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venerdì 8 marzo 2019

Sulle spalle dei nani #3




Sulle spalle dei nani #3


Una lettura della cosiddetta autonomia differenziata

Cosa significa, allora, una maggiore autonomia? Siccome quest’ultima è richiesta da alcune regioni, si configurerebbe una situazione ove alcune regioni trattengono sul proprio territorio funzioni rilevanti, oltre che qualificanti, dell’azione propria di uno Stato, mentre tutte le altre, almeno allo stato attuale o in un primo periodo, manterrebbero l’attuale separazione di ruoli, competenze e funzioni tra Stato centrale e Regioni. 


Questo, in assenza di una cornice unica nazionale in merito ai livelli standard di prestazioni al cittadino da erogare sull’intero territorio nazionale, suscita già alcune perplessità e certo non pochi timori in merito all’eccessiva frammentazione locale dell’azione propria di uno Stato. Non per nulla si fa notare infatti come, nella retorica pubblica, si contrapponga uno Stato centrale, inefficiente ed iniquo, a Regioni, efficienti ed eque. In realtà, quel che si rimprovera allo Stato, segnatamente la sua centralità burocratica, può benissimo venir rimproverato alle regioni, ree di volere costituire, a livello locale, la medesima centralità che desiderano sottrarre allo Stato.

Comunque, a nulla valgono premesse come “nell’ambito unitario del sistema nazionale”, ed affini. Ma entriamo nello specifico. Le regioni in questione non si accontentano di nuovi poteri, chiedono anche nuovi finanziamenti. E qui i timori diventano ampi. Infatti, pur nei complessi meccanismi di calcolo, a processo approvato dal Parlamento, nei termini di legge dello Stato che ratifica l’intesa tra le regioni interessate e il Governo, emerge che lo Stato dovrebbe trasferire alle regioni la correlativa spesa, calcolata sul fabbisogno storico di queste ultime. Con l’aggiunta, certo non trascurabile, di ogni qualsiasi nuova entrata tributaria che in futuro potrebbe verificarsi. In altri termini, l’eventuale posteriore extragettito resterebbe sul territorio e verrebbe gestito direttamente dalle regioni medesime. 



E qui cominciano i problemi. Infatti, ciò equivarrebbe a consentire a queste regioni, le più ricche del Paese, di trattenere approssimativamente qualcosa come il 90% delle entrate fiscali attuali, pur in regime di compartecipazione tra Stato e regioni, nonché ogni futuro incremento nella misura del 100% del totale. Ma dette regioni contribuiscono alle entrate fiscali di tutto lo Stato. Ne consegue, pertanto, che, a regime, la quota complessiva dei finanziamenti centrali ai territori più depressi dovrebbe giocoforza diminuire. Non a caso, in molti hanno visto nella richiesta di maggiore autonomia una sorta di “secessione dei ricchi”, e sotto un certo aspetto, non può dirsi che abbiano torto. 


Altri ancora hanno ravvisato il concreto rischio di una “morte dello Stato”. Quest’ultima ipotesi, pur nebulosa dato che discutiamo di possibilità e di scenari inediti, però, non tiene conto della possibilità prevista dal decisore politico, ovvero quanto previsto dal terzo comma dell’art. 116 Cost. Vale a dire, perché prevedere questa possibilità se spostare funzioni, competenze e risorse dal centro alla periferia appare pericoloso? Soprattutto per la tenuta stessa della coesione nazionale? 

Il problema, a dire il vero, non è la forma della previsione, ma la sostanza dell’intesa tra Regioni e Governo. Detto altrimenti, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle possibilità previste dal comma terzo dell’art. 116 Cost., ma nessun Governo sarebbe obbligato ad accettarle tutte. Ed ancora, una regione potrebbe pure chiedere il 100% delle risorse attualmente erogate per svolgere queste funzioni a livello centrale o concorrente, ma in alcun caso il Governo è automaticamente costretto a cedere. 

Il problema, come si vede, è più di levatura morale degli attuali decisori politici che di tenuta democratica del sistema nel suo complesso, e rimanda, pur con una pluralità di livelli diversi, alla dicotomia tra forte e debole, tra attori istituzionali e decisori politici, dai territori economici alla redistribuzione della ricchezza, etc.


Apriamo, infine, una piccola parentesi sulla cornice di equità di un simile progetto.


Non si tratta, a ben vedere, di astratte ed altissime questioni morali, anche se in realtà la maggiore o minore prossimità di queste ultime alle situazioni reali dipende dall’ingegno che le declina in concreto e non da loro stesse. Si tratta, invece, di vere e proprie questioni di giustizia materiale, o, se si preferisce, sostanziale. Come asserisce Martha Nussbaum, ad esempio, «i doveri di giustizia sono molto rigidi e richiedono alti standard morali di tutti gli attori nel loro agire» (Nussbaum, Giustizia e aiuto materiale, p. 11). Per poter declinare in concreto cornici teoriche di riferimento ci vorrebbero decisori politici di grande statura, e questi, purtroppo, al momento mancano. Ma se a prendere le decisioni sono piccoli personaggi politici, ecco che le questioni di giustizia potrebbero venir eluse, con grave danno per l’intera collettività.


Da ultimo, certe realizzazioni concrete dell’ideale di giustizia vengono giustificate in nome di un tecnicismo politico avalutativo, vale a dire neutro rispetto alle medesime finalità cui mette capo. Questa sorta di avalutatività ruota intorno al frainteso concetto di diritto: non il diritto dei soggetti, ma l’oggettività materiale di leggi, codici, norme … Questo modo di procedere, oltre che ideologico, e per preciso calcolo politico, sul quale non entriamo, un po’ per pudore e un po’ per non fare il loro gioco, manca di considerare o di dichiarare che la legge «è un districarsi difficile e impegnativo nel ragionevole compito di trovare le strade per smussare i contrasti, promuovere la convivenza, impedire le prevaricazioni, assicurare a ciascuno, nella vita comune, una parte non mortificata» (Zagrebelsky, La virtù del dubbio, p. 51). Non una legge assoluta, e, per ciò stesso, vera, oltre che giusta, ma un diritto mite, «strumento di convivenza delle diversità» (Ivi, p. 50). Ma in questa presunta neutralità materiale del diritto, i suoi sostenitori innalzano un Moloch unico al cui altare sacrificare ogni differenza, ogni diversità, costituendo un unico diritto per tutti e per nessuno.

E la giustizia? Già, dov’è finita? Far parti eguali tra diseguali non è equo. Se il diritto ad una dimensione considera tutti su un piano di eguaglianza, sia pure solamente formale, non tiene conto, per come dovrebbe invece, di tutta una serie di «diseguaglianze che sorgono dalle abilità produttive, dai bisogni e altre variabili personali» (Sen, La diseguaglianza, p. 169). Detto altrimenti, nessuno nasce in parità con gli altri. Ognuno nasce all’interno di una rete di diversità, economica, culturale, sociale. Questa diversità influenza pesantemente la posteriore esistenza del soggetto, in positivo ma anche in negativo, con tutte le ricadute del caso riguardo a libertà personale, capacità lavorativa e benessere esistenziale complessivo. Dire che siamo liberi non ci rende affatto liberi se poi vi sono difficoltà materiali all’esercizio effettivo di detta libertà.

Inoltre, istituzioni che si limitano a declamare avalutativamente l’eguaglianza formale o la libertà teorica delle persone, rendono un buon servizio alla giustizia? Ovviamente, no. E questo la dice lunga sulla vocazione progressista o umana di coloro che esaltano la natura tecnica del diritto e delle legge. 


Al contrario, così come la libertà umana non esiste nella sola concezione astratta, ma, al contrario, ha bisogno di condizioni materiali di effettivo esercizio, per poter esistere non di per sé, ma al servizio di attori sociali umani concreti, le istituzioni come intendono promuovere la giustizia? Rammentiamo che il costituzionalista ha ben inteso questo compito nei due paragrafi dell’art. 3 Cost., un illustre sconosciuto ai novelli costituzionalisti degli ultimi decenni. Ci dice ancora una volta Sen, non a caso ideatore di un approccio alle capacità come declinazione concreta delle esigenze di giustizia, «dobbiamo anche riflettere su come le istituzioni dovrebbero essere regolate qui e ora, in modo da promuovere la giustizia favorendo la libertà e il benessere di coloro che vivono oggi, e che domani non ci saranno più» (Sen, L’idea di giustizia, p. 92). Come potrebbe conciliarsi un’autonomia differenziata con il compito costituzionale della rimozione delle cause materiali dell’ingiustizia? Oppure, peggio, come potrebbe accettarsi una ripartizione delle risorse economiche che rendesse impossibile la rimozione di dette cause in alcuni territori? O, ancora, come sarebbe possibile garantire standard anche minimi di servizi alla collettività con una dotazione finanziaria anche inferiore a quella attuale? Ma, e allargando ulteriormente il focus, come si potrebbe ancora parlare di redistribuzione della ricchezza se questa rimane su alcuni territori?


Sembra quasi, che noi si viaggi sulle spalle di nani, i quali soffrono di un particolare disturbo visivo in forza del quale il molto piccolo, e particolare, ha sostituito tutto il resto. Una caratteristica inversione del rapporto hegeliano tra le parti e il Tutto, indicativa della loro levatura politica.



(url: http://www.affaritaliani.it/static/upl2018_restyle/vies/viesti-secessione10.jpg)

Indice degli articoli relativi all'autonomia differenziata e ai suoi problemi (qui)

venerdì 1 marzo 2019

Sulle spalle dei nani #2

Sulle spalle dei nani #2
Una lettura della cosiddetta autonomia differenziata

Ha sicuramente ragione Gianni Ferrara quando scrive che ogni Costituzione ha una sua storia, e, quindi, una precisa origine storica dei suoi principi (Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, p. 12). E, nel nostro caso, il background dei costituenti è sicuramente l’esperienza fascista. Tuttavia, non è affatto detto che una tendenza generale debba per forza valere come evoluzione necessaria. Infatti, la stessa L. Cost. n. 3 del 2001 è debitrice nei confronti delle varie bozze e proposte di revisione costituzionale discusse dalla Commissione bicamerale D’Alema nel 1997, ovvero in una temperie culturale ben precisa. La riforma, pertanto, appare oggi “vecchia” dal momento che i bisogni avvertiti e le condizioni di loro effettiva realizzazione sono profondamente diversi. Ne consegue che lo stesso impegno a garantire condizioni eque di realizzazione personale assume un profilo decisamente eterogeneo.
Inoltre sembra che abbia ragione De Monticelli quando scrive che «il sentimento fondamentale è un disprezzo per il proprio prossimo che oscilla fra gli estremi dell’indulgenza e del rancore, propendendo decisamente per quest’ultimo, con un’ossessiva insistenza sul sospetto, la paura e la vendetta, apparentemente gli unici motori della storia» (De Monticelli, La questione morale, p. 34).
L’atavico vizio italico alle mancate virtù civiche presenta adesso la sua evoluzione, ovvero una strutturale incapacità a coagulare interessi privati al fine di produrre valore comune. Se Lanaro, nella sua monumentale storia dell’Italia repubblica, lamenta questa scissione tra pubblico e privato, tra Paese legale e Paese reale S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, p. 477 e sg.), è sicuramente la De Monticelli ad offrirci la diagnosi più evoluta e prossima al fenomeno osservato: «siamo un paese con troppi individui non formati […] una parte troppo grande delle persone, in questo Paese, non è mai uscita veramente dalla sua famiglia, ristretta o allargata. La nostra società civile è fatta di personalità fragilissime dal punto di vista dell’assunzione di responsabilità individuali […] Quando i partiti di massa novecenteschi sono finiti, questa immaturità è venuta alla luce» (De Monticelli, op. cit., p. 57).

Questo è puntualmente il caso della cosiddetta autonomia differenziata, ovvero la possibilità, contemplata dall’art. 116 Cost., di poter attribuire maggiori competenze e poteri alle regioni, tramite legge dello Stato, nelle materie “di cui al terzo comma dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s)”, nel rispetto dei principi stabiliti dall’art. 119 Cost. Questi ultimi stabiliscono l’autonomia finanziaria degli enti locali.
In questo modo, i precedenti principi del decentramento e dell’autonomia hanno istituito un preciso regime che prevede sia entrate dirette delle regioni sia compartecipazioni alle entrate statali per la parte che riguarda un preciso territorio. In altri termini, l’art. 119 amplia le possibilità finanziarie degli enti locali, ma ne perimetra i confini. Secondo la dottrina costituzionale questi integrano i limiti statuiti dagli artt. 23 e 53 Cost. Il primo stabilisce una riserva di legge riguardo all’imposizione di prestazioni personali e patrimoniali nei confronti del cittadino. Il secondo invece stabilisce che tutti i cittadini e gli stranieri con interessi economici in Italia hanno il dovere di contribuire alle spese dello Stato mediante prelievi fiscali, in ragione della capacità contributiva di ciascuno e secondo criteri di progressività.


Alla luce di questa cornice generale, decliniamo in concreto la questione recentissima delle proposte di autonomia differenziata avanzate da alcune regioni. Queste ultime, forti di una precedente consultazione referendaria locale, hanno richiesto allo Stato un aumento di poteri e competenze a livello locale, segnatamente quelli relativi al terzo comma dell’art. 117 Cost. e quelli relativi alle lettere l), n) ed s).

Tralasciamo il fatto che il Governo non abbia recepito tutte le richieste motivate da parte delle regioni ed analizziamo, senza pregiudizi la questione, pur non potendo entrare nel dettaglio.
L’art. 117 Cost. elenca le materie relativa alla competenza legislativa nazionale, alla competenza legislativa regionale, alla competenza legislativa concorrente, nonché la riserva di legge di sola pertinenza regionale, quest’ultima formulata in termini residuali rispetto a quanto espressamente previsto dalla legge. Le materie di cui alle lettere l), n) ed s) sono le seguenti: giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. Invece, le competenze di cui al terzo comma del medesimo articolo sono le seguenti:

rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. 


Come si vede si tratta di parti importanti dell’azione di uno Stato.



(continua)


(url: http://maurobiani.it/wp-content/uploads/2019/02/autonomia-ricca.png)

lunedì 25 febbraio 2019

Sulle spalle dei nani #1




Sulle spalle dei nani #1

Una lettura della cosiddetta autonomia differenziata


V’è un trattato fondamentale che istituisce lo Stato italiano, e lo fa combinando due principi, distinti ma relati: 

1) l’unità del Paese, territoriale, istituzionale e burocratica; e, 


2) la sussidiarietà. 

In modo particolare, appaiono rilevanti gli articoli 3 e 5 della Costituzione. Mentre il primo coniuga l’ideale della giustizia nei due sensi, formale e sostanziale, impegnando attivamente lo Stato nella rimozione degli ostacoli materiali al pieno sviluppo personale degli abitanti del territorio nazionale, il secondo recita “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento”. 


Ne consegue, pertanto, che gli impegni assunti dalla Repubblica nella rimozione delle cause della povertà personale dovrebbero passare per un servizio da attuarsi nelle esigenze dell’autonomia e del decentramento. In altri termini, il costituente, già nel 1948, concepiva lo Stato repubblicano nella forma di un attore politico capace di garantire l’uguaglianza sostanziale attraverso la partecipazione, solidale e responsabile, dei territori costituenti la stessa Nazione. D’altro canto, unità e indivisibilità appaiono come concetti distinti, ma non separati, nel qualificare lo Stato. 

Peraltro, nel progetto costituzionale questi due principi in opposizione al precedente regime fascista, ovvero l’idea secondo la quale uno Stato democratico riconosce la pluralità degli enti statuali e la dignità dei territori. 

Ebbene, l’art. 5 Cost. coniuga da un lato il decentramento, dal momento che le autonomie locali espletano un decentramento delle funzioni, e dall’altro l’autonomia dei servizi, dal momento che proprio perché le autonomie locali espletano funzioni il servizio è prossimale ai loro fruitori finali. Ma, come sappiamo, il testo originale è stato revisionato varie volte, pur integrando al proprio interno due clausole che ne rendono difficoltoso, ma certo non impossibile, una sua successiva modifica. La più importante è sicuramente quella avvenuta ad inizio secolo quando, con la L. cost. n. 3 del 2001, il decisore politico ha sostituito il precedente principio del parallelismo, secondo il quale Stato centrale ed autonomie locali esercitavano una loro potestà legislativa, con il seguente, ed attuale, principio della sussidiarietà. L’art. 118 Cost., infatti, come modificato, recita “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell'articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali. Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. 

Per dirla in breve, l’ordinamento italiano configura in termini sussidiari l’azione dei pubblici poteri i quali possono intervenire nel contesto sociale solo se questo intervento comporti maggiore efficienza, nella dissipazione delle necessarie risorse, e maggior efficacia, in riferimento ai risultati dell’azione intrapresa. 

Secondo la dottrina, peraltro, il principio di sussidiarietà è duplice: 

1) verticale: la ripartizione gerarchica dei poteri deve essere spostata verso gli enti più vicini al cittadino; e, 


2) orizzontale: il cittadino, per il tramite dei cosiddetti corpi intermedi, deve poter collaborare con le istituzioni al fine di definire le strategie d’azione che possano incidere sulla realtà sociale a lui prossima. 

La disciplina costituzionale, pertanto, presenta due nuove fattispecie, rilevanti ai presenti fini, vale a dire:

a) la prossimità territoriale, come centro di aggregazione delle forze politiche e burocratiche; e, 

b) la privatizzazione dello spazio pubblico. 

La prima impegna gli sforzi pubblici nel considerare il fruitore finale sul territorio fine e protagonista dell’azione politica o amministrativa. 


Invece, la seconda frammenta lo spazio di elaborazione e decisione delle scelte politiche, ovvero pubbliche, in funzione di privati, più o meno grandi.


(continua)


(url: https://rome.carpe-diem.events/data/afisha/o/3f/73/3f73ed65d4.jpg?1551010064)


venerdì 23 marzo 2018

giovedì 17 novembre 2016

Autonomia salva #2

"Le istituzioni scolastiche sono espressioni di autonomia funzionale e provvedono alla definizione e alla realizzazione dell'offerta formativa, nel rispetto delle funzioni delegate alla Regioni e dei compiti e funzioni trasferiti agli enti locali, ai sensi degli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112. A tal fine interagiscono tra loro e con gli enti locali promuovendo il raccordo e la sintesi tra le esigenze e le potenzialità individuali e gli obiettivi nazionali del sistema di istruzione»

(art. 1 c. 1 D.P.R. n. 275 del 1999)

L'inizio della fine ...



(url: http://www.iltabloid.it/cms/file/BLOG/3430/Bart-lavagna_squola.jpg)

venerdì 3 aprile 2015

Profili della scuola di oggi ... 4

"La scuola viene così vista sotto due aspetti: in primo luogo come organizzazione dello Stato, e, quindi, il capo di istituto è un funzionario dello Stato, è un terminale della gerarchia che dal centro, il Ministero, passa per gli organi periferici (regionali e provinciali) dell’amministrazione, per finire nella scuola. In secondo luogo, la scuola viene vista come formazione sociale, come comunità democratica ‘curata’ da un corpo professionale, gli insegnanti e il capo di istituto, quindi, è il primus inter pares degli educatori. È solo in seguito alla riforma dell’autonomia che il capo di istituto diviene dirigente dello Stato come gli altri dirigenti pubblici"

(R. Serpieri, Senza leadership: la costruzione del dirigente scolastico. Dirigenti e autonomia nella scuola italiana, Franco Angeli, Milano, 2012, pp. 30 – 31)

L'annosa questione degli ultimi decenni: il dirigente scolastico è uno school manager, un capo ufficio, un educatore un po' più in alto di tutti gli altri o solamente un gestore delle risorse umane e materiali concessegli?

Non possiamo saperlo, ne conosciamo, ed esperiamo, sovente nostro malgrado, la discrezionalità operativa e gestionale della sua funzione, certamente di grado superiore alla nostra!



(url immagine: http://www.simulazione.net/wp-content/uploads/2011/03/dirigente_scolastico.jpg)


giovedì 19 marzo 2015

Profili della scuola di oggi ... 2

"L’autonomia delle istituzioni scolastiche, in definitiva, non è un fine, ma una condizione per migliorare la qualità del servizio che si eroga agli alunni, ai docenti, ai genitori. La progettualità della scuola dovrà, allora, rappresentare modalità concrete di avvicinare il luogo dei bisogni a quello delle risposte e l’area dei problemi a quella delle decisioni. Il POF costituisce lo strumento di definizione e di comunicazione di queste istanze"

(N. Capaldo – L. Rondanini, Manuale per dirigenti scolastici. Gestire ed organizzare la scuola, Erickson, Trento, 2011, p. 421)



(url immagine: http://t2.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRmVA2EpJgsq1SlEB1GewecqOno7LOgFYB18mZu5AEx9-ZGOLEt)

Come a dire: il servizio è funzionale ai desiderata della committenza, qualunque essa sia nello specifico ...

giovedì 12 marzo 2015

Profili della scuola di oggi ... 1

"non ha senso, né effettiva possibilità di esistere tale dirigenza scolastica in assenza di autonomia dell’istituzione scolastica alla quale il dirigente è preposto. E, a dire il vero, è, allo stesso modo, arduo pensare di assicurare effettiva autonomia scolastica alle scuole in assenza di dirigenti scolastici"

(G. Mondelli, Dirigere la scuola al tempo della globalizzazione. L’azione del dirigente scolastico nella società della conoscenza, Anicia, Roma, 2012, p. 245)

Come a dire che l'una lava l'altra e tutte e due lavano il viso (del monocrate che siede a capo dell'istituzione).


(url immagine: http://www.retescuole.net/wp-content/uploads/2015/02/capo.jpg)