Lo spauracchio degli ultimi anni per la scuola italiana non è più il taglio nei bilanci, cosa ormai accettata di buon grado, nonostante i suoi devastanti pesi e esistenziali, per chi vi lavora, e strutturali, per la qualità finale del servizio erogato, ma la cosiddetta valutazione (tutta italica) del sistema d'istruzione, e che passa attraverso i famigerati test Invalsi.
Non m'importa qui il merito della questione né tantomeno argomentare pro o contra gli stessi: m'interessa solamente aggiungere alla discussione una semplice indicazione, peraltro di assoluta banalità.
Leggo di passaggio in un recente testo di Viesti:
"Un insegnante di un liceo milanese frequentato dalla borghesia più agiata ha studenti che raggiungono risultati elevati, ma non è necessariamente più bravo di un insegnante che nell'hinterland napoletano lotta giorno dopo giorno per dare una formazione decente ai suoi ragazzi"[1]
E' una considerazione oserei dire ovvia dal momento che sussistono sul territorio delle differenze socioculturali difficilmente oscurabili. Una famiglia dove non circolano libri e dove il titolo di studio più elevato è la licenza elementare avrà figli che non potranno eccellere a scuola. E questo quasi indipendentemente dalla bravura o meno del personale scolastico.
Quando si avvia un processo di valutazione del sistema d'istruzione, bisognerebbe, per onestà intellettuale, tener conto anche di ciò, anche delle differenze socioculturali della rispettiva utenza, e non demandare il tutto a livelli (presunti) standard, peraltro molto elevati, valutati sulla base di griglie e crocette (sulle competenze di base in lettura, comprensione e calcolo).
Non è sbagliato valutare, è sbagliata, a mio sommesso parere, la modalità di valutazione, standard, e non flessibile nel caso specifico, così come è sbagliato l'uso retorico che pubblicamente si fa dei risultati.
Purtroppo, le precedenti rilevazioni sono state brandite per giustificare decisioni politiche peraltro già prese prima ancora di conoscere i dati statistici, al fine di dividere il Paese in zone non omogenee e per stilare vere e proprie graduatorie di merito tra gli operatori scolastici. In genere, al Nord i migliori, al Sud i peggiori.
Questo approccio è stato ideologico e poco produttivo in termini di resa statistica dei dati stessi.
Aggiunge ancora Viesti:
"Una valutazione si può fare in assoluto: dove funziona meglio che cosa. ma è assai più utile fatta in termini realtivi: dove funziona meglio che cosa, alla luce delle risorse utilizzate. Merito non significa che chi è più avanti è più bravo, se i punti di partenza non sono uguali. Il più bravo è chi, per dove opera e per le risorse che ha disposizione, raggiunge i risultati migliori"[2]
Invece, il ragionamento pubblico seguito è stato, grosso modo, il seguente: considerati i risultati conseguiti, è meglio non spendere altro denaro.
Il cane ha continuato a mordersi la coda: per migliorare le prestazioni, bisognerebbe spendere ancora di più, ma l'aleatorietà del rapporto costo - beneficio futuro sconsiglia l'investimento.
Pertanto, meglio confermare lo stereotipo del Nord civile, e virtuoso, e del Sud africano, e vizioso, che accettare di interpretare i nudi dati.
Ma questa, si sa, è politica, non statistica!
(immagine tratta da: http://www.roars.it/online/wp-content/uploads/2013/05/invalsi.jpg)
Note
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[1] Cfr. G. Viesti, “Il Sud vive sulle spalle dell'Italia che produce” (Falso!), Laterza, Roma – Bari, 2013, p. 59.
[2] Ivi, p. 58.
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