

(Neo)realismo ...

"addio alla verità è non solo un dono senza controdono che si fa al «Potere», ma soprattutto la revoca della sola chance di emancipazione che sia data all'umanità, il realismo, contro l'illusione e il sortilegio"


(Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 112)



Quanti cianciano pro o contra il cd. Nuovo realismo per quale oscuro motivo non riescono a riconoscere nell'appello alla non emendabilità del reale la ragione più forte contro il dispotismo del Potere?


Ergo, se solo il reale può fare da contraltare alle liturgie del Potere, come mai i contrari al realismo non condividono la medesima aspirazione alla libertà?


Oscuri sono i moventi che ispirano gli uni e gli altri, tutti eccetto forse uno: per la necessità di collocarsi in una parte, in uno spazio, sentirsi parte di una fazione, per seguire una moda, con o contro, per restare così a galla nell'oceano dell'anonimato, che non per spirito di critica e/o di problematizzazione.


Abbiam davvero preso congedo da Kant, ma non si capisce bene per andare verso dove ...

mercoledì 5 giugno 2013

Il matrimonio è un diritto?



Il matrimonio è un diritto?
Perché quello omosessuale  non lo è.

Alieno a qualsiasi ipocrisia sulla materia, pur essendo il Nostro un Paese fondamentalmente ipocrita, e certo di farmi dei nemici per quel che dirò, e sosterrò (ma non pretendo ipocritamente di essere amico di tutti), spiegherò brevemente perché, a mio sommesso parere, nel caso dei cosiddetti "matrimoni gay" non può in nessun caso parlarsi di "diritto" (dei soggetti che vorrebbero contrarlo).


La  mia idea segue due strade differenti, una prende ad esempio il caso dei matrimoni eterosessuali mentre l'altra cerca di prendere sul serio una delle argomentazioni in forza della quale i sostenitori parlano di "violazione dei diritti", analizzando (almeno) una delle conseguenze paradossali che proprio tale argomento comporta (se preso sul serio).


L'unione tra due persone eterosessuali, libere e in possesso della capacità giuridica, che nel Nostro ordinamento si consegue al compimento della maggiore età (18 anni), è inquadrata, come materia giuridica, dal Codice Civile il quale lo definisce nei termini di negozio giuridico, in forza del quale un uomo e una donna dichiarano di volersi prendere reciprocamente come marito e moglie, e come un rapporto dal quale discendono conseguenze di natura e personale e patrimoniale. 


La famiglia è pertanto l'effetto del matrimonio eterosessuale, ossia tra due persone di sesso differente, le quali contraggono unione agli occhi della legge e s'impegnano personalmente nel loro rapporto, conseguendo dallo stesso precisi effetti civili, ossia patrimoniali.


Il Codice Civile, peraltro, declina in concreto l'inquadramento fondamentale che della materia offre la Carta Costituzionale la quale all'art. 29 ne parla nei termini di una società naturale fondata sul matrimonio e sulla parità, morale e giuridica, dei coniugi[1].


Nello stesso Codice peraltro si parla sempre di "marito" e di "moglie" ad indicazione del ruolo sociale attribuito ai singoli in quanto rispettive espressioni di due sessi differenti.


Ora, il matrimonio così stabilito è un diritto? Se lo è, sorgono dei dubbi, più o meno legittimi, sull'esclusione di alcuni soggetti dal poterlo liberamente contrarre. Questo almeno uno dei sentieri che i fautori del matrimonio omosessuale battono nella loro rivendicazione: essendo un diritto, escludere dei soggetti dal poterlo contrarre si configura nei termini di una discriminazione, ossia di una violazione dei diritti che spettano alle persone in quanto tali.


Ma il matrimonio eterosessuale tutto è fuorché un diritto nel senso che i soggetti interessati, un uomo e una donna, possono liberamente contrarlo ma non viene affatto loro garantita la relativa fruizione. La funzione del Codice Civile, peraltro, stabilisce come i due contraenti il matrimonio assumano nuovi stati personali, di marito, nel caso del contraente uomo, e di moglie, nel caso del contraente donna[2]. Ammesso, e non concessa, la possibilità di matrimoni per esponenti dello stesso sesso, sorge il problema dei relativi stati personali addotti dai due soggetti dello stesso sesso uniti in matrimonio.


V'è, nella cultura moderna, un perdurante quanto imbarazzante equivoco il quale porta a pensare che qualsiasi desiderio personale, o, se si preferisce, capriccio, sia un diritto, ossia una pretesa personale legittima, e, quindi, meritevole di tutela: da promuoversi (da parte della propria collettività di appartenenza). Il Codice Civile non qualifica la fattispecie del "matrimonio" nei termini di un diritto soggettivo, ossia di pretesa legittima da promuovere, ma di un contratto stipulato liberamente tra due parti.


Francamente, penso che l'equivoco nel caso presente sia doppio: 1) si equivoca sul significato, in termini di diritti, della parola 'matrimonio'; e, 2) s'intende il matrimonio tutta quella serie di effetti giuridici e patrimoniali che il matrimonio come rapporto comporta. 

In realtà, infatti, è l'esclusione da questi effetti per le coppie dello stesso sesso che provoca reazione e, in alcuni casi, anche sdegno e che, con molta probabilità, suppongo, porta a parlare di discriminazione o di violazione di diritti dei soggetti.


Ma è concettualmente infondato parlare al riguardo del matrimonio omosessuale di un diritto: non lo è per le coppie eterosessuali, perché dovrebbe esserlo per quelle dello stesso sesso?



Veniamo ora all'esame di un'argomentazione che i sostenitori dei matrimoni gay generalmente usano per giustificare la loro pretesa ad una tutela giuridica delle unioni tra soggetti dello stesso sesso.

Costoro argomentano più o meno nella maniera seguente:

Se i diritti non discendono dal tipo di coito che viene realizzato liberamente da due persone di diverso sesso, perché negare gli stessi diritti a due persone dello stesso sesso le quali liberamente decidono di dedicarsi al coito?

Mettendo tra parentesi la presenza di fondo dell'equivoco di cui sopra circa la natura e la definizione dei 'diritti', esaminiamo questa argomentazione.

Essa presenta due possibilità diverse in equilibrio simmetrico: il coito eterosessuale e il coito omosessuale. In forza di questa simmetria, vieta qualsiasi differenza per relativi trattamenti giuridici pena la discriminazione degli uni come degli altri. Ma siccome nel primo caso sono garantiti dei diritti, in genere di natura patrimoniale tra i coniugi, e nel secondo caso no, ecco che scatta il meccanismo della rivalsa: siamo in presenza di una discriminazione in quanto ad alcuni vengono negati gli stessi diritti.


Vista più nello specifico, l'argomentazione è erronea in quanto si contraddice internamente dal momento che finisce con il legare il godimento di determinati diritti alla pratica del coito piuttosto che legarli alla personalità di chi la pratica. Come a dire, se presa sul serio, che tale argomentazione finisce con lo spostare la titolarità del diritto in quanto tale dall'essere una persona al praticare una determinata azione. Peraltro, cosa che comincia con il non sostenere, giungendo infine, invece, proprio a sostenere tale derivazione.


Se davvero, ma non è certo questo il caso, per le ragioni viste in precedenza, il matrimonio è un diritto questo non discende dal fatto che un uomo e una donna praticano il coito, ma dal fatto che decidono liberamente di unirsi nel rapporto giuridico del matrimonio. Il coito, per dirla altrimenti, è secondario rispetto alla liceità della contrazione di matrimonio. Peraltro, gli effetti personali e patrimoniali, il vero cruccio delle coppie omosessuali, non derivano dal tipo di coito che viene praticato, etero o omo, ma dal matrimonio come rapporto (tra due persone di sesso differente). Questo perché non ha senso far discendere una conseguenza giuridica, peraltro delicatissima come un diritto soggettivo, non dall'essere una persona, ossia dalla nascita, come recita il Codice Civile, ma dal momento in cui la stessa sceglie di praticare il coito in una certa maniera.

Nel voler giustificare surrettiziamente, ossia senza alcun appiglio alle fonti del diritto interno, gli omosessuali, e chi per loro, finiscono con il rovesciare il fondamento antropologico del diritto stesso, spostando il soggetto del diritto dalla naturalità della persona in quanto tale, e prima di qualsiasi sua attività concreta, alla secondarietà della persona che, ad un certo punto, sceglie di vivere in un certo modo e, conseguentemente, produce determinate pratiche materiali.

Il matrimonio non è un diritto e, pertanto, non può essere invocato come tale dalle coppie dello stesso sesso. Il non prevederne la possibilità non è, per logica conseguenza, una discriminazione: non sussistendo in caso contrario un diritto, quanti vengono esclusi non possono in alcun modo sentirsi privati di una possibilità positiva.

Piuttosto, dal momento che in ogni caso bisogna parlare dei diritti delle persone, oggetti non disponibili alla contrattazione culturale e/o politica, è pensabile ad un miglioramento del trattamento patrimoniale dei soggetti costituenti delle coppie omosessuali. Questo è fattibile, ma senza mettere mano al diritto di famiglia.


Peraltro, se il reale desiderio delle coppie omosessuali è godere di maggiori diritti, che senso potrebbe avere forzare l'istituto del matrimonio secondo i propri desiderata?


Anzi, se l'obiettivo concreto sono i diritti soggettivi da fruire, per quale perverso motivo accanirsi contro il modello del matrimonio eterosessuale? Non sarebbe più facile, e meno irto di difficoltà, culturali e giuridiche, praticare questa via anziché scegliere di "scimmiottare" il matrimonio eterosessuale?


La stessa esperienza francese insegna come aprire ai matrimoni omosessuali presenti uno sconvolgimento tale del diritto interno, e che tocca materie diverse ma collegate, da chiedersi se il matrimonio ottenuto sia lo stesso cui si tendeva o non piuttosto una sorta di surrogato giocato tutto sul politically correct della lingua.

Per alcuni la forma è sostanza, per me, piuttosto, si scherza con le parole senza accedere mai per davvero alla sostanza delle cose. I diritti, per carità, sono ben altra cosa ed andrebbero difesi per davvero ai nostri giorni dal momento che sempre più concretamente vengono messi a repentaglio dalla comoda scusa della crisi per far venir meno il loro sostentamento, ossia la loro tutela e promozione, restando scomodi ma graditi ospiti sulla carta di qualche dichiarazione o invocazione.

Note
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[1] Art. 29 Cost.: "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge e garanzia dell'unità familiare".
[2] Art. 143 c.c.




(immagine tratta da: http://www.pronews.it/wp-content/blogs.dir/3817/files/2013/02/matrimonio-gay-2.jpg)



venerdì 3 maggio 2013

Babele. Quale colpa?



Il narratore biblico narra l'episodio della Torre di Babele nel libro del Genesi (XI, 1 – 9) e nella vulgata popolare è passato il messaggio secondo il quale Dio avrebbe punito gli uomini, rei di aver voluto salire in cielo sino a Dio stesso, con la dispersione delle lingue. Da qui in poi il termine babele avrebbe significato, per l'appunto, la pluralità di lingue, culture, idiomi, abitudini, costumi, e così via.


Io non sono esattamente un teologo e poco so di linguaggio biblico, però mi pare come non sia affatto veritiera questa interpretazione, diciamo così pop. Infatti, non emerge in modo chiaro quale sia la vera colpa degli uomini. E, d'altro canto, è invece chiaro che la dispersione, che il narratore indica come punizione divina, non è per nulla la sanzione negativa alle colpe umane nel caso in esame. Infatti, la lista di discendenti di Noé (Gn X, 1 - 31), che precede il racconto della torre di Babele, mostra chiaramente come i popoli fossero già dispersi sulla terra, e come gli uomini parlassero già più lingue ed usassero già più costumi. Questa semplice constatazione viene confermata dalla successiva lista di discendenze che segue il racconto in questione (Gn XI, 10 e sgg.).


Allora è lecito porsi la domanda: qual'era la colpa dei costruttori della Torre di Babele? É, infatti, scontato come il presentarsi di una punizione, da parte di Dio, sia conseguente ad una colpa in precedenza commessa. Se, pertanto, Dio punisce gli uomini, per quale ragione avviene ciò? Qual è siffatta colpa? Il narratore ci dice che tutta la terra “aveva una sola lingua e le stesse parole” (Gn XI, 1) e che gli uomini si stabilirono “nel paese di Senaar” (Gn XI, 2), avendo emigrato da Oriente. Dietro la simbologia biblica, si cela forse l'oscura reminiscenza di un passato nomade che vede il popolo eletto girovagare nell'area dell'attuale Vicino Oriente, a contatto con popoli dalle usanze nettamente differenti. Divenuti stanziali, questi uomini presero a produrre dei mattoni (Gn XI, 3) e dopo cominciarono a costruirsi una città (Gn XI, 4) e in questa anche una torre, “la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gn XI, 4). In questa sequenza non emerge colpa alcuna, semplicemente gli uomini stanno facendo quanto Dio ha consentito loro di fare: utilizzare i talenti ricevuti per trarne frutti.


Utilizzando l'intelligenza, si costruiscono una città. Il fatto che costruiscano una torre al fine di non venir confusi con il resto dei popoli vicini non deve trarre in inganno: era comune infatti in quell'area edificare delle torri, ossia delle Ziqqurat, che identificassero bene ciascuna città. Ma costruire una ziqqurat non è certo una colpa né tantomeno può esserlo volersi distinguere dagli altri popoli, evitando cioè che il proprio nome venga confuso con quello di altri popoli.


(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9O2h6wk_VJ58F7WHuBHK4YWDHgLhg8PvbeDWrLW-kxgYaibQiBO_WFXEvMX5E8S6J898dvBoDD2iRlsckgeGJeWSKz6CBZ_372dQscJE_7Ik4cXWlH66qRU88BwQiMbTNDpQCZYkHNsI2/s400/ziqqurat.jpg)




Se così stanno le cose, non si comprende come mai Dio, improvvisamente, scenda a “vedere la città e la torre” (Gn XI, 5) per affermare che “essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque, e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro” (Gn XI, 6 – 7). Vigendo il classico meccanismo dell'etica ebraica della corresponsione (a tanta colpa tanta sanzione), qual è dunque la colpa degli ebrei antichi? Dei discendenti di Noè?



La posizione tra due liste di discendenze, però, suggerisce l'idea di un doppione, che cioè il presente racconto narri, in forma diversa, un episodio già avvenuto, sotto altre forme. Per questo motivo, l'indicazione netta della colpa commessa è dovuto ad una sorta di refuso: originalmente c'era, adesso manca perché omesso in fase di raccolta delle diverse narrazioni confluite nella stesura complessiva del Genesi.


Molto probabilmente, credo che il racconto della Torre di Babele sia una versione differente del medesimo racconto delle origini. Il narratore biblico descrive in altri termini la natura della colpa umana, ossia il medesimo peccato di Adamo ed Eva, la colpa forse più antica e più grave.



Dio scende due volta a visitare gli uomini, una prima volta valuta la vita mortale mentre la seconda volta materialmente punisce gli uomini con la dispersione “su tutta la terra” (Gn XI, 8).



L'immagine di Dio che scende materialmente sulla terra, tra gli uomini, è frequente nei racconti biblici, e, in modo particolare, la ritroviamo nel racconto di Adamo (Gn III, 8). Dio scopre che gli uomini hanno infranto la promessa fatta, si sono resi colpevoli della colpa peggiore che possa esserci: farsi come Dio. Questo è il senso del peccato originale, il significato della colpa dei progenitori, pretendere di sostituirsi a Dio. Non è forse questo quel che il serpente suggerisce ad Eva? Diventare come Dio, avendo coscienza del bene e del male? La narrazione biblica lascia pochi dubbi al riguardo (Gn III, 5).



Ci troviamo, dunque, di fronte ad una diversa versione del medesimo racconto? Probabilmente sì, anche se non disponiamo di alcuna certezza al riguardo e balbettiamo davanti ai racconti dell'origine. Ma del medesimo parere è certamente Ercoleo la quale scrive in modo netto “il celebre racconto della “torre di Babele” rappresenta un'altra versione del peccato originale” (M. Ercoleo, Una lettura teologico – filosofica dei primi capitoli della Bibbia, Edizioni della Fondazione Nazionale «Vito Fazio Allmayer», Palermo, 2000, p. 100).



Allora, Dio non punisce gli uomini per il loro ingegno, che pure è un dono divino, né per le loro capacità, altro dono divino, ma perché hanno preteso di agire, ossia vivere, come Dio.




Il sicut non rende, però, bene l'idea. Il peccato non è vivere ad imitazione di Dio e, forse, nemmeno invidiare la divinità. Ma il voler vivere senza Dio: essere come Dio significa poterne fare a meno. Adamo ed Eva, dopo aver mangiato del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male (perfetta simbologia biblica della conoscenza morale) sono come Dio, nel senso che, come Dio, anche loro adesso conoscono la differenza tra bene e male. Tant'è vero che ora sanno di essere nudi, ne provano vergogna e cercano addirittura di nascondersi agli occhi di Dio (Gn III, 8). Ma non possono sfuggire all'Onnipotente e vengono puniti per la loro colpa.


Così accade anche agli uomini di Babele: sebbene potenti, subiscono inesorabile la loro punizione. Ma mentre Adamo ed Eva peccano personalmente, ossia individualmente, nelle loro distinte personalità, gli abitanti di Babele peccano collettivamente (M. Ercoleo, op. cit., p. 100).


Questi misteriosi uomini si raccolgono attorno ad una torre e cercano di opporsi con tutte le loro forze all'omologazione del loro ambiente geografico. La loro colpa è, dunque, chiara: Elohim “ha comandato all'uomo di allargare i confini, di espandersi su tutta la terra” (M. Ercoleo op. cit., p. 103) ma loro “sembrano volersi rinchiudere in un progetto di autonomia egoistica” (ibidem).



Babele non significa, come erroneamente si crede, “confusione” o “pluralità di lingue”, ma semplicemente “porta di Dio” (M. Ercoleo, op. cit., p. 103). La colpa dei babelisti non è la costruzione della torre e nemmeno voler parlare una sola lingua, ma chiudersi nel loro recinto e fare a meno di Dio, ossia il peccato dell'uomo che crede di “poter bastare a se stesso” (M. Ercoleo, op. cit., p. 104).


Il riferimento del narratore ai pensieri di Dio sulla torre, molto probabilmente, sono il frutto della messa alla berlina, da parte del narratore stesso, della consuetudine dei popoli del Vicino Oriente i quali edificavano imponenti costruzioni in mattoni che si ergevano verso il cielo, simbolo “della protervia umana che pretende di fare a meno di Dio” (M. Ercoleo, op. cit., p. 104).

La fusione dei vari registri, consente la stesura finale del racconto in questione: Dio punisce gli uomini per aver preteso di fare a meno del Creatore.


La torre è solo il simbolo dell'arroganza umana e il suo racconto la messa alla berlina delle pretese ridicole degli uomini.


Il Cielo non può mai essere preda degli appetiti mortali.



La confusione, o dispersione, che il narratore fa seguire alla costruzione della Torre di Babele, allora, è solo la ripresa del filo narrativo originale, a seguito del peccato di Adamo ed Eva e presente anche nella ripopolazione della Terra a seguito del Diluvio.



Babele indica, allora, solamente, l'arroganza umana che vorrebbe essere come Dio, autosufficiente, bastevole a sé stessa, chiusa nella sua autonomia. Ma così non è, e gli uomini ne pagano il fio.








(immagine tratta da: http://www.filippin.it/casar/images/big/babele.jpg)



mercoledì 31 ottobre 2012

Enigma


La realtà è veramente realtà solo se, semplicemente, è: proprio perché è si può pensare che prima di essere fosse possibile o necessaria, nel senso che si può asserire indifferentemente, tanto «ormai è, ma poteva non essere» quanto «ormai è, e quindi non può più non essere». Questo carattere instaurativo e primario della realtà vien meno quando la si indebolisce ed estenua o insistendo sulla concezione della realtà come contingenza o assumendo la necessità nella sua accezione logico-metafisica. Per un verso la contingenza, attribuendo alla realtà un poter non essere, la ricollega ancora con la possibilità, con l’effetto di affondarla nella nebbia dell’irreale, in cui valgono i fantasmi del caso, dell’ipotesi, del rischio, dell’arbitrio, della virtualità

(L. Pareyson, Ontologia della libertà, in L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino, 1995, pp. 87 – 88)

Meditazioni che brancolano ancora nell'oscurità innanzi ad un enigma che mal si presta ad essere compreso secondo categorie umane.


(immagine tratta da: http://www.pareyson.unito.it/par800.jpg)