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lunedì 4 marzo 2013

Bentornato Parmenide, oh caro vecchio!



Siamo debitori nei confronti di Parmenide, tanto rispetto al suo apporto alla filosofia occidentale quanto nei confronti della sua elaborazione culturale in merito agli usi del verbo essere. È vero che, generalmente, in filosofia le due cose vanno di pari passo, ma è bene in questa sede, almeno preliminarmente, tenerle separate al fine di far evincere al meglio la particolarità della novità speculativa costituita da Parmenide nei primi travagliati vagiti della riflessione filosofica occidentale.2 D'altra parte, come diverrà più chiaro in seguito, ci riferiamo al filosofo eleate come all'autore di una vera e propria "svolta ontologica", tanto rispetto ai filosofi precedenti quanto rispetto ad una data maniera di concepire il "mestiere" filosofico, il "fare filosofia", il pensare alla realtà circostante.




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(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/20/Sanzio_01_Parmenides.jpg)



Alessandro Pizzo

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lunedì 7 gennaio 2013

A proposito di (neo)realismo ...




"Il che, in certa misura, è coerente con gli scopi presenti dato che proprio in Parmenide ravvisiamo la fondazione di tale questione: una svolta ontologica che è, nel contempo, anche logica. Dunque, l’essere è perché al limite imponderabile della riflessione v’è una congiunzione, alquanto paradossale, tra essere e pensare, visti e considerati equipollenti in uno dei frammenti più noti dell’eleate. 

Il discorso parmenideo, giunti a questo punto, è di facile comprensione. A differenza di altri autori a lui coevi, l’eleate mette a punto un dato tipo di ricerca speculativa che prende in considerazione il tutto che esiste e cerca di spiegarlo non facendo ricorso a ragioni religiose o tradizionali, ma sulla base della semplice ragione. 

L’uso corretto delle facoltà razionali consente agli uomini di percorrere tutta la strada che conduce alla ben rotonda verità, ossia alla conoscenza fondata. Questa doppia movenza, ontologica e logica insieme, con ogni probabilità dovuta al retaggio culturale dell’epoca di Parmenide, costituisce una svolta che avrebbe segnato in profondità l’intera filosofia occidentale, restando viva ed operante anche ai giorni nostri. Anzi, proprio ai nostri giorni quando si realizza una sorta di Anselmo renaissance, possibile solo attraverso una ripresa del registro filosofico parmenideo[1], ivi compresa quell’iniziale trattazione delle modalità[2]. Ma, in fin dei conti, Parmenide non fa altro che compiere quella incessante attività filosofica di scavo nella realtà di quelle caratteristiche che la rendono tale, ossia la possibilità, e le sue varie declinazioni. Forse, non ha torto Heidegger quando scrive come «La fenomenologia è il modo di raggiungere e di determinare dimostrativamente ciò che deve costituire il tema dell’ontologia. L’ontologia non è possibile che come fenomenologia»[3], come indicazione del ventaglio modale dell’essere (che siamo e conosciamo)"




Questa è la conclusione di un mio recente articolo[4] e riassume, a mio sommesso parere, gran parte, sia pure metaforicamente - nel senso che il lettore dev'essere in grado di coglierla -, i termini dell'attuale diatriba tra realismo e non - realismo. Pamernide, tanto ignorato e tanto misconosciuto, ben insegnava come non del nulla si possa parlare e pensare.







Note





[1] Cfr. C. Arata (2009), Dio oltre il principio di non contraddizione, Brescia, Morcelliana, p. 21. 


[2] Cfr. A. Pizzo (2009), Argomento ontologico. Una storia convergente per un’interpretazione divergente, Roma, Aracne, p 82 e sgg. 


[3] Cfr. M. Heidegger (2000), Essere e tempo, Milano, Longanesi, p. 56.

[4] Cfr. A. PIZZO (2012). La svolta ontologica in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice "è", in I. Pozzoni (cur.), Elementi eleatici, VILLASANTA, Casa Editrice Limina Mentis, ISBN 9788895881720, p. 357-388.


Alessandro Pizzo

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martedì 1 gennaio 2013

(Neo)realismo ... che la disputa continui!


(immagine tratta da: http://libreriarizzoli.corriere.it/is-bin/intershop.static/WFS/RCS-RCS_PhysicalShops-Site/RCS/it_IT/LibreriaRizzoli/big/978/8/8/8/9788884207142g.jpg)



Nella divertente diatriba tra teorici del pensiero debole e nostalgici del buon caro realismo, penso che sia possibile trarre alcuni elementi utili per evitare che la realtà divenga ostaggio della sua stessa conoscenza, tramutandosi, volente o nolente, in mera interpretazione.

La faccenda è divertente perché la si gioca tutta all'interno della fazione debolista, gli uni contro gli altri o perché hanno tradito la realtà o perché hanno tradito lo spirito originario.

A me, che non ho mai fatto parte di questa corrente, il vantaggio di poter dire la mia senza pesanti oneri e/o condizionamenti di sorta da precedenti appartenenze alla fazione in questione.

Le riflessioni che contingentemente svolgerò in questa sede hanno come oggetto la  (quasi)risposta offerta da Pier Aldo Rovatti al voltagabbana Ferraris che nel Manifesto aveva definitivamente preso le distanze dalla fazione cui pure a suo tempo aveva aderito nella quale ravvisa almeno tre fallacie (che non ripeto qui, rinviando ad un altro post nel quale le avevo preso in considerazione). E si sa che i tradimenti fanno male. Ma non a chi tradisce ...

Rovatti, nel suo Inattualità del pensiero debole, descrive nella maniera seguente il pensiero debole:

1. "abbassare lo sguardo e di far proprio quel benevolo riso femminile" (p. 8).

La filosofia è qui vista come arrogante, superba, violenta e, al contrario, dovrebbe essere più dimessa, più umile, più "debole", facendo proprio l'atteggiamento della ... servetta tracia! Quante inutili parole e metafore si sono sprecate intorno a questa figura! Ma lasciamola ridere, e torniamo all'elemento (1). Qual è la cosa che non torna nell'invito di Rovatti? Semplice, la presupposizione iniziale che è del tutto inverificabile: quando La filosofia è superba? quando la filosofia è violenza? E in quale scala? Rispetto a quale ordine di misura? Pardon, essendo un'interpretazione, non è suscettibile di verifica. Ma, allora, perché dovremmo prenderala seriamente in considerazione?

Veniamo alla seguente altra opinione:

2. il pensiero debole cerca di mettere in gioco "in modo nuovo il rapporto tra basso [...] e alto [...], e ci dice che il nostro compito è quello di riuscire a stare in una condizione paradossale, abitare il paradosso, il che significa: riconoscere le relative contraddizioni, non pretendere di scioglierle in fretta, accettare la sfida di un equilibrio sempre instabile" (p. 9).

La sfida è alta e, molto probabilmente, anche sciocca: a chi serve il paradosso? E a chi giova il restare nelle contraddizioni? Forse che la serva tracia resti nella contraddizione anziché riderne? Non trovo utile quest'altro invito posto in essere dal pensiero debole (d'ora innanzi: PDB), anche se ne riconosco lo stile che tanta influenza ha esercitato sugli ingegni filosofici.

Veniamo alla seguente opinione:

3. il pensiero debole è oggi inattuale per via della sua natura di pungolo, di disturbo "per le così dette anime belle" (P. 9).

Davvero il PDB stimola il pensiero? O piuttosto ne eccita l'immaginazione e solo quest'ultima, senza, cioé, produrre vera conoscenza intorno alla realtà? Da questo punto di vista, preferisco di gran lunga il proditor Ferraris!

Veniamo ora a quest'altra opinione:

4. Ferraris semplifica (e troppo) la natura del PDB (p. 10 e sgg.).

Forse è vero, ma non è paradossale che chi abita il paradosso lo rifiuti? Di semplificazione, intorno alla realtà, in semplificazione, intorno alla conoscenza sulla conoscenza della realtà, il passo è quasi automatico. Perché non riconoscerlo? Perché lagnarsene? Forse PDB e postmoderno non sono la stessa cosa, ma di certo respirano la medesima "aria di famiglia": porre al centro della riflessione coeva "la questione del potere" (p. 11). Questo rigurgito freudiano, in salsa marxista, non è, forse, una mera semplificazione della complessità reale in funzione di una categoria ideale? Peraltro, non è forse essa stessa una sovrastruttura? Ma il PDB ama i paradossi, ne subisce a tal punto il fascino perverso che desidera rimanervi dentro ...

A questo punto, però, il discorso diventa interessante:

5. espunta dal PDB la questione del potere, il PDB stesso diventa una "barzelletta" (p. 11).

La filosofia è certamente molto più del mero potere, e dei relativi rapporti tra chi sta su e chi sta giù. Di coneguenza, diciamo pure che la questione del potere si toglie da sé dall'agone dialettico, rivelando il volto paradossale e contraddittorio del PDB: una barzelletta! Lo si può negare? Chi ama tanto la contraddizione al punto da contraddirsi e volervi restare dentro, non suscita forse, e giustamente, il sorriso della servetta tracia? E non solo di lei, ci mancherebbe ...

Consideriamo ancora quest'altro elemento:

6. il PDB non nega la realtà, ma si affida del tutto alla conoscenza che possiamo avere di quest'ultima.

Peccato davvero in tal caso che tale conoscenza sia mediata, nel senso che nasconda dietro un complesso di categorie lo stato di cose ... ecco il nemico mortale del realismo (ri-)scoperto da Ferraris: sostituire alla conoscenza di cose, una mera conoscenza di conoscenze ... A queste condizioni certo non può dirsi che de jure il PDB neghi la realtà, ma può giustamente affermarsi che il PDB dilegui de facto quella stessa realtà nella quale, a parole, asserisce di credere. E questo è paradossale ... ma se lo è, a quale specie di barzelletta stiamo prestando attenzione?

Veniamo ancora alle seguenti riflessioni di Rovatti, che estrapoliamo dall'intervista di Di Grazia.

7. il PDB metta in guardia dalle grandi categorie classiche, come verità, perché, lette sotto la categoria del potere, rivelano un oscuro disegno imperialista che, in nome dell'unità teoretica, schiaccerebbero qualsiasi differenza.

E' un discorso vecchio e, a dirla tutta, poco interessante: se prendiamo congedo dalla verità, ossia da una responsabilità intorno alla realtà, di cosa parliamo? Oppure, per dirla più crudemente: tolta la verità, che parliamo a fare? Ma Rovatti insiste, offrendo la sua "etica" minima: pudica, aperta agli eventi concreti, etc. Ma è, forse, l'etica minima contrapposta de jure all'etica teoretica? Credo di no e che, piuttosto, in Rovatti operi un pregiudizio: il credere, e per partito ideologico preso in partenza, senza cercare riscontri o sconferme, che il logo filosofico violenti la realtà fagocitandola dentro un insieme rarefatto di categorie ... è vero tutto ciò? Non importa se lo sia o meno, importa invece ch'io ne meni una versione narrativa suadente e suggestiva! Dopo la rethoric turn, Rovatti fa suo il verbo postmoderno: preso congedo da qualsiasi possibile assenso (sincero) alle metanarrazioni, propendiamo senza predeterminazioni ora per l'una ora per l'altra opzione morale, spinti a ciò dal sentimento e dall'immaginazione ... potrei pure concordare in linea di principio con l'invito alla modestia, ma così posto, mai discusso, mai giustificato, e con tanta immodestia, proprio non me la sento di accettarlo!

Ma andiamo avanti.

8. non è ai fatti naturali che dobbiamo volgere lo sguardo, ma ai fatti sociali i quali "non sono per nulla neutri" (p. 27).

Questo mi pare un rimestare acqua nel mortaio: prima si nega di voler negare importanza ed esistenza ai fatti, ora però si opera una sostituzione di questi ultimi con i 'fatti sociali' ... e cosa sarebbero di grazia? Pardon, ma certo: la cultura! Ovvio, il dispositivo di potere che si cela dietro tutti rapporti sociali! Strano modo di render conto delle cose e strano modo di giustificare il proprio incedere, davvero! La cultura è violenza? è dominio? è potere? Questa è sicuramente un interpretazione, una tra le tante certamente possibili, ma dobbbiamo davvero prestarle fede? Credo di no, anche se così facendo il PDB viene declassato a ... barzelletta! Ma non si additava il modello (positivo) della servetta tracia? Allora, che si rida!

Procediamo oltre, così senza ragionar di lor ...

9. il PDB è un "'pensiero positivo'" che oppone resistenza contro ogni nuova barbarie (p. 30).

Che si faccia un uso non neutro della parola 'positivo' mi pare ovvio, ma non può dirsi altrettanto sulla ostentata funzione di sbarramento all'avanzamento della barbarie. L'etica minima non disarma la potenza retorica dei violenti, ci vuole ben altro, e quanto meno proprio quella Ragione dalla quale prontamente, ed inopoinatamente, i debolisti hanno preso definitivo (?) congedo. Aver disarmato la ragione vuol dire essere inerme innanzi a chi è più forte di noi, e ciò tralasciando l'ipersemplificazione del discorso che si sta portando avanti ...

10. essendo strumento di resistenza al potere, il PDB è anche una resistenza al "potere stesso della filosofia" (p. 36).

Congegno retorico datato e fondamentalmente sterile: depotenziata la ragione, che senso hanno più queste parole?

Andiamo oltre.

11. la recente (ri-)scoperta della realtà non è un tornare indietro (dal debolismo non si può prescindere ...), ma "un orizzonte che abbiamo allontanato nel futuro" (p. 38).

Fuggendo dalla libertà promessa dal PDB, lo abbiamo respinto vagheggiando anacronistici ritorni all'ordine, alla stabilità, alla verità, alla ragione ... che sciocchi! Abbiamo solo posticipato in un futuro imprecisato gli agognati frutti della critica permanente ... già, una critica, però, depotenziata, senza verità, non razionale ... la krisis da scelta è diventata arbitrio!

Vediamo anche come ...

12. il PDB è inattuale non perché ha fatto il suo tempo, ma perché siamo diventati conformisti (p. 47 e sg.).

Secondo me il PDB è attuale proprio per via della sua progettata inattualità buona per ogni tempo. Scorgendo il conformismo dei nostri tempi, allora, recupera appeal proprio perché si presenta come contro - strumento, come critica, come elemento perturbatore, come pungolo, come resistenza, come ... etc. Ma porta anche buoni frutti? A me, detto con estrema franchezza, pare fatto della stessa sostanza dei nostri tempi, ossia conformismo! Non è forse una moda culturale? Allora, francamente, se ne può fare benissimo a meno senza soffrirne!

Vediamo ancora che ...

13. il PDB suggerisce la necessità che i rapporti di potere, la vera essenza della realtà, siano attraversati da una soggettività capace di un doppio movimento: "disinvestirci dell'illusione" e "caricarsi del compito di una continua 'alterazione' o trasformazione in 'altro'" (p. 62).

Se il PDB vuol essere una medicina alla patologia del pensiero, davvero ha senso affermare che la medicina è peggiore del male! Quanto sono ingannevoli queste parole, depurate della loro natura ideologica! La realtà non è la mera coordinazione di meri rapporti di potere così come il pensiero non per forza deve scovare illusioni, trucchi, inganni e sublimare le cose in altro per scorgervi la trama segreta di potere ... penso che quanto ci hanno insegnato i teorici del sospetto sia sostanzialmente questo: tanto più è possibile che dietro qualcosa ci siano interessi e moventi segreti quanto più è possibile che dietro non ci sia proprio nulla di tutto ciò! é facile, comodo, snob, credere che una segreta legge dimori dietro la facciata delle cose, ma penso che sia più una patologia della percezione che una legge reale. Anche perché consiste pure nel sostituire alla realtà delle cose, una loro controfigura concettuale del tutto inverificabile. E, per ciò stesso, del tutto verosimile, suadente, suggestivo, convincente, affabulatorio, ...

Cosa resta, pertanto, del PDB? Quel che lo stesso Rovatti asserisce: una barzelletta, uno scherzo, un gioco di poco conto, un tono dimesso superbo, e così via. Come a dire, non ragioniam di loro ma guardiamo e passiamo.

Anzi, no. Prendiamo pure esempio dal modello positivo addotto: ridiamoci sopra. Senza complessi, senza sensi di colpa.

E, soprattutto, senza prendere troppo sul serio la chiacchiera circa l'abitare il paradosso, la contraddizione. Una volta esaurito il riso, sbarazziamoci pure velocemente dell'uno e dell'altra!

Bibliografia

M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma - Bari, 2012.
P. A. Rovatti, Inattualità del pensiero debole, Forum, Udine, 2011.





Alessandro Pizzo

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lunedì 21 maggio 2012

Realismi e finzionalismi


La “riscoperta” dei fatti (per non parlare delle “cose”)


(immagine tratta da: http://www.libreriallarco.it/wp-content/uploads/2012/03/manifesto-del-nuovo-realismo.jpg)


Il presente post è una versione provvisoria, ed incompleta, di un ragionamento molto più ampio che da tempo sto sviluppando su(i limiti de)l postmoderno. E prende le movenze dalla lettura occasionale del manifesto del “nuovo realismo” di Ferraris. Tuttavia, essendo tale lettura non ancora conclusa, le conclusioni del presente post sono da considerarsi provvisorie, anche se non mancheranno di risultare interessanti a vari livelli. O almeno questa è la mia pia speranza.


La novità più succulenta di questo 2012 è certamente la polemica tutta “ermeneutica” tra vetero postmoderni, e debolisti di varia fattura, e neo postmoderni, più teneri dei primi nei confronti della realtà.
Il caso più eclatante di questo nuovo atteggiamento è costituito certamente da Maurizio Ferraris il quale, postmodernista della prima ora in Italia, se non altro per essere stato uno degli attori principali del volume collettaneo “Il pensiero debole”[2], vero e proprio manifesto del debol pensiero, variante tutta nostrana del postmoderno filosofico, ha ora abiurato a quella opzione teorica, riabilitando, tanto de facto quanto de jure, la reality.


La sua defezione, oltre a non essere passata (del tutto) inosservata, ha suscitato una vivace polemica nei suoi ex correligionari i quali proprio non riescono a comprenderne il voltafaccia (se così può dirsi) [3]. Diciamo che non hanno mantenuto inalterato il loro atteggiamento compassato di ironico distacco e disincanto. La ragione di ciò è, in fondo, semplice: non si tratta di postmodernisti veri e propri, ma di italioti ingegni che quel verbum declinano con la specifica sensibilità teoretica nazionale.
Senza entrare nella polemica, dato che si tratta di orizzonti culturali a noi fondamentalmente alieni, merita osservare alcuni punti interessanti.


Primo. La polemica, e qui sta il dato saliente, non è “esterna” al dibattito postmoderno, ma tutta interna. Così, appaiono rilevanti possibili critiche autonome al fronte postmoderno, con tutto quello che una possibile, almeno nel “manifesto” neorealista di Ferraris, riabilitazione dei fatti, delle cose, dell’intera realtà, in sé stessa, comporta per un sapere che si professa decostruzionista, ironico, perplesso, distaccato.


Secondo. Il discorso di Ferraris appare coerente con un processo di maturazione del proprio pensiero che scopre, o ri – scopre, come al di là di tutte le finzioni costruttiviste, come oltre il disincanto rispetto al mondo, e alla cultura più in generale, vi siano degli oggetti i quali restano intatti nella loro autonomia da qualsiasi processo gnoseologico, falsificando così uno degli assunti di base del postmoderno in forza del quale le cose non esistono “fuori” di noi, indipendentemente da un processo conoscitivo volto verso di esse. Questa è un’apertura verso il fuori, verso le cose stesse, per come esse sono in sé, e non come sono per noi che le conosciamo, e che, proprio perché le conosciamo, le “costruiamo” sulla base di schemi concettuali, di paradigmi, di tradizioni culturali, di influenze psicologiche, etc. La presunta “attività” speculativa, che mettiamo in atto ogniqualvolta conosciamo, non costruisce affatto l’oggetto, che resta intatto nella sua -  se ci si passa l’accento lévinasiano – ipseità, nella sua alterità rispetto alla nozione che lo rappresenta intellettualmente. Diciamo, allora, che costruiamo la sua rappresentazione, non la cosa stessa, che resta integra sullo sfondo del processo conoscitivo. Come a dire che, forse, si dovrebbe tornare a Kant, ma non per rafforzare il suo fenomenismo, ma per renderlo più obiettivo, ossia legato in misura maggiore alla “causa” della conoscenza (per quanto inconoscibile nella sua ipseità). Ma sappiamo bene come una tradizione culturale finisca spesso con il sovvertire, edulcorare, tradire, un autore …


Terzo. Appaiono altamente interessanti le fallacie di cui soffrirebbe il postmderno e che Ferraris tematizza. Esse si collocano su tre livelli, diversi ma relati: (i) ontologico; (ii) critico; e, (iii) illuministico.  Con i livelli (i) – (iii), ovviamente, Ferraris rinvia ad altrettanti tradizioni speculative non a caso tirate in ballo nel momento in cui intende denunciare tre fallacie del postmoderno. La fallacia che si colloca al livello (i) è la fallacia dell’essere – sapere[4]; quella che si colloca al livello (ii) è la fallacia dell’accertare-accettare[5]; infine, la fallacia che si trova al livello (iii) è quella del sapere-potere[6]. Procediamo con ordine. Secondo Ferraris, il postmoderno sbaglia a livello ontologico in quanto confonde «tra ontologia ed epistemologia»[7], equivocando «tra quello che c’è e quello che sappiamo a proposito di quello che c’è»[8]. Conoscere un oggetto non vuol dire porre l’oggetto stesso, ma l’esistenza stessa dell’oggetto rende possibile la sua conoscenza. Certo, perché si abbia conoscenza è bene disporre di linguaggi, di schemi e di categorie, ma l’oggetto stesso, considerato in sé, non ha alcun bisogno di linguaggi, di schemi e di categorie per esistere. Per così dire, l’oggetto “resiste” alla concettualizzazione che ne compiamo ogniqualvolta conosciamo. Inoltre, l’accertamento dell’esistenza dello stato di cose esistente non comporta affatto la sua accettazione, magari edulcorandolo per renderlo più accettabile. Ancora una volta, la realtà rivendica i suoi diritti, produrre irrealismo è da irresponsabili peché «all’irrealismo è connaturata l’acquiescenza»[9] mentre solo il realismo consente una vera critica, se è il caso, della realtà al fine di poterla trasformare (in senso progressivo).  Infine, abbiamo la terza fallacia, quella che ha attecchito in misura maggiore sul finire del secolo scorso (basti pensare allo slogan “pensare dopo i Maestri del sospetto!”): «in ogni forma di sapere si nasconde un potere vissuto come negativo, sicché il sapere, invece di legarsi prioritariamente alla emancipazione, si presenta come strumento di asservimento»[10]. Questo atteggiamento, proprio del postmoderno, che, a parole, afferma di richiamarsi all’Illuminismo, è, in realtà, un vero e proprio anti-illuminismo, il «cuore di tenebra del moderno»[11].


La presenza di anche solo una di tali fallacie renderebbe di per sé, quasi in automatico, inconsistente l’intero movimento. Tuttavia, e parlo per esperienza personale, è difficile far comprendere tali difetti metateorici ad un postmoderno, ad uno che, per partito preso, ha preso congedo dai grandi racconti del moderno[12], collocandosi così, storicamente quanto culturalmente, “dopo” la modernità stessa. Inutile anche fare osservare come alla fin fine riducano ad unum le varie storie filosofiche della modernità[13]: o non lo comprendono o non vogliono comprenderlo. Tanto, hanno preso congedo (anche se non si capisce bene cosa abbiano davvero abbandonato)!
Ma le critiche dall’esterno non hanno lo stesso valore di critiche dall’interno. Così, assumono valore le parole di Ferraris.


Secondo l’autore, vero e proprio proditor, alla fine, e solo uno sciocco non se ne accorgerebbe, il postmoderno è finito in quanto, avendo raggiunto i suoi obiettivi, è collassato su sé stesso, ovvero sui limiti intrinseci del processo conoscitivo. Solo in questo modo si ricava uno spazio concettuale nuovo per la realtà. Infatti, il “nuovo realismo” altro non è che una prospettiva interna al postmoderno consistente nel “ricostruire” i fatti dopo la loro “decostruzione”. Per questo motivo, Ferraris attacca i «tre punti cruciali»[14] del postmoderno: (I) l’ironizzazione; (II) la desublimazione; e, (III) la deoggettivazione. In genere, e ne ho esperienza diretta, i postmoderni amano definirsi ironici, ed invitano gli altri allo stesso atteggiamento. Cosa vuol dire, però, essere ironici? In genere, ironizzare su tutto, su di sé, sugli altri, sulla conoscenza altrui, ed anche sulla propria. Questo perché «prendere sul serio le teorie»[15] è indice di «una forma di dogmatismo»[16]. Allora, è bene distaccarsi dalle opzioni teoriche, senza prendersi troppo sul serio. Ecco perché altrettanto spesso i postmoderni fanno tanto uso (abuso!) di virgolette, di citazioni, di inversioni delle parole: se bisogna distaccarsi dalle teorie, è bene virgolettarle, anche per rendere ben visibile il personale distacco. Facile prevedere, allora, come va a finire: ironizzando, si finisce con il non prendere sul serio (quasi) nulla. La desublimazione prende forma dall’atteggiamento postmoderno di considerare la ragione e l’intelletto «forme di dominio»[17], privilegiando così il desiderio e il corpo una sorta di via per la liberazione, una riserva di emancipazione. Infine, non essendovi fatti (ma solo interpretazioni[18]), «la solidarietà amichevole deve prevalere sull’oggettività indifferente e violenta»[19].

In questa sede, mi appare rilevante l’ultimo punto, la de oggettivazione, anche per far luce sulle conseguenze proprie del postmoderno. Infatti, essa consiste nell’idea secondo la quale la realtà, in quanto oggettività, sia un male, da evitare anche a costo dell’ignoranza, per contrasto valutata positivamente. Questa è una deriva da rigettare: la conoscenza condurrebbe infatti all’ignoranza. Meglio ignoranti, che sapienti. Infatti, la de oggettivazione delle cose, la spoliazione del carattere reale della realtà, «si trasforma in una delegittimazione del sapere umano»[20].

Secondo Ferraris, l’azione congiunta, e combinata, di ironia, de sublimazione e de oggettivazione, conduce al «realitysmo»[21], una prospettiva secondo la quale viene «revocata qualsiasi autorità al reale, e al suo posto si imbandisce una quasi-realtà con forti elementi favolistici»[22]. Forse questa è una semplificazione[23], ma ha la sua ragion d’essere.


(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f2/Pier_Aldo_Rovatti.jpg)


Quindi, secondo l’autore, il postmoderno è stato alfine irresponsabile e demagogo in quanto ha reso favola il mondo vero e reso inabili a difendersi gli uomini.
È giunto, dunque, il tempo di tornare alla realtà, ai fatti, alle cose, ricostruendo la realtà nella sua oggettività[24].
Se così, però, stanno le cose, mi si conceda di rilevare come quanto per Ferraris è un “nuovo realismo” per me è un (semplice) realismo. Ma la ragione del neo in Ferraris è piana: recuperare un orizzonte che la propria prospettiva aveva eclissato dietro le interpretazioni, dietro le «favole».


A chi non ha mai smesso di credere nell’esistenza di una realtà, magari anche radicalmente altra dalla sua stessa conoscenza, Ferraris non toglie nulla, ma aggiunge sicuramente consapevolezza nella fondatezza della propria posizione realista.

Note

[1] Cfr. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma – Bari, 20122, p. x e sgg.
[2] Cfr. P. A. Rovatti - G. Vattimo (eds.), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 199515.
[3] Cfr. P. A. Rovatti, Inattualità del pensiero debole, Forum, Udine, 2011, p. 10 e sgg.
[4]. Cfr. M. Ferraris, op. cit., p. 29.
[5] Ivi, p. 30.
[6] Ivi, p. 31.
[7] Ivi, pp. 29 – 30.
[8] Ivi, p. 30.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. 31.
[11] Ibidem.
[12] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 200516, p. 6.
[13] Cfr. P. Rossi, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 16: «I postmoderni pensano l’intera storia dell’Occidente […] come un tutto unitario. Hanno una spiccata preferenza per le sistemazioni unilineari. Vedono il postmoderno come la negazione del moderno e si appagano spesso di asserzioni definite solo per negazione […] Il postmoderno […] è davvero privo di un’idea centrale e si configura come un repêchage, un assemblaggio di parti che furono di altre epoche».
[14] Cfr. m. ferraris, op. cit., p. 7.
[15] Ibidem.
[16] Supra.
[17] Ibidem.
[18] Verrebbe da chiedere se anche questo è un fatto. Ma, in genere, al riguardo tutti i postmoderni che ho conosciuto mettono in funzione meccanismi di fuga – evitamento. E d’altra parte, proprio perché non sono postmoderno par loro, come biasimarli? Sarebbe come metterli allo specchio!
[19] Cfr. m. ferraris, op. cit., p. 7.
[20] Ivi, p. 22.
[21] Ivi, p. 24.
[22] Ibidem.
[23] Cfr. p. a. rovatti, Inattualità … op. cit., p. 9 e sgg.
[24] Cfr. m. ferraris, op. cit., p. 78 e sgg.