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domenica 16 febbraio 2014

L'originale domanda fondamentale secondo Leibniz



"Perchè esiste qualcosa piuttosto che nulla?"

(G. W. Leibniz, I principi razionali della Natura e della Grazia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083, p. 47)




Ecco il verbum leibniziano prima delle sovrainterpretazioni heideggeriane ...



Come mai v'è qualcosa e non nulla?



Questo il problema.

Questa la questione.

Questa la domanda.




Ma quale la soluzione?




Quale la risposta?





(immagine tratta da: http://www.mathematik.ch/mathematiker/Leibniz.jpg)




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venerdì 14 febbraio 2014

La domanda fondamentale della filosofia

"Perchè vi è, in generale, l'essente e non il nulla?"

(M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 1990, p. 13)

Questa la domanda fondamentale, che rende tale qualsiasi interrogazione filosofica, per il peggior allievo di Husserl che ripete, malamente, la medesima domanda essenziale posta nel XVIII secolo da Leibniz, uno dei filosofi più fraintesi nell'intera storia della filosofia occidentale.

E noi che risposta diamo a questa domanda?

Come mai v'è qualcosa anziché esservi un niente?


(immagine tratta da: http://people.bu.edu/wwildman/WeirdWildWeb/media/galleries/philosophy/modern_late/heidegger5.jpg)



lunedì 1 luglio 2013

Pervicacia ...

"A prescindere da alcuni fastidiosi giochi linguistici e concettuali, il significato del discorso heideggeriano è che le cose hanno una pluralità di sensi, incorporano relazioni sociali e naturali, assorbono una patina mitica, un valore simbolico che non è riducibile al valore d’uso o a schemi conoscitivi"

(R. Bodei, La filosofia del Novecento, Donzelli, Roma, 2006, p. 124)

Assume i contorni della pervicacia acritica il voler a tutti i costi appoggiarsi, nel bene come nel male, ad un autore a tal punto sopravvalutato, per non dire anche incompreso, da andare bene per tutti e per tutte le stagioni.

Non ce ne voglia Bodei, ma davvero è l'unico autore cui potersi riferire per mettere in luce la natura contestuale della filosofia in quanto costruzione simbolica di valori intrinseci alle cose stesse?

Resto perplesso innanzi allo sforzo degli uni come degli altri di appoggiarsi ad Heidegger, manco fosse il salvatore della "selva" filosofica ...

venerdì 24 maggio 2013


Spunti di filosofia sociale

  1. Gustiamo la socialità.

Sarebbe bello poter conseguire almeno una volta la finalità massima della filosofia secondo Aristotele, ossia poter dire tutto quel che c'è che da dire intorno ad una cosa, un argomento di propria scelta. Purtroppo, siamo uomini e le cose non vanno così, in genere quasi mai, figuriamoci allora una volta che ci proponiamo un compito così impegnativo com'è quello di parlare della filosofia sociale.


Nel corso del presente contributo, pertanto, m'impegno a fornire un resoconto “umano” della filosofia sociale, nella piena, e, spero anche matura, consapevolezza che non è possibile fornire un resoconto completo, esaustivo e corretto della materia in questione. Siccome non mi è consentito, per miei limiti e per ovvie esigenze di spazio, condurre un discorso completo ed esaustivo delle molteplici possibilità in campo, fornirò solamente degli “assaggi” della filosofia sociale, ossia dei “carotaggi” nel suolo costituito da questa materia, vasta ma affascinante, e stimolante nelle sue mille sfaccettature.


Pertanto, lungi da me qualsiasi tentazione enciclopedica e/o esaustiva. Come moderne termiti, sonderò il terreno sul quale desidero muovermi qua e là e renderò conto di quel poco che è possibile dire sopra tali assaggi. 

Ma non intendo farlo alla maniera a me consueta, stavolta intendo muovermi lungo sentieri nuovi, secondo movenze a me non consuete. Pertanto, prendo le mosse dal riconoscimento dei limiti propri all'umano, tanto in estensione quanto in profondità. Non posso certo dilungarmi molto nell'analisi e nemmeno illudermi di poter affondare sensibilmente in profondità. Le mie parole sono limitate così come le mie visioni e interpretazioni. Riconoscere ciò non solo è saggio, ma rende anche onesto il lavoro che si cerca di compiere. D'altra parte, mi trovo nelle medesime condizioni della metafisica occidentale: costruisce una rete con la quale cerca di catturare la preda salvo accorgersi solo in un secondo tempo che, a dispetto delle sue intenzioni e speranze, la selvaggina è fuggita dalla rete[1]. 


Francamente, penso che molto spesso al contrario la selvaggina non ricada nemmeno entro lo spazio della rete stessa. Così, ci indaffariamo molto spesso a costruire categorie concettuali e strumenti euristici senza pensare anche solo per un attimo che magari queste nostre costruzioni falliscono allo scopo. 


Il discorso che condurrò pertanto in questa sede non può che riconoscere i propri limiti, come il frutto di un uomo fatto di carne ed ossa, fragile sin nel midollo eppure capace di pensieri mirabili. Costruiamo una disciplina con un nome altisonante, filosofia sociale, ma questa deve accettare la fallibilità umana, di pensiero, di concetto, di lessico, di utilizzo, e così via. Essere limitati vuol dire anche, e forse non solamente, mettercela tutta nel pensare ad una certa cosa, nel dire una certa cosa, nell'agire in un certo modo, nel fare le cose così e colà, ma accettare sin da principio la possibilità, sempre presente, di sbagliare, di fallire, di dover modificare successivamente previsioni, certezze, conoscenze, etc. 


La filosofia sociale è, così, solo una possibilità fallibile dell'umano, e il presente discorso su di essa un discorso ancor più limitato e provvisorio. Il postmoderno ci dice che ora nulla più è capace di muovere le coscienze in una direzione piuttosto che in un'altra, che abbiamo preso congedo, definitivo e provvisorio, croce e delizia dei paradossi propri dell'attuale condizione (post)moderna della cultura contemporanea[2], dalle grandi metanarrazioni del passato[3]. Non si tratta più, allora, di concepire l'impresa del filosofo come un processo di ascensione verso l'alto, la purezza e la globalità di quanto v'è da conoscere, per, infine, riempirsi di tale conoscenza[4], ma di rendersi conto di quanto sia influenzata, da motivi esterni, la nostra stessa conoscenza, e di come, anche, ogni nostra costruzione sia sempre “meticcia”, impura, complessa, mai del tutto esente da condizionamenti. 


Certo, non me la sento di condividere in pieno la prospettiva postmoderna, che certo ha i suoi indubbi meriti, e talvolta anche pregi, ma ritengo che ciò possa essere di una certa rilevanza soprattutto in questa sede, dal momento che abbiamo a che fare con una disciplina dallo statuto certamente originale, molto di confine, che opera sul filo del rasoio, come peraltro sarà più chiaro in seguito, tra discorsi “altri”, tra razionalità differenti, tra tipi di discorsi, e giustificazioni, del tutto eterogenei gli uni agli altri. 



Se così stanno le cose, ha più senso proporsi l'ideale della scienza rigorosa? Ritengo di sì perché qui non si sta negando valore alle costruzioni razionali, ma si sta richiedendo onestà intellettuale nel nostro “sporcarci le mani” in prima persona. Per Husserl ancora la filosofia è ricerca rigorosa che soddisfi le più alte esigenze teoretiche[5], per noi le cose sono pure così ma tengono conto di una complessità sconosciuta agli inizi del XX secolo. Tant'è vero che la massima manifestazione di questa matura consapevolezza è proprio la produzione di opzioni teoriche paradossali, come, ad esempio, quella postmoderna la quale pone in essere un contenuto in diretta contraddizione con la forma del dire filosofico, del discorso filosofico[6]. Riconosciuti i limiti della conoscenza umana, non resta che accedere agli ultimi sbocchi possibili del processo meglio noto come secolarizzazione, ovvero immanentizzare il discorso filosofico stesso[7]. 


Per me, però, immanentizzare non vuol dire ridurre forma e contenuto del discorso filosofico, ma solo concedermi un freno epistemico: ridurre pretese e complessità d'analisi a tutto vantaggio, spero, dell'efficacia comunicativa. D'altra parte, se mettessi capo ad un assaggio di filosofia sociale privo di efficacia espressiva, c'è forse qualcuno che vorrebbe premiarmi?



Per questo motivo, e non solo però, il presente contributo assume una veste agile e sovente limitata: passerò velocemente da una definizione incompleta, e, quindi, “minima”, della materia in oggetto, al tipo di discorso suo proprio e ai suoi oggetti. Infine, un po' di tempo verrà dedicato alla mera indicazione, certo non esaustiva, delle discipline “altre” che la filosofia sociale certamente interseca nelle sue analisi.



(immagine tratta da: http://www1.lexmark.com/it_IT/about-us/corporate-social-responsibility/csr.jpg)


  1. Definizione minima.

La filosofia sociale è, innanzitutto e per lo più, una considerazione filosofica della socialità umana. Detto in questi termini, la disciplina in questione si occupa di una tema singolo, per quanto complesso al suo interno, la socialità, da intendersi in senso generale e vasto: dalle motivazioni che spingono un attore sociale a compiere, o meno, una determinata azione all'analisi degli effetti delle azioni umane su altri attori sociali, e così via. 


La nozione chiave è qui quella di 'socialità': l'insieme plurale che possiamo listare, senza pretesa di priorità e/o di rilevanza, come 1) intenzioni; 2) azioni; 3) risultato di intenzioni e azioni.



In questo modo, appare chiaro come la filosofia sociale si occupi sì del sociale, ma secondo un'ottica sua peculiare, ovvero del tipo di relazione tra (due o più) attori sociali intorno ad alcuni elementi importanti per ques'ultima (anche in questo caso, si tratta di un elenco senza ordine d'importanza): a) moventi; b) desideri; c) volontà; d) comportamento; e) contesto;f) influenze.

Su cosa sia un 'attore sociale' penso, sperando nel contempo di non sbagliarmi, dovrebbe essere chiaro ai più: l'essere umano preso nella sua singolarità nel momento in cui è calato, suo malgrado all'interno di una rete sociale di relazione (venendo ad essere chiamato anche a mettere in campo un comportamento sociale così e così in relazione a quello di altri come lui). Detto altrimenti, l'attore sociale è l'agente umano che mette in scena un comportamento socialmente riconoscibile come tale. Non tragga in inganno la finzione sociologica: l'essere umano è uno tramite di relazione con i suoi simili, in vista del quale legame opera in un certo modo (anziché in un altro). Come sosteneva Heidegger, pur nella sua fenomenologia astratta, la quale, appunto, si arresta sulla soglia della forma pura, senza cioè riuscire a scavare un po' più in profondità, l'esistenza è un esistere-con-altri[8]. 


La natura umana è, pertanto, eminentemente, relazionale: ha bisogno di riconoscersi negli altri e di comunicare con i propri simili. Nel racconto biblico, ad esempio, Dio crea Adamo e gli mette ai piedi un Regno, ma l'uomo si sente solo, ha bisogno di un suo simile, di un compagno, non per forza un "doppio", ma un altro che gli somigli[9]. Ma nell'entrare in relazione con altri, l'attore sociale compie delle azioni le quali sono collegate a moventi e desideri (desideri e attese in vista dei quali l'attore sociale compie scelte e azioni), volontà (la forza con la quale l'attore sociale opera per conseguire moventi e desideri prescelti), contesto (la rete sociale al cui interno muoversi, come orizzonte di senso e come limite alla propria libertà d'azione) e influenze (pur essendo in linea di principio libero, l'attore sociale sconta, data la sua natura relazionale, un influenzamento, tanto in termini cognitivi quanto in termini pratici).

L'interazione tra i moventi (che determinano la volontà), i desideri (che orientano le scelte), la volontà (il suo esercizio), il contesto (entro il quale agire) e le influenze (biologiche, culturali e contingenti) costituiscono globalmente il comportamento che la filosofia sociale desidera intenzionare.


La socialità, pertanto, come si vede, è molto vasta e presenta indifferenti sfaccettature sulle quali, di volta in volta, può cadere l'accento del ricercatore, così come, nel presente caso, del pensatore. 



Resta comunque il fatto che per darsi socialità vera e propria che il discorso non venga limitato al singolo attore sociale, ma che venga sempre presa in considerazione il risultato dinamico dell'interazione tra (almeno) due attori sociali (o più).

3. Argomenti.

Siccome la filosofia sociale, almeno per come la intendo in questa sede, è un discorso, suo malgrado, limitato su opzioni fallibili, dal momento che prende in considerazione il comportamento sociale di attori, ossia di persone in carne ed ossa le quali, e non solo per definizione, sono esseri connotati dalla finitudine, possiamo indicare grosso modo alcuni dei suoi argomenti, non so se principali o solo parziali e che elenco nella maniera seguente, senza allegare a tale elenco chissà quale opzione di rilevanza: 1) le istituzioni; 2) le norme; 3) l'azione; 4) i diritti; 5) la libertà.

La storia della filosofia ha mostrato nei secoli come il discorso possa essere condotto su ciascuno di questi temi. Ebbene, se ci limitassimo a seguirla mimeticamente, quale sarebbe lo specifico della disciplina in questione? Ne verrebbe fuori una materia affatto originale, priva, cioé, di un suo specifico. Allora, la filosofia sociale si occupa sì degli argomenti suindicati, ma lo fa in una sua maniera del tutto specifica.

Le istituzioni sono quelle azioni sociali, formali e informali, che vengono mandate ad effetto sulla base di regole condivise. Detto altrimenti, quando gli attori sociali operano secondo regole condivise e realizzano così delle pratiche sociali tra loro omogenee nel tempo si parla di istituzioni. Possiamo elencarne, a mo' di esempio, alcune: a) i contratti; b) i giochi; c) la famiglia; d) il lavoro; e così via.

Le norme sono quelle azioni sociali ordinate da norme, siano esse formali o meno. Detto altrimenti, quando gli attori sociali operano secondo regole condivise le quali vengono imposte coercitivamente e realizzano così delle pratiche socialie tra loro omogenee nel tempo si parla, riguardo a tali regole, di norme. Possiamo  elencarne, a mo' di esempio, alcune le quali operano a livelli diversi, tra loro in funzione gerarchica: a) norme consuetudinarie; b) norme morali; c) norme sociali; d) norme giuridiche; e così via. 


Non è un elenco esaustivo, ma rende bene l'idea di cosa siano le norme e quali ambiti regolino.

L'azione è lo specifico tipo di comportamento attivato dagli attori sociali. Penso si possa distinguere in merito, ancora senza nessuna pretesa di completezza e/o di infallibilità, tra: a) azioni; b) commissioni; c) omissioni. La differenza tra le prime, le seconde e le terze consiste nel rispettivo differente grado di decisione da parte degli agenti sociali: 1) iniziativa casuale del singolo attore sociale (che compie una generica azione sociale); 2) iniziativa voluta del singolo attore sociale (nel mandare ad effetto una determinata azione sociale); e, 3) iniziativa voluta del singolo attore sociale (nell'astenersi dal compiere una determinata azione).

I diritti sono delle pretese soggettive riconosciute, e promosse come tali, dall'insieme sociale. Detto altrimenti, la situazione sociale di tutti gli attori umani è differente: ad alcuni, rispetto ad altri, sono riconosciute e favorite delle posizioni di vantaggio. In questo caso, è l'organismo sociale che accorda a sue parti dei vantaggi mentre li nega ad altri. Nella comune teoria politica o anche giuridica, questo fatto viene legato all'equilibrio dinamico tra diritti e diritto: se aumentano i primi, diminuisce il secondo (e viceversa). Oppure, all'equilibrio dinamico tra la giustizia da una parte e l'arbitrio dall'altra: all'accrescere dell'una, diminuisce l'altro (o viceversa).

La libertà attiene all'iniziativa spontanea degli attori sociali e la filosofia sociale se ne occupa nella misura in cui intende compiere una ricognizione, pur limitata e fallibile, intorno ai limiti di tale libera iniziativa. Di conseguenza, la filosofia sociale prende in considerazione, ancora senza significati particolari da annettere a seguente elenco: a) interazione (tra attori sociali: quale limite all'azione singola); b) comunicazione (tra attori sociali: quale orizzonte condiviso nella scambio simbolico tra più attori sociali); c) azioni congiunte (tra attori sociali: come la libertà singola si coniughi con quella altrui); d) azioni cooperative (tra attori sociali: come la libertà singola cooperi con quella di altri); e) azioni opposte (di attori sociali: come le singole libertà vengano limitate dall'opposizione indiretta di altre loro pari); f) azioni confliggenti (di attori sociali: come le singole libertà si annullino nell'opposizione diretta di altre libertà loro pari ma si segno contrario); g) limiti all'azione (di attori sociali: come il grado complessivo di libertà per i membri di una data collettività sociale dipenda da fattori interni ed esterni).



Questi argomenti rendono conto, sia pure parzialmente, della stratificazione sociale, ossia della costruzione per livelli diversi, e differenti, ma tra loro relati, dell'insieme sociale. Ciascun livello inferiore è a sua volta funzione del livello superiore. Ragion per cui, cominciando dal più elementare, possiamo osservare, sia pure situazionalmente all'epoca coeva, la seguente strutturazione sociale: 1) individui; 2) gruppi; 3) classi; 4) società; 5) comunità; 6) stati; 7) relazioni internazionali.

La nota principale che, a mio sommesso parere, possiamo osservare nella condizione storica attuale, è l'elevata complessità raggiunta e progressivamente crescente la quale ri - definisce, entro certi limiti, la partecipazione del singolo attore sociale alla vita pratica di tali livelli. La cosiddetta globalizzazione enfatizza questo processo il quale non fa altro che aumentare la conflittualità interna al singolo livello al punto da paralizzare la stessa cooperazione tra attori sociali[10]. La partecipazione alla vita del proprio livello sociale viene messa in crisi dai processi economici i quali rivelano la reale natura dei rapporti politici coperti dalla finzione dell'elargizione moderna dei diritti[11]. E tuttavia non v'è alternativa alla dialettica dinamica tra i diritti (dei soggetti) e le differenze (tra i soggetti) all'interno di uno stesso livello sociale (per tacere, per esigenze di spazio, di quella tra livelli differenti).


La disamina dei differenti livelli entro i quali si esplica il comportamento degli attori sociali descrive l'ambito proprio della filosofia sociale: l'analisi dei molteplici aspetti della socialità. Quest'ultima, infatti, delinea, abbastanza bene ritengo, l'insieme di aspetti che costituiscono le relazioni tra gli attori sociali: 1) l'indifferenza; 2) l'interazione; 3) la comunicazione; 4) la cooperazione; 5) l'ostilità. Tralascio gli aspetti (1), (2) e (5) e spendo alcune parole sul (3) e sul (4). La comunicazione è, secondo me, la cartina di tornasole del comportamento sociale degli esseri umani. Infatti, è nello scambio verbale e non verbale tra due o più attori sociali che si può scorgere l'azione di quello scambio simbolico che è il lasciarsi attraversare dalla parola altra ed accettare di venire a patti con l'altro. Non è esattamente una forma di influenza esterna, che pure è presente, ma del medium in forza del quale un attore sociale agisce congiuntamente con un altro suo pari. 


Detto altrimenti, entrare in comunicazione è il prodromo dell'azione sociale vera e propria, prima ancora che l'azione sociale stessa possa essere cooperativa o oppositiva.


Ma veniamo adesso alla cooperazione. Tempo fa scrissi una cosetta sulla cooperazione: là la intendevo come "sottomissione" di interessi e volontà del singolo alla "reciprocità" del singolo tra altri singoli suoi pari[12]. Sostanzialmente, penso ancora che le cose siano così, ma la mia prospettiva di allora, magari ancora ingenua, è oggi più problematica: sino a che punto il singolo attore sociale accetta consapevolmente e volontariamente a limitare la propria libertà personale in favore di una reciprocità sociale? La storia italiana di questi ultimi anni, infatti, ha fatto vacillare la mia fiducia nella capacità umana di scorgere il "bene comune" dal momento che l'iniziativa libera dei singoli è stata in vario modo soggetta al potere di parti della società, ossia di caste e lobbies le quali non hanno affatto a cuore il bene di tutti, ma solo il proprio personale tornaconto. 


Ma il problema non è neppure questo, quanto piuttosto cercare di capire come mai comunque in singoli abbiano accettato di cooperare al progetto di benessere di questi gruppi sociali, dimenticando magari che ben altro doveva essere il loro! 



La cooperazione, per dirla altrimenti, quando funziona è una gran bella cosa, ma quando non funziona genera "mostri" sociali: un'azione collettiva, congiunta e collaborativa per favorire il vantaggio di pochi ...


4. Uno sguardo da nessun luogo. Il filo di rasoio della filosofia sociale.

Necessariamente plurale, ed interdisciplinare, e non solo per via dei suoi argomenti, la filosofia sociale interseca sul proprio cammino tante discipline, umane e naturali, filosofiche e non, senza comunque risolversi mai in una sola di queste stesse. Come a dire che si fa filosofia sociale solo accettando la diversità scientifica delle altre discipline e consentendo che il discorso sia impuro, sia contaminato da saperi altri, da conoscenze eterogenee[13].

Non esistono frutti puri, così come, molto probabilmente, neppure teorie incontaminate, ma (quasi) sempre teorie ibride. La filosofia sociale è una di queste teorie, batte diversi sentieri per condurre un suo discorso originale intorno a determinati argomenti.

Anche qui senza alcuna pretesa di completezza e/o infallibilità, ritengo che le discipline intersecate lungo il proprio cammino da parte della filosofia sociale siano: 1) la teoria delle istituzioni; 2) la logica delle azioni; 3) la teoria delle decisioni; 4) la filosofia delle norme; 5) i modelli psicosociologici di spiegazione del comportamento sociale; 6) la filosofia della politica e del diritto; 7) l'etica filosofica.

In breve, la filosofia sociale nel suo interessarsi alla dinamica sociale delle azioni dei singoli attori umani, deve per forza di cose lasciarsi guidare nell'esplorazione delle istituzioni umane, nella spiegazione logica, piscologica e sociale delle azioni umane, nell'esame dell'equilibrio tra partecipazione politica, giuridica ed etica alla cittadinanza umana.

Se così stanno le cose, dove è collocato lo sguardo della filosofia sociale? Molto probabilmente da nessuna parte dal momento che essa è certamente una disciplina ibrida, originale, sempre sul filo del rasoio o, meglio, operante nella terra di nessuno dei rispettivi confini tra differenti prospettive scientifiche intorno all'umano.

5. Glossa finale.

Mi si conceda ancora del tempo, poco in verità.

Che tipo di discorso conduce allora la filosofia sociale? Possiamo trarre fuori dal discorso disorganizzato e poco omogeneo sin qui condotto, le seguenti possibilità, distinte ma tra loro non irrelate: a) un discorso interdisciplinare (perché taglia longitudinalmente qualsiasi steccato tra discipline); b) un discorso "aperto" (perché mai concluso davvero e sempre pronto a modifiche e revisioni nel dinamico confronto con la realtà); c) un discorso flessibile (perché accetta di piegarsi a novità e modifiche); d) un discorso fallibile (perché riconosce di poter sbagliare data la sua natura concettuale di per sé eterogenea rispetto al fluire liquido della socialità umana); e) un discorso limitato (perché a causa della propria natura concettuale non può dire "tutto" intorno alla socialità umana).


Ma quel poco che riesce a cogliere è di estrema importanza se si desidera comprendere come si compiano o non si compiano azioni in questo mare magno della vita associata.




(immagine tratta da: http://marianna06.typepad.com/.a/6a00e54f0b19908834017ee3b6ef7a970d-800wi)


Note
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[1] Cfr. S. Natoli, Soggetto e fondamento. Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 56.
[2] Cfr. J. F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 24: «Un artista, uno scrittore postmoderno è nella situazione di un filosofo: il testo che egli scrive, l’opera che porta a compimento non sono in linea di massima retti da regole prestabilite e non possono esser giudicati attraverso un giudizio determinante, attraverso l’applicazione di categorie comuni […] Deve essere chiaro infine che il nostro compito non è quello di fornire realtà, ma di inventare allusioni al concepibile che non può essere presentato». Ma l'alludere, specie se si è nella condizione di piena consapevolezza dei propri limiti, espressivi e conoscitivi, non può che divenire un curioso 'balbettare', dagli ancor più buffi effetti paradossali.
[3] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 200516, p. 6.
[4] Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 20073, p. 116.
[5] Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma – Bari, 1994, p. 3.
[6] Cfr. L. V. Tarca, Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova, 19932, p. 237.
[7] Cfr. G. Vattimo, Perché «debole», in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, p. 187.
[8] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2000, p. .
[9] Gn II, 18 e sgg.[10] Cfr. M. L. Salvadori, Il Novecento. Un'introduzione, Laterza, Roma – Bari, 2004, p. 170.
[11] Cfr. M. L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma – Bari, 2011, p. 51.
[12] Cfr. A. Pizzo, Il diritto tra cultura e azione umana. Frammenti di antropologia del diritto, "Diritto & Diritti", ISSN 1127-8579, p. 2 (contenuto on - line: http://www.diritto.it/docs/21793-il-diritto-tra-cultura-e-azione-umana-frammenti-di-antropologia-del-diritto).
[13] Cfr. J. Feinberg, Filosofia sociale, Il Saggiatore, Milano, 1996, p. 9 e sgg.

venerdì 29 marzo 2013

Pillola sull'opposizione 'logica' vs. 'metafisica'

Scriveva Heidegger che


Nella logica tradizionale il principio di ragione fa la sua comparsa in qualche luogo nascosto, accanto o fra molti altri principi; lo si elenca fra le leggi del pensiero, dopo I principi di identità, di contraddizione e del terzo escluso[1]


Heidegger pensa chiaramente a Leibiniz il quale scriveva come

I nostri ragionamenti si fondano su due grandi principi:
1) Il principio di contraddizione, in virtù del quale giudichiamo falso ciò che implica contraddizione, e vero ciò che è opposto o contraddittorio al falso.
2) Il principio di ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo che qualsiasi fatto non potrebbe essere vero o esistente, e qualsiasi enunciato non potrebbe essere veridico, se non ci fosse una ragion sufficiente del perchè il fatto o l'enunciato è così e non altrimenti – per quanto le ragioni sufficienti ci risultino per lo più ignote[2]


L'intento di Heidegger è chiaro: declinare in senso metafisico la logica. 


Direzione lungo la quale non seguiamo l'autore di Essere e tempo non perché la via metafisica sia in qualche modo sbarrata alla ricerca logica ma, più semplicemente, perché il principio di ragione non fa parte delle leggi del pensiero[3], con buona pace e di Leibniz e dello stesso Heidegger. 


Pensare che in qualche modo vi sia una ragione razionale sensata, in forza della quale le cose siano così e così, piuttosto che essere altrimenti, francamente non ci riguarda, e non può riguardare nemmeno la logica dal momento che si tratta di un ragionamento articolato che adopera di per sé gli strumenti del pensiero, quegli stessi che la logica si propone di individuare e conoscere. 


Pertanto, quella tensione è aliena alla tensione della logica.

Pur potendo, ovviamente, interessare al pensiero metafisico adoperare gli stessi strumenti messi a punto dalla logica. D'altra parte, ci rammenta Facco:

Alle origini della logica si trova la fondamentale esigenza dell’uomo di conoscere il vero, di evitare cioè le insidie della falsità e dell’errore[4]




Note
[1] Cfr. M. Heidegger, Principi metafisici della logica, Il Melangolo, Genova, 2000, p. 141.
[2] Cfr. G. W. Leibniz, I principi della filosofia o La Monadologia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083, p. 73.
[3] Cfr. G. Rigamonti, Corso di logica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 17.
[4] Cfr. M. L. Facco, Metafisica, logica, matematica. Leibniz, Boole, Rosmini, Marsilio, Venezia, 1997, p. 9.



(immagine tratta da: http://sketchup.google.com/3dwarehouse/download?mid=2b631518a184a72c191695eef1811f4a&rtyp=lt&ctyp=other&ts=1255806911000)






lunedì 7 gennaio 2013

A proposito di (neo)realismo ...




"Il che, in certa misura, è coerente con gli scopi presenti dato che proprio in Parmenide ravvisiamo la fondazione di tale questione: una svolta ontologica che è, nel contempo, anche logica. Dunque, l’essere è perché al limite imponderabile della riflessione v’è una congiunzione, alquanto paradossale, tra essere e pensare, visti e considerati equipollenti in uno dei frammenti più noti dell’eleate. 

Il discorso parmenideo, giunti a questo punto, è di facile comprensione. A differenza di altri autori a lui coevi, l’eleate mette a punto un dato tipo di ricerca speculativa che prende in considerazione il tutto che esiste e cerca di spiegarlo non facendo ricorso a ragioni religiose o tradizionali, ma sulla base della semplice ragione. 

L’uso corretto delle facoltà razionali consente agli uomini di percorrere tutta la strada che conduce alla ben rotonda verità, ossia alla conoscenza fondata. Questa doppia movenza, ontologica e logica insieme, con ogni probabilità dovuta al retaggio culturale dell’epoca di Parmenide, costituisce una svolta che avrebbe segnato in profondità l’intera filosofia occidentale, restando viva ed operante anche ai giorni nostri. Anzi, proprio ai nostri giorni quando si realizza una sorta di Anselmo renaissance, possibile solo attraverso una ripresa del registro filosofico parmenideo[1], ivi compresa quell’iniziale trattazione delle modalità[2]. Ma, in fin dei conti, Parmenide non fa altro che compiere quella incessante attività filosofica di scavo nella realtà di quelle caratteristiche che la rendono tale, ossia la possibilità, e le sue varie declinazioni. Forse, non ha torto Heidegger quando scrive come «La fenomenologia è il modo di raggiungere e di determinare dimostrativamente ciò che deve costituire il tema dell’ontologia. L’ontologia non è possibile che come fenomenologia»[3], come indicazione del ventaglio modale dell’essere (che siamo e conosciamo)"




Questa è la conclusione di un mio recente articolo[4] e riassume, a mio sommesso parere, gran parte, sia pure metaforicamente - nel senso che il lettore dev'essere in grado di coglierla -, i termini dell'attuale diatriba tra realismo e non - realismo. Pamernide, tanto ignorato e tanto misconosciuto, ben insegnava come non del nulla si possa parlare e pensare.







Note





[1] Cfr. C. Arata (2009), Dio oltre il principio di non contraddizione, Brescia, Morcelliana, p. 21. 


[2] Cfr. A. Pizzo (2009), Argomento ontologico. Una storia convergente per un’interpretazione divergente, Roma, Aracne, p 82 e sgg. 


[3] Cfr. M. Heidegger (2000), Essere e tempo, Milano, Longanesi, p. 56.

[4] Cfr. A. PIZZO (2012). La svolta ontologica in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice "è", in I. Pozzoni (cur.), Elementi eleatici, VILLASANTA, Casa Editrice Limina Mentis, ISBN 9788895881720, p. 357-388.


Alessandro Pizzo

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mercoledì 12 dicembre 2012

La domanda ...


Il ruolo, senso, e, magari anche possibilmente, funzione della filosofia è il render conto dell'essere, ossia l'addurre delle ragioni che giustifichino l'essere nella sua duplice natura di (1) fondamento dell'esistente (ossia, essentia); e, (2) sostrato materiale di quel che esiste (ossia, corpora).

Così intesa la filosofia, il suo discorso, ovvero quella modalità discorsiva che le è propria, sembra, dunque, aver origine dal tentativo di rispondere ad una domanda fondamentale, singola quanto imprescindibile, particolare quanto ineludibile, essenziale e non trascurabile, ostica eppure esigente, la seguente:

Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla? Ecco la domanda. Non si tratta, presumibilmente, di una domanda qualsiasi. È chiaro che la domanda: «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?» è la prima di tutte le domande[1]

Il ben noto, forse anche giustamente, argomento heideggeriano rende conto di quella inveterata, ed ineludibile, esigenza filosofica di cogliere l'essenza del pensare stesso, in quanto quel che "sta sotto" al reale, la radice silente al fondo di qualsivoglia interrogazione filosofica, l'essere noi-qui-ed-ora. Heidegger si chiede, detto altrimenti, e consapevolmente dopo millenni di ricerca filosofica, la ragione dell'essere: quale sia quell'essenza che rende possibile l'essere (come noi lo esperiamo e lo viviamo). 


Da questo punto di vista, allora, ad essere originale non è la domanda in sé, ma, piuttosto, la piena, e matura, consapevolezza con la quale la stessa è formulata, è avanzata, è posta in essere. Heidegger si limita a ripetere delle idee già presenti in epoche precedenti, pur con il dovuto merito di rendere chiara, e potente, la stessa interrogazione.


In realtà, allora, Heidegger non fa che riprendere una domanda già formulata da Leibniz. Infatti, possiamo leggere quanto segue:

la prima domanda che si ha il diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla? Il Nulla, infatti, è più semplice e più facile del Qualcosa. In secondo luogo, ammesso che debbano esistere delle cose, bisogna allora che sia possibile rendere ragione del perché esse devono essere così e non altrimenti[2]

La distinzione leibniziana tra ragion sufficiente e ragion necessaria, a seconda rispettivamente della meno o maggiore prossimità alla ragione da parte delle entità, ossia degli essenti, di quel che esiste, informa di sè questa strutturazione della domanda, sin troppo simile al medesimo tono che possiamo riscontrare nella formulazione heideggeriana.

Il suo significato, però, è diverso e va colto nella sua reale dimensione, storica in quanto semantica. Come sostiene Natoli: «Leibniz articola la realtà in ordini distinti, dimensionandola secondo i tre classici principi: verità di ragione, verità di fatto, principio di ragion sufficiente»[3]. Come a dire che mentre Heidegger assume l'essere nella sua assoluta generalità, senza porre in essere distinzioni di sorta in possibili gerarchie d'esistenza, l'essere contingente, l'essere possibile, l'essere necessario, Leibniz è fortemente spinto a riconoscere valenze proprio a questa distinzione nella distribuzione di diversi gradi di esistenza, conferendo alla domanda questo senso suo proprio: cos'è quel qualcosa che rende possibile l'essere piuttosto che il nulla? Questo senso ha, però, un corrispettivo speculare, che ne costituisce, però, forse, proprio una sofisticazione di senso, e che possiamo esplicitare, grosso modo, in questa maniera: il qualcosa che fa essere le cose, le fa essere in maniere diverse le une dalle altre.


In merito, appare interessante la semplificazione cui mette capo Givone quando sintetizza come

Heidegger mostra come la formulazione della domanda fondamentale sia decisamente ambigua. Nel senso che l’essenziale è in ciò che, a rigore, la metafisica dovrebbe lasciar cadere e invece stranamente conserva. Qual è infatti il contenuto del domandare? A che cosa si riferisce il «perché?»? evidentemente, al fondamento dell’ente. Questo è in questione: perché l’ente? Ma allora la formulazione dovrebbe essere: «Perché è in generale l’ente?». Il resto - «e non piuttosto il niente» è superfluo. Peggio che superfluo: insensato. Come si fa a parlare di qualcosa che non è? Chi lo fa parla contro se stesso. Eppure … […] siamo portati a chiedere, anzitutto, e indifferentemente: che ne è del nulla? […] e: che ne è dell’essere? […] Indifferentemente, cioè a misura che l’essere e il nulla non possono essere separati. Sennonché per la metafisica […] del nulla non ne è nulla, perché ne è soltanto dell’ente, così come non ne è nulla neppure dell’essere, dal momento che l’essere è ridotto all’ente[4]

Laddove, invece,

nella prospettiva leibniziana la domanda fondamentale può benissimo essere letta come se fosse una risposta. Le si tolga il punto interrogativo, e la si faccia precedere dalla tesi: Dio è il fondamento dell’essere. Otterremo: Dio è il fondamento dell’essere, perché c’è qualcosa piuttosto che niente. Esattamente quel che Leibniz intendeva sostenere[5]

Per Löwith, in ciò interprete di Heidegger, «questa domanda – che già Leibniz e Schelling avevano avanzata – viene detta domanda prima in dignità, perché è la più ampia e profonda e la più vicina all’origine»[6]. 


Ancora più netto appare Pareyson quando si chiede se Leibniz riprenda o meno, pur mutandola nella sostanza, la formulazione democritea: «non esserci piuttosto l’ente che il niente; l’ente non c’è a maggior ragione che il niente; non c’è ragione perché ci sia qualcosa piuttosto che il nulla»[7].


La declinazione dei possibili significati del perché marca la differente sensibilità con la quale di volta in volta suddetta domanda viene svolta, pur rimanendo, però, sempre viva l'esigenza di fondo.


La vulgata coeva, tuttavia, rovescia l’impostazione canonica della metafisica occidentale, ne forza il significato proprio dell’opposizione di essere e non essere, la stessa su cui si basa il divieto parmenideo di pensare l’impossibile.


Da Leibniz in poi questo stesso discorso è diventato il principio di ragion sufficiente: quel che consente agli enti di essere o non essere, di esistere o meno, di poter venir conosciuti o meno. Il nulla non può essere trattato come se fosse qualcosa, questo l'insegnamento originario della filosofia sin dai suoi primi vagiti. 


Questa limitazione, originaria quanto essenziale al pensiero umano, sia pure la sua cosiddetta circoscrizione occidentale, viene oggi aggirata concependo il nulla più reale dell’esistente in quanto regola del divenire: tutto è nulla perché tutto muta. Il nulla, cioè, non sarebbe l’opposto dell’essere, come dovrebbe essere, ma la diversità ontica; il non – essere, più semplicemente, non è l’opposto dell’essere, ma la possibilità del suo essere diverso da come appaia, la possibilità stessa del mutamento, del divenire.


In soldoni, la declinazione attuale, che rovescia del tutto il senso iniziale della stessa domanda, è una facile sofisticazione che non coglie però il fondo del problema metafisico di origine: perché c’è quel che c’è? Cosa fa sì che ci sia essere? E cosa fa sì che il non – essere non sia? Questo è il problema della filosofia, nonostante che Galimberti l’interpreti invece in termini antropologici[8].

E tuttavia mi si consenta ancora di cogliere in questa tendenza, assai forte nel cosiddetto filone postmoderna, forse la ragione della profonda confusione tra realtà e interpretazione. D'altra parte, pervertire la distinzione di essere e nulla è l'anticamera della sostituzione del reale con la finzione, compiendo appieno quella tendenza che icasticamente Ferraris dichiara realitysmo[9]. 


Ma non è questa affatto una conclusione definitiva, solo un esito provvisorio che il futuro solamente potrà dirci se reversibile.

Anche se una mia idea già ce l'ho e l'ho espressa in altra sede.




(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiDI9RxgQ-slIXVThIGlXVa9t3XA6Wz7knaGce2yt88OqZjCZkEEGHx6nQPhlSt1ndu7STYby6vq2PKM64qKxW464P5vyzPz1R5Usy1jUTuHfnEj7EjZhF7IpVDO8ELmHGWsrIyZdVF5F0j/s320/pruden.jpg)



Note
[1] Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 19722, p. 13.
[2] Cfr. G. W. Leibniz, I principi razionali della natura e della grazia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083, p. 47 (§ 7).
[3] Cfr. S. Natoli, op. cit., p. 167.
[4] Cfr. S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Roma – Bari, 1995, pp. 203 – 5.
[5] Ivi, p. 186.
[6] Cfr. K. Löwith, L’Esistenza che si accetta e l’Essere che si dà, in K. Löwith, Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino, 1966, p. 25.
[7] Cfr. L. Pareyson, La libertà e il nulla, in L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995, p. 356.
[8] Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 20032, p. 701.
[9] Cfr. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma – Bari, 20122, p. 29 e sgg.