Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta morale. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta morale. Mostra tutti i post

venerdì 8 marzo 2019

Sulle spalle dei nani #3




Sulle spalle dei nani #3


Una lettura della cosiddetta autonomia differenziata

Cosa significa, allora, una maggiore autonomia? Siccome quest’ultima è richiesta da alcune regioni, si configurerebbe una situazione ove alcune regioni trattengono sul proprio territorio funzioni rilevanti, oltre che qualificanti, dell’azione propria di uno Stato, mentre tutte le altre, almeno allo stato attuale o in un primo periodo, manterrebbero l’attuale separazione di ruoli, competenze e funzioni tra Stato centrale e Regioni. 


Questo, in assenza di una cornice unica nazionale in merito ai livelli standard di prestazioni al cittadino da erogare sull’intero territorio nazionale, suscita già alcune perplessità e certo non pochi timori in merito all’eccessiva frammentazione locale dell’azione propria di uno Stato. Non per nulla si fa notare infatti come, nella retorica pubblica, si contrapponga uno Stato centrale, inefficiente ed iniquo, a Regioni, efficienti ed eque. In realtà, quel che si rimprovera allo Stato, segnatamente la sua centralità burocratica, può benissimo venir rimproverato alle regioni, ree di volere costituire, a livello locale, la medesima centralità che desiderano sottrarre allo Stato.

Comunque, a nulla valgono premesse come “nell’ambito unitario del sistema nazionale”, ed affini. Ma entriamo nello specifico. Le regioni in questione non si accontentano di nuovi poteri, chiedono anche nuovi finanziamenti. E qui i timori diventano ampi. Infatti, pur nei complessi meccanismi di calcolo, a processo approvato dal Parlamento, nei termini di legge dello Stato che ratifica l’intesa tra le regioni interessate e il Governo, emerge che lo Stato dovrebbe trasferire alle regioni la correlativa spesa, calcolata sul fabbisogno storico di queste ultime. Con l’aggiunta, certo non trascurabile, di ogni qualsiasi nuova entrata tributaria che in futuro potrebbe verificarsi. In altri termini, l’eventuale posteriore extragettito resterebbe sul territorio e verrebbe gestito direttamente dalle regioni medesime. 



E qui cominciano i problemi. Infatti, ciò equivarrebbe a consentire a queste regioni, le più ricche del Paese, di trattenere approssimativamente qualcosa come il 90% delle entrate fiscali attuali, pur in regime di compartecipazione tra Stato e regioni, nonché ogni futuro incremento nella misura del 100% del totale. Ma dette regioni contribuiscono alle entrate fiscali di tutto lo Stato. Ne consegue, pertanto, che, a regime, la quota complessiva dei finanziamenti centrali ai territori più depressi dovrebbe giocoforza diminuire. Non a caso, in molti hanno visto nella richiesta di maggiore autonomia una sorta di “secessione dei ricchi”, e sotto un certo aspetto, non può dirsi che abbiano torto. 


Altri ancora hanno ravvisato il concreto rischio di una “morte dello Stato”. Quest’ultima ipotesi, pur nebulosa dato che discutiamo di possibilità e di scenari inediti, però, non tiene conto della possibilità prevista dal decisore politico, ovvero quanto previsto dal terzo comma dell’art. 116 Cost. Vale a dire, perché prevedere questa possibilità se spostare funzioni, competenze e risorse dal centro alla periferia appare pericoloso? Soprattutto per la tenuta stessa della coesione nazionale? 

Il problema, a dire il vero, non è la forma della previsione, ma la sostanza dell’intesa tra Regioni e Governo. Detto altrimenti, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle possibilità previste dal comma terzo dell’art. 116 Cost., ma nessun Governo sarebbe obbligato ad accettarle tutte. Ed ancora, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle risorse attualmente erogate per svolgere queste funzioni a livello centrale o concorrente, ma in alcun caso il Governo è automaticamente costretto a cedere. 

Il problema, come si vede, è più di levatura morale degli attuali decisori politici che di tenuta democratica del sistema nel suo complesso, e rimanda, pur con una pluralità di livelli diversi, alla dicotomia tra forte e debole, tra attori istituzionali e decisori politici, dai territori economici alla redistribuzione della ricchezza, etc.


Apriamo, infine, una piccola parentesi sulla cornice di equità di un simile progetto.


Non si tratta, a ben vedere, di astratte ed altissime questioni morali, anche se in realtà la maggiore o minore prossimità di queste ultime alle situazioni reali dipende dall’ingegno che le declina in concreto e non da loro stesse. Si tratta, invece, di vere e proprie questioni di giustizia materiale, o, se si preferisce, sostanziale. Come asserisce Martha Nussbaum, ad esempio, «i doveri di giustizia sono molto rigidi e richiedono alti standard morali di tutti gli attori nel loro agire» (Nussbaum, Giustizia e aiuto materiale, p. 11). Per poter declinare in concreto cornici teoriche di riferimento ci vorrebbero decisori politici di grande statura, e questi, purtroppo, al momento mancano. Ma se a prendere le decisioni sono piccoli personaggi politici, ecco che le questioni di giustizia potrebbero venir eluse, con grave danno per l’intera collettività.


Da ultimo, certe realizzazioni concrete dell’ideale di giustizia vengono giustificate in nome di un tecnicismo politico avalutativo, vale a dire neutro rispetto alle medesime finalità cui mette capo. Questa sorta di avalutatività ruota intorno al frainteso concetto di diritto: non il diritto dei soggetti, ma l’oggettività materiale di leggi, codici, norme … Questo modo di procedere, oltre che ideologico, e per preciso calcolo politico, sul quale non entriamo, un po’ per pudore e un po’ per non fare il loro gioco, manca di considerare o di dichiarare che la legge «è un districarsi difficile e impegnativo nel ragionevole compito di trovare le strade per smussare i contrasti, promuovere la convivenza, impedire le prevaricazioni, assicurare a ciascuno, nella vita comune, una parte non mortificata» (Zagrebelsky, La virtù del dubbio, p. 51). Non una legge assoluta, e, per ciò stesso, vera, oltre che giusta, ma un diritto mite, «strumento di convivenza delle diversità» (Ivi, p. 50). Ma in questa presunta neutralità materiale del diritto, i suoi sostenitori innalzano un Moloch unico al cui altare sacrificare ogni differenza, ogni diversità, costituendo un unico diritto per tutti e per nessuno.

E la giustizia? Già, dov’è finita? Far parti eguali tra diseguali non è equo. Se il diritto ad una dimensione considera tutti su un piano di eguaglianza, sia pure solamente formale, non tiene conto, per come dovrebbe invece, di tutta una serie di «diseguaglianze che sorgono dalle abilità produttive, dai bisogni e altre variabili personali» (Sen, La diseguaglianza, p. 169). Detto altrimenti, nessuno nasce in parità con gli altri. Ognuno nasce all’interno di una rete di diversità, economica, culturale, sociale. Questa diversità influenza pesantemente la posteriore esistenza del soggetto, in positivo ma anche in negativo, con tutte le ricadute del caso riguardo a libertà personale, capacità lavorativa e benessere esistenziale complessivo. Dire che siamo liberi non ci rende affatto liberi se poi vi sono difficoltà materiali all’esercizio effettivo di detta libertà.

Inoltre, istituzioni che si limitano a declamare avalutativamente l’eguaglianza formale o la libertà teorica delle persone, rendono un buon servizio alla giustizia? Ovviamente, no. E questo la dice lunga sulla vocazione progressista o umana di coloro che esaltano la natura tecnica del diritto e delle legge. 


Al contrario, così come la libertà umana non esiste nella sola concezione astratta, ma, al contrario, ha bisogno di condizioni materiali di effettivo esercizio, per poter esistere non di per sé, ma al servizio di attori sociali umani concreti, le istituzioni come intendono promuovere la giustizia? Rammentiamo che il costituzionalista ha ben inteso questo compito nei due paragrafi dell’art. 3 Cost., un illustre sconosciuto ai novelli costituzionalisti degli ultimi decenni. Ci dice ancora una volta Sen, non a caso ideatore di un approccio alle capacità come declinazione concreta delle esigenze di giustizia, «dobbiamo anche riflettere su come le istituzioni dovrebbero essere regolate qui e ora, in modo da promuovere la giustizia favorendo la libertà e il benessere di coloro che vivono oggi, e che domani non ci saranno più» (Sen, L’idea di giustizia, p. 92). Come potrebbe conciliarsi un’autonomia differenziata con il compito costituzionale della rimozione delle cause materiali dell’ingiustizia? Oppure, peggio, come potrebbe accettarsi una ripartizione delle risorse economiche che rendesse impossibile la rimozione di dette cause in alcuni territori? O, ancora, come sarebbe possibile garantire standard anche minimi di servizi alla collettività con una dotazione finanziaria anche inferiore a quella attuale? Ma, e allargando ulteriormente il focus, come si potrebbe ancora parlare di redistribuzione della ricchezza se questa rimane su alcuni territori?


Sembra quasi, che noi si viaggi sulle spalle di nani, i quali soffrono di un particolare disturbo visivo in forza del quale il molto piccolo, e particolare, ha sostituito tutto il resto. Una caratteristica inversione del rapporto hegeliano tra le parti e il Tutto, indicativa della loro levatura politica.



(url: http://www.affaritaliani.it/static/upl2018_restyle/vies/viesti-secessione10.jpg)

Indice degli articoli relativi all'autonomia differenziata e ai suoi problemi (qui)

venerdì 1 marzo 2019

Sulle spalle dei nani #2

Sulle spalle dei nani #2
Una lettura della cosiddetta autonomia differenziata

Ha sicuramente ragione Gianni Ferrara quando scrive che ogni Costituzione ha una sua storia, e, quindi, una precisa origine storica dei suoi principi (Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, p. 12). E, nel nostro caso, il background dei costituenti è sicuramente l’esperienza fascista. Tuttavia, non è affatto detto che una tendenza generale debba per forza valere come evoluzione necessaria. Infatti, la stessa L. Cost. n. 3 del 2001 è debitrice nei confronti delle varie bozze e proposte di revisione costituzionale discusse dalla Commissione bicamerale D’Alema nel 1997, ovvero in una temperie culturale ben precisa. La riforma, pertanto, appare oggi “vecchia” dal momento che i bisogni avvertiti e le condizioni di loro effettiva realizzazione sono profondamente diversi. Ne consegue che lo stesso impegno a garantire condizioni eque di realizzazione personale assume un profilo decisamente eterogeneo.
Inoltre sembra che abbia ragione De Monticelli quando scrive che «il sentimento fondamentale è un disprezzo per il proprio prossimo che oscilla fra gli estremi dell’indulgenza e del rancore, propendendo decisamente per quest’ultimo, con un’ossessiva insistenza sul sospetto, la paura e la vendetta, apparentemente gli unici motori della storia» (De Monticelli, La questione morale, p. 34).
L’atavico vizio italico alle mancate virtù civiche presenta adesso la sua evoluzione, ovvero una strutturale incapacità a coagulare interessi privati al fine di produrre valore comune. Se Lanaro, nella sua monumentale storia dell’Italia repubblica, lamenta questa scissione tra pubblico e privato, tra Paese legale e Paese reale S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, p. 477 e sg.), è sicuramente la De Monticelli ad offrirci la diagnosi più evoluta e prossima al fenomeno osservato: «siamo un paese con troppi individui non formati […] una parte troppo grande delle persone, in questo Paese, non è mai uscita veramente dalla sua famiglia, ristretta o allargata. La nostra società civile è fatta di personalità fragilissime dal punto di vista dell’assunzione di responsabilità individuali […] Quando i partiti di massa novecenteschi sono finiti, questa immaturità è venuta alla luce» (De Monticelli, op. cit., p. 57).

Questo è puntualmente il caso della cosiddetta autonomia differenziata, ovvero la possibilità, contemplata dall’art. 116 Cost., di poter attribuire maggiori competenze e poteri alle regioni, tramite legge dello Stato, nelle materie “di cui al terzo comma dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s)”, nel rispetto dei principi stabiliti dall’art. 119 Cost. Questi ultimi stabiliscono l’autonomia finanziaria degli enti locali.
In questo modo, i precedenti principi del decentramento e dell’autonomia hanno istituito un preciso regime che prevede sia entrate dirette delle regioni sia compartecipazioni alle entrate statali per la parte che riguarda un preciso territorio. In altri termini, l’art. 119 amplia le possibilità finanziarie degli enti locali, ma ne perimetra i confini. Secondo la dottrina costituzionale questi integrano i limiti statuiti dagli artt. 23 e 53 Cost. Il primo stabilisce una riserva di legge riguardo all’imposizione di prestazioni personali e patrimoniali nei confronti del cittadino. Il secondo invece stabilisce che tutti i cittadini e gli stranieri con interessi economici in Italia hanno il dovere di contribuire alle spese dello Stato mediante prelievi fiscali, in ragione della capacità contributiva di ciascuno e secondo criteri di progressività.


Alla luce di questa cornice generale, decliniamo in concreto la questione recentissima delle proposte di autonomia differenziata avanzate da alcune regioni. Queste ultime, forti di una precedente consultazione referendaria locale, hanno richiesto allo Stato un aumento di poteri e competenze a livello locale, segnatamente quelli relativi al terzo comma dell’art. 117 Cost. e quelli relativi alle lettere l), n) ed s).

Tralasciamo il fatto che il Governo non abbia recepito tutte le richieste motivate da parte delle regioni ed analizziamo, senza pregiudizi la questione, pur non potendo entrare nel dettaglio.
L’art. 117 Cost. elenca le materie relativa alla competenza legislativa nazionale, alla competenza legislativa regionale, alla competenza legislativa concorrente, nonché la riserva di legge di sola pertinenza regionale, quest’ultima formulata in termini residuali rispetto a quanto espressamente previsto dalla legge. Le materie di cui alle lettere l), n) ed s) sono le seguenti: giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. Invece, le competenze di cui al terzo comma del medesimo articolo sono le seguenti:

rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. 


Come si vede si tratta di parti importanti dell’azione di uno Stato.



(continua)


(url: http://maurobiani.it/wp-content/uploads/2019/02/autonomia-ricca.png)

lunedì 15 maggio 2017

Niente di grave ...

Mi piace Pezzali!

Non per il tono giovanile ed immaturo delle sue canzoni, ma per l'autoironia e per la bonaria etica di provincia. Ecco, non appena di svegli, gli incubi si dissolvono ... e nulla di grave potrà capitarti, nonostante tutto!

Non c'è altro da aggiungere, nei tempi bui che esperiamo, lungo il sentiero che conduce alla speranza!






Non ricordo molto
Di quand’ero piccolo ma
Mi ricordo che
Ero spesso felice


Mi bastava un niente
Mi bastava tanto cosi
Un amico e un raggio
Di sole in cortile


Guerre di soldati e supereroi
Che non morivano mai
Ed i buoni sempre poi
Vincevano


E per tutti i piccoli e grandi guai
Con me c’erano i miei
E la domenica
Non lavoravano


Niente di grave
Tutto si aggiusterà
Niente di grave
Mai ti succederà


Ed i brutti sogni che sognerai
Vedrai dimenticherai
Se scendi dal letto
Poi scompaiono


Ed i sogni belli che sognerai
Vedrai li realizzerai
Perchè poi ogni giorno
Ti accompagnano


Rido di nascosto
Per le strane facce che fai
Mentre giochi e pensi
Che non stia guardando


Come osservi il mondo
Come impari quello che sai
E diventi sempre
Più grande ogni giorno


Tanto poi i soldati e supereroi
Si sa non cambiano mai
E nei giochi i buoni
Sempre vincono


E con ogni mostro che affronterai
Da solo non sarai mai
Mi han mandato apposta
Per sconfiggerlo


Niente di grave
Tutto si aggiusterà
Niente di grave
Mai ti succederà


Ed i sogni brutti che sognerai
Vedrai dimenticherai
Se scendi dal letto
Poi scompaiono


Ed i sogni belli che sognerai
Vedrai li realizzerai
Perchè poi ogni giorno
Ti accompagnano


Niente di grave
Tutto si aggiusterà
Niente di grave
Mai ti succederà
Niente di grave

domenica 5 febbraio 2017

mercoledì 1 febbraio 2017

Autocitazione #6

Una pubblicazione ...



Url: https://www.academia.edu/26927200/La_colpa_nella_discussione_post_Shoah

giovedì 1 settembre 2016

Pensiero pratico

"il pensiero pratico è pensiero sul mondo […] Pensiamo praticamente quando emettiamo ordini e comandi e quando prendiamo decisioni. In tal modo, il pensiero pratico include il pensiero non pratico in quanto implica la conoscenza dell’ambiente e delle circostanze in cui operiamo"

(r. poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), “Verifiche”, 4, 1982, p. 465)


(url: https://0.academia-photos.com/3583130/1245389/1554338/s200_roberto.poli.jpg)

giovedì 4 agosto 2016

Inferenze ...

"La regola che un imperativo non può figurare nella conclusione di un’inferenza valida, a meno che non vi sia almeno un imperativo nelle premesse, può trovare conferma in considerazioni logiche generali […] nulla può figurare nella conclusione di un’inferenza deduttiva valida che non sia implicito nella congiunzione delle premesse i forza del loro significato. Di conseguenza, se nella conclusione c’è un imperativo, non solo nelle premesse deve figurare un qualche imperativo, ma deve esservi implicito proprio quell’imperativo"

(R. M. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma, 1968, p. 40)

Parole chiare.

Parole fraintese.

Parole oscure.

Parole misteriose.

Parole oscene.


(url: https://encrypted-tbn1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcR-zZ1-5DOcIpggM0H0Fbf4N6PfVMISp1d_N2j3osTEP7cUk_u8)

lunedì 1 agosto 2016

Nussbaum # 3



“La verifica logica degli argomenti è alla base della cultura politica democratica. La causa per cui in politica ci si fa torto reciprocamente è spesso l’uso di argomentazioni scorrette […] La verifica logica permette di chiarire questi ragionamenti confusi e di smascherare i pregiudizi che si travestono da ragioni. Non servirsi della verifica logica significherebbe rinunciare a uno dei più potenti strumenti che abbiamo per contrastare gli abusi del potere politico. Anche se la logica non ci aiuterà ad amarci di più, potrà comunque impedirci di fingere di essere in possesso di argomentazioni che giustifichino il nostro rifiuto di amare”




M. C. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma, 2006, p. 53




Ritengo che aggiungere altro sarebbe irritante oltre che del tutto superfluo.




Quanto c'era da dire, l'ha già detto la Nostra. 




A noi soltanto una questione, la seguente: se così è, come mai il nostro mondo politico reale è tutto fuorché prossimo al mondo politico ideale?



mercoledì 29 giugno 2016

Nussbaum #1



“L’arte di narrare ha il potere di fornirci la possibilità di accostarci alla vita di chi è diverso da noi con un interesse più profondo di quello di un semplice turista, con comprensione e partecipazione, e arrivando a percepire il grave errore che la nostra società commette rifiutando di considerare le persone nella loro realtà, senza deformazioni”

M. C. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma, 2006, pp. 102 – 103



Nussbaum e l’empatia, ovvero la capacità di immaginarci il prossimo nella sua costitutiva alterità. Solo se siamo capaci di ciò, saremo anche capaci di essere dei soggetti morali.





Era vero per l’età classica, è ancor più vero oggi, durante il multiculturalismo, quando cioè si richiedono empatia, riconoscimento e valorizzazione delle differenze.



venerdì 5 febbraio 2016

Caro sindaco, ma cosa fa il Presidente della Repubblica?



Durante incontro con le istituzioni, sindaco e vice - sindaco, e dopo ampio discorso sulle finalità delle istituzioni locali e sui servizi erogati dal comune, un alunno di terza superiore si propone e chiede al sindaco "ma quanto prende al giorno il presidente della repubblica?" ... 


La tirata è chiaramente qualunquista e inquinata da chissà quali difficoltà familiari, vere o presunte o immaginate che siano, e, a prescindere dal suo essere del tutto fuori luogo in quella occasione, a differenza invece del gradimento mostrato dai miei colleghi, il tutto mi suona del piuttosto sgradevole ...


Da lì parte ovviamente un coro nei confronti delle ingiustizie perpetrate dai rappresentanti del popolo perché "se siamo tutti uguali, perché qualcuno prende 1000 mentre altri prendono 100?". Un coro che ricorda la pubblica piazza oppure la curva di uno stadio o ancora qualche forum virtuale ... il risultato è lo stesso: anziché chiedere conto in sede locale di servizi non funzionanti o mal erogati, si è corsi verso i massimi sistemi, e il gregge si è subito e voluttuosamente accodato!


Qualcosa non torna, però, qualcosa di sinistro, qualcosa di decadente, qualcosa di irrimediabile, qualcosa di inguaribile e che attiene al perverso intreccio di invidia - narcisismo che si atteggia a moralismo (di bassa lega) di massa... 


Poi pensi che tra non molto questo studente, come tutti i suoi coetanei, voterà ed allora capisci che il tuo posto nel mondo è una casetta tutta rossa isolata in qualche fiordo norvegese ... 









(url: http://www.mondointasca.org/wp-content/uploads/2015/06/fiordo.jpg)


venerdì 15 agosto 2014

Aporie del pensiero morale



"Normalmente, uno stato di cose permesso non è anche obbligatorio, ma il suo stato contraddittorio è pure permesso. Un legislatore può forse sperare o desiderare che i suoi sudditi non si avvalgano mai di un permesso che egli ha concesso, cioè può sperare che uno stato di cose permesso non sussista mai […] Ma se fosse del tutto impossibile che questo stato sussistesse, il fatto che fosse stato permesso, sarebbe soltanto uno «scherzo». Sarebbe un «permesso-burla». È perciò una richiesta del tutto ragionevole e razionale – da parte dei soggetti normativi se non da parte dell’autorità normativa – che stati di cose permessi possano qualche volta sussistere. Se uno stato e il suo contraddittorio sono entrambi permessi, essi non possono entrambi sussistere sempre – e tuttavia non c’è alcunché di irrazionale circa il fatto che sia permesso che entrambi sussistano"


(G. H. von WrightNorme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, p. 17)



Cos'è il permesso?



Quando il permesso è razionale?



Sino a che punto è valido nell'ipotesi che il legislatore sia un pazzo o un burlone?



Questioni inevase del pensiero morale, tante suggestioni, poche le proposte operative.


(url immagine: http://svenska.yle.fi/arkivet/kuvat/2011/id58063-previewImage-58052-50.jpg)

martedì 17 giugno 2014

Umanità ...



Giunge la solita triste storia di "nera", bella pronta per il consumo estivo ...


Stavolta si tratta di un triplice omicidio da parte di un uomo che, a quanto pare, improvvisamente decide di sterminare la propria famiglia ...


Ovviamente, com'è costume della comunicazione massmediatica, si comincia ad indugiare sui dettagli, sui particolari, con uno scavo quasi compulsivo nelle minuzie, con immagini e sequenze spinte fuori dallo schermo, e più sono insignificanti nell'economia generale del fatto tanto meglio ...


Ecco, vorrei svolgere alcune brevissime considerazioni, spero non scontate, senza, però, indugiare nel pettegolezzo o nella banalità liquida della comunicazione mediatica.


I mass - media ci hanno confezionato l'ennesimo boccone avvelenato: non si capisce più dove sia il fatto, che viene narrato, peraltro in modo molto incidentale, e dove l'interpretazione dello stesso, che il giornalista, o chi per lui, ci narra, con la conseguenza che siamo bombardati da dati e informazioni generanti sazietà cognitiva ma non conoscenza. Insomma, dopo ore e ore di esposizione mediatica, non ne sappiamo poi molto ...


Su questa mancata conoscenza, però, su questa oscena versione estesa del pettegolezzo da ombrellone sotto il solleone, ci viene imposta anche la valutazione etica: questo criminale ha ucciso, con scienza e coscienza, la moglie, la figlia di cinque anni e perfino il figlio di venti mesi ...


Senza poter conoscere adeguatamente i fatti, la coscienza morale comune, o, per meglio dire, la conformazione etica collettiva, ci obbliga a prendere posizione, a deciderci, cioè, per l'unica valutazione morale possibile: la condanna!


Già, ma la condanna di cosa? O, per meglio dire, la condanna per che cosa?



E mentre su internet, e sui social, abbondano i post di sdegno e di invettiva di tanti giustizieri da tastiera, o, per meglio dire, e come mi piace sottolineare, dell'anonimo giustizialista che si cela dietro lo sguardo assente di un monitor e che come tutti coloro che vivono di assoluti, e di dommi, non ammette né eccezioni né obiezioni alla propria "legge", di veri e propri ignoranti della cultura giuridica, peraltro a norma di legge, i quai urlano di dargli la pena di morte o la tortura, e tanto già basterebbe a darci riprova del livello infimo di civiltà che dimoriamo, mi chiedo umilmente, e fuori dal coro: lui pagherà, questo è certo, ma fargliela pagare compensa forse il nostro bisogno di protezione sociale? Appaga, forse, il nostro smodato desiderio di viscere? Consola, forse, la nostra insicurezza? E, soprattutto, ripaga in toto la nostra sete di giustizia morale?


Temo di no. Ed è normale che sia così, sta nell'economia della cose. Tuttavia, mi incuriosisce questo atteggiamento di purificazione pubblica, di espiazione tramite retorica pubblica di colpe, probabilmente inconsce o non ancora giunte alla soglia di coscienza, e che forse non diverranno mai consapevoli.



Come il capro espiatorio, come la vittima sacrificale, che si faceva carico delle colpe di tutta la comunità, stiamo forse cercando di caricare sopra le spalle del reo anche le nostre colpe? Anche le nostre frustrazioni? Anche le nostre umane debolezze? Anche, e soprattutto, le nostre insicurezze?


Perché ha fatto quel che ha fatto? Nessuno lo sa, e nessuno può saperlo. Probabilmente, nemmeno il diretto responsabile. Ma non è questa la domanda che dovremmo porci, anche perché è la più lontana dall'indicazione di un nostro limite, quanto piuttosto la seguente: ma cosa abbiamo fatto, in termini di società, di cultura umana, e di pubblica sicurezza, per prevenire tale crimine?


Ecco il punto saliente, e dolente, della vicenda: non è per il tramite della punizione del singolo reo che possiamo smacchiare la comune coscienza morale malata ...



Non è sacrificando un singolo che possiamo esorcizzare, e definitivamente, da noi il rischio di tramutarci a nostra volta nelle sembianze del medesimo mostro ...



La storia è copiosa di esempi di persone apparentemente normali, del tutto ordinarie, banali nelle loro esistenze umane, che, improvvisamente, assumono la maschera del mostro ...



Questo significa, a mio modesto avviso, una sola cosa: nella difficoltà di comprendere ed accettare quel che è successo, diveniamo consapevoli della fragilità che, in quanto esseri umani, ci caratterizza ...

... e, di conseguenza, dovremmo spingerci non al giudizio facile, ma alla considerazione meditata dei limiti della nostra condizione umana.





(url immagine: http://thumbs.dreamstime.com/z/bussola-morale-20858522.jpg)




martedì 9 luglio 2013

Equivoci ...

"Filosofi morali e giuristi sembrano essere i clienti naturali del logico deontico. E, tuttavia, non sembra che si siano stabiliti buoni rapporti né con gli uni, né con gli altri. Colpa del venditore, probabilmente, che non sa presentare bene la merce. In realtà, molte cose possono aver contribuito a creare e a diffondere l’impressione che la logica deontica è irrilevante per l’etica e per il diritto. Se è così, si tratta di un’impressione sfortunata, perché ci sono parecchie questioni in logica deontica che riguardano, direttamente o indirettamente, la filosofia morale e la filosofia del diritto"


(A. Artosi, Il paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000, p. 7)


Buone intenzioni non equivalgono automaticamente a buoni risultati.


Questo il caso, davvero emblematico, della logica deontica, il luogo terzo onde poter avvicinare i reami distinti della logica, da un lato, e del diritto, dall'altro lato.


Ma l'incontro desiderato non è mai avvenuto.


O, se si preferisce, può dirsi piuttosto che di incontri ne sono avvenuti parecchi lungo il XX secolo, ma l'unione non s'è mai consumata.


Per problemi di compatibilità, si vocifera ...


Per errati presupposti reciproci, a parer mio.


In ogni caso, per il pregiudizio complessivo secondo il quale la logica deontica potesse davvero formalizzare gli specifici contenuti morali degli enunciati normativi.


La logica può render conto, entro limiti strettissimi, della consequenzialità dei ragionamenti normativi, ma mai dire qualcosa intorno agli specifici contenuti valutativi degli enunciati delle norme.


Perdere di vista il limite semiotico della logica deontica, ha condotto a siffatti equivoci, dimenticando come la logica possa solamente rendere giustificabile le nostre intuizioni morali, mai dimostrarle more geometico!


La logica deontica riguarda davvero la morale o il diritto, ma non nella maniera sin qui erroneamente desiderata e/o creduta ...

giovedì 18 aprile 2013

Scarpelli e l'etica senza verità!

"il problema fondamentale della filosofia morale contemporanea è il problema della distinzione e dei rapporti tra le proposizioni descrittive (vertenti su fatti) e le proposizioni direttive (prescriventi comportamenti, assegnanti valori a comportamenti e cose): come si dice nella filosofia di lingua inglese, la is-ought question"

(U. Scarpelli, Introduzione, a: F. E. Oppenheim, Etica e filosofia politica, Bologna, Il Mulino, 1971, p. viii)

Scarpelli riepiloga un must della filosofia analitica in materia morale, mettendo in luce la ben nota distinzione tra le proposizioni apofantiche, per come le chiamerebbe il buon Aristotele, quelle cioé che hanno ad oggetto le cose reali e la cui funzione è per l'appunto quella di descrivere queste ultime, e le proposizioni prescrittive, le quali hanno ad oggetto la prescrizione di ben determinati stati di cose e la cui funzione è per l'appunto dirigere il comportamento umano.


Solo mi chiedo: è ancora vitale tale distinzione? O non è possibile intravedere ulteriori sentieri? Diverse modalità di sistemazione dei rapporti tra le prime e le seconde? E tra la prima e la seconda funzione del linguaggio umano?

Come altre questioni, anche la presente interroga l'oscurità, brancola nel buio, non dell'ignoto, ma del non ancora illuminato.

giovedì 11 aprile 2013

L'etica senza verità ...



"dalla prospettiva logica vediamo che i valori e le norme etiche sono proposte […] e non proposizioni indicative. L'etica non descrive; essa prescrive. L'etica non spiega; essa valuta. Difatti: non esistono spiegazioni etiche, esistono solo spiegazioni scientifiche. Esistono spiegazioni scientifiche e valutazioni etiche. Né si danno previsioni etiche (o estetiche). L'etica non sa. L'etica non è scienza. L'etica è senza verità. La scienza non produce (non produce logicamente) etica. Dalle proposizioni descrittive non è possibile dedurre asserti prescrittivi. Dall'intera scienza non è possibile spremere un grammo di morale. La “grande divisione” tra fatti e valori – la cosiddetta legge di Hume – ci dice che dall'”è” non deriva il “deve”, dall'”essere” non si deduce il “dover essere” […] La scienza sa; l'etica valuta. L'etica non sa; la scienza non valuta. I fatti non sono valori. Le norme non si riducono a fatti"

(Antiseri D. (2001), La conoscenza filosofica, in Reale G. - Antiseri D., Quale ragione?, Milano, Raffaello Cortina, p. 137)


Antiseri riassume i termini estremi del Dilemma di Joergensen: se la logica trova applicazione esclusivamente alle inferenze con proposizioni indicative, o descrittive, ossia le proposizioni conoscitive, mentre l'etica ha a che fare con proposizioni valutative, o normative, ossia le proposizioni pratiche, è possibile prendere in considerazione inferenze con proposizioni non indicative? 


Se da un lato ciò appare quanto meno dubbio, stante la separazione suddetta tra scienza e morale, tra conoscenza e valutazione, tra logica ed etica, tra le proposizioni dell'una, indicative, e le proposizioni, prescrittive, dell'altra parte, come si devono pensare i termini del problema sollevato da Jørgesens


Dobbiamo pensarla ancora come Poincaré oppure sono possibili (valide) alternative?


E se la logica trova comunque applicazione alle proposizioni morali, e corrispondenti ragionamenti, possiamo andare oltre la limitazione alle cosiddette inferenze miste?


La questione, a mio modesto modo di vedere, non solo è ancora aperta, ma ancora tutta da affrontare.



(immagine tratta da: http://www.gramma.it/sussidiario/grafi/img_grafi/grafo_inferenze.gif)

martedì 9 aprile 2013

Inferenze miste ...



"La regola che un imperativo non può figurare nella conclusione di un’inferenza valida, a meno che non vi sia almeno un imperativo nelle premesse, può trovare conferma in considerazioni logiche generali […] nulla può figurare nella conclusione di un’inferenza deduttiva valida che non sia implicito nella congiunzione delle premesse i forza del loro significato. Di conseguenza, se nella conclusione c’è un imperativo, non solo nelle premesse deve figurare un qualche imperativo, ma deve esservi implicito proprio quell’imperativo […] Il lavoro di Wittgenstein e di altri ha largamente chiarito le ragioni per cui è impossibile fare questo. È stato argomentato, e persuasivamente a nostro avviso, che ogni inferenza deduttiva ha carattere analitico; vale a dire, che la funzione di un’inferenza deduttiva non è di ricavare dalle premesse ‘qualcosa di ulteriore’ in esse non implicito […], ma di rendere esplicito ciò che era implicito nella congiunzione delle premesse"




(R. M. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma, 1968, p. 40)




Una pagina che resta un classico della letteratura analitica sulla teoria morale.




Resta, però, l'interrogativo di fondo: è ancora attuale?




Si badi, per 'attuale' non intendo qualcosa come 'di moda', o 'in voga', ma qualcosa come 'ancora sensato'.




Hare si rifà a Wittgenstein il quale, a sua volta, si rifaceva ai classici del neopositivismo (o era il contrario?) ... 


.... noi possiamo ancora appoggiarci ad Hare? O è giunto il momento di uscire dal suo sentiero ed arrischiare sentieri nuovi?




In breve, e a conclusione della presente ardita riflessione "a voce alta", possiamo finalmente dare luogo ad inferenze miste?


E in caso affermativo, avrebbe ancora senso porle in contrapposizione alle inferenze deduttive? 


Ed ancora, dove starebbe pertanto la differenza, se ha ancora senso porla, con le deduzioni logiche?


L'acqua dello stagno sembra immobile, in realtà, appena sotto il pelo dell'acqua, v'è un brulicare di vita e di fermentazioni.





(immagine tratta da: http://lgxserver.uniba.it/lei/filosofi/immagini/autori/hare.jpg)