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mercoledì 27 agosto 2014

Autopromozione3


Recensione a Vincenzo Rosito, Michele Spanò, I soggetti e i poteri. Introduzione alla filosofia sociale contemporanea


Vincenzo Rosito e Michele Spanò scrivono a quattro mani il presente volume che possiede l'indubbio pregio di introdurre alla conoscenza della filosofia sociale contemporanea, oltre a fornire nel contempo un'utile definizione della materia, che soffre, praticamente da sempre, della sua natura atipica nel ventaglio, pur amplissimo, delle discipline filosofiche, stretta com'è tra antropologia, filosofia politica e filosofia pratica.

Il testo, corposo nel numero di pagine, e densissimo, da un punto di vista concettuale, dovendo gli autori condensare in poco spazio i nutriti nuclei concettuali presi in considerazione, consta di una introduzione e di cinque capitoli, ciascuno dei quali significativamente declinati al plurale ed indicanti specifici verbi della grammatica propria della (presente prospettiva prescelta di) filosofia sociale.

Prima, però, di esaminare i principali concetti dei filosofi sociali contemporanei, gli autori si premurano di fornire un inquadramento di massima della disciplina. Essa «indaga [...] i nessi sociali che precedono e consentono ogni messa in forma istituzionale» (p. 9), quei legami tra attori sociali i quali, per loro specifica natura, stanno sia prima sia durante ogni manifestazione istituzionale dei comportamenti sociali. In ogni caso, gli autori sostengono una prospettiva neutra della disciplina, concepita come mera diagnosi dei nessi sociali quali emergono spontaneamente, ed in nessun caso si prefiggono finalità normative o valutative della società umana. Al contrario, per essi la filosofia sociale «descrive tipi diversi di normatività» (p. 10), vale a dire procede alla «descrizione dei regimi di normatività che percorrono la società e che sono dunque la premessa [...] per poterla eventualmente criticare e trasformare» (p. 10). Detto altrimenti, la filosofia sociale non si presenta come una critica della società, come una prescrizione ideale di organizzazioni alternative della stessa, quanto piuttosto come discorso della società. Il teorico viene chiamato in causa per poter «dire» la società. I due termini plurali del titolo stesso esprimono proprio la prospettiva presente: un'analisi congiunta dei differenti poli della «dimensione associativa umana» (p. 11). La società, infatti, conseguentemente a questa concezione, «è il "luogo comune" di soggetti e poteri» (p. 11), quel «luogo in cui si situa la filosofia sociale» (p. 11) chiamata a compiere «un'indagine dinamica dei rapporti interni a soggetti e poteri [...] e del loro modo di comporsi» (p. 11), sia che si tratti di politica sia che si tratti di conflitto sia che si tratti di democrazia. Pertanto, essa viene compiutamente concepita, e perseguita, come «una forma di critica immanente al proprio tempo» (p. 13) poiché «descrive il rapporto tra i soggetti e i poteri in una data epoca» (p. 13) e «diagnostica le forme degli uni e degli altri» (pp. 13-14), riflette in maniera critica «sulla trasformabilità della condizione presente» (p. 14) e offre «gli strumenti per dare corso a questa trasformazione» (p. 14). I soggetti e i poteri, pertanto, non si danno come 'cose', ma sempre come 'discorsi'. Di conseguenza, allora, la filosofia sociale opera sul linguaggio, «sui suoi limiti e le sue potenzialità, sul suo carattere vincolante e su quello abilitante» (p. 14).

(continua)

Qui la recensione completa.

martedì 8 ottobre 2013

Filosofia sociale

(recentemente ho introdotto l'argomento, lo faccio adesso in maniera molto più estesa, recensendo direttamente il testo in questione)


Recensione a: V. Rosito – M. Spanò, I soggetti e i poteri. Introduzione alla filosofia sociale contemporanea, Carocci, Roma, 2013, pp. 250.




Vincenzo Rosito e Michele Spanò scrivono a quattro mani il presente volume che introduce alla filosofia sociale contemporanea.


Il testo, corposo nel numero di pagine, consta di una introduzione e di cinque capitoli, ciascuno dei quali significativamente declinati al plurale ed indicanti specifici verbi della filosofia sociale.


Gli autori forniscono un inquadramento di massima della disciplina. Essa «indaga […] i nessi sociali che precedono e consentono ogni messa in forma istituzionale» (p. 9), quei legami tra attori sociali i quali, per loro specifica natura, stanno sia prima sia durante ogni manifestazione istituzionale dei comportamenti sociali. La filosofia sociale «descrive tipi diversi di normatività» (p. 10), vale a dire che procede alla «descrizione dei regimi di normatività che percorrono la società e che sono dunque la premessa […] per poterla eventualmente criticare e trasformare» (p. 10). Detto altrimenti, la filosofia sociale non si presenta come una critica della società, come una prescrizione ideale di organizzazioni alternative della stessa, quanto piuttosto come discorso della società. Il teorico viene chiamato in causa per poter “dire” la società. La società, infatti, «è il “luogo comune” di soggetti e poteri» (p. 11), quel «luogo in cui si situa la filosofia sociale» (p. 11) chiamata a compiere «un'indagine dinamica dei rapporti interni a soggetti e poteri […] e del loro modo di comporsi» (p. 11). Pertanto, essa viene compiutamente concepita come «una forma di critica immanente al proprio tempo» (p. 13) poiché «descrive il rapporto tra i soggetti e i poteri in una data epoca» (p. 13) e «diagnostica le forme degli uni e degli altri» (pp. 13 – 4), riflette in maniera critica «sulla trasformabilità della condizione presente» (p. 14) e offre «gli strumenti per dare corso a questa trasformazione» (p. 14). I soggetti e i poteri, pertanto, non si danno come 'cose', ma sempre come 'discorsi'. Allora, la filosofia sociale opera sul linguaggio, «sui suoi limiti e le sue potenzialità, sul suo carattere vincolante e su quello abilitante» (p. 14).


Il primo capitolo prende le mosse da un verbo particolare, vale a dire Riconoscersi. Per gli autori, esso significa gettare uno sguardo sulle pratiche del riconoscimento. La scuola di Francoforte è, al riguardo, il punto focale di tale discorso in quanto si cerca di fornire importanti chiavi di lettura per lo spaesamento moderno della soggettività, oramai incapace di riconoscersi. Ma non basta certo denunciare il processo alienante del sistema di produzione capitalistico per salvare il soggetto, è necessario piuttosto spostare il discorso sulle «pratiche discorsive in seno alle quali il sociale prende forma e la realtà viene cooperativamente costruita» (p. 22). È tuttavia con Honneth che la pratica del riconoscimento viene fattivamente riconosciuta come tale e presa seriamente in considerazione. Egli, infatti, «intende fornire principalmente una concezione critico-normativa dei processi costitutivi dell'autocoscienza e del valore strutturalmente produttivo del conflitto e del dissenso» (p. 27). Attingendo al lascito culturale di Habermas da un lato e di Foucault dall'altro, Honneth si propone come saggio interprete della secolarizzazione, vale a dire dell'attuale disagio della civiltà occidentale stretta dalla perdita della propria centralità secolare e pressata da forze esterne potenti. Più sede di contrasti e conflitti che di composizioni e mediazioni. Solo attraverso il cooperativo riconoscimento dell'identità singola con l'identità dell'altro appare possibile rinnovare il processo del dialogo tra soggetti. Ovviamente, la filosofia sociale non guarda solamente a questo apparato teorico, ma prende in considerazione anche ben altri registri, come la teoria del dono, equiparato ad un vero e proprio «modello sociale onnivalente» (p. 41), vale a dire una struttura sociale ubiquitaria. Con la donazione, in altri termini, si instaura una «circolarità virtuosa» (p. 46) del dare, del ricevere e del ricambiare che realizza una «costituzione partecipata di rapporti sociali» (p. 46). Tuttavia, non tutti concordano sulla natura disinteressata della donazione. Derrida è uno dei massimi esponenti di questa teoria ed oppone dono a reciprocità nello scambio. Recentemente, si è anche insediato un altro modello filosofico che prende il nome di filosofia della cura. Essa «descrive infatti un modo delle relazioni sociali attraverso il quale prende forma una specifica gestualità morale: quella dell'interessamento pratico, della sollecitudine affettiva e della tutela etica» (pp. 59 – 50). Prendendo atto della consustanziale vulnerabilità umana, la nozione di cura esprime una tipologia di relazioni sociali fondate appunto sull'interessarsi del destino esistenziale altrui e del prendersi cura dei propri simili, al punto a configurarsi come la «possibilità di una base etica condivisa tra pubblico e privato» (p. 53). La filosofia politica moderna, invece, ha orientato la propria riflessione attorno al rapporto problematico della libertà e della eguaglianza. Basti pensare a Rawls per il quale la giustizia è «la categoria primaria dell'analisi filosofica delle interazioni sociali» (p. 61). Ne emerge, pertanto, come nei coevi conflitti sociali un ruolo sempre maggiore venga ad essere svolto dall'«identità sociale» (p. 65) la quale svolge due distinte funzioni: 1) identificare i gruppi sociali di appartenenza dei singoli a determinate categorie, in funzione della quale formulare in maniera corretta le «realtà materiali o immateriali che definiamo beni sociali» (p. 65); e, 2) solo in base ad essa, ciascun individuo «matura quelle capacità specifiche con cui è in grado di percepire il mondo come proprio e sé stesso come membro di una determinata comunità» (p. 65). Il riconoscimento di un ruolo importante all'identità sociale, e alla riscoperta del suo ruolo all'interno delle teorie economiche, è uno dei grandi meriti di Sen secondo il quale il grande limite delle teorie economiche contemporanee è di muovere «dall'illusione dell'unicità» (p. 66), vale a dire ignorare come alla base dell'identità sociale possano esservi processi arbitrari e decisionali che sperimentano e sintetizzano appartenenze diverse in funzione al genere sessuale, alla lingua, alle abilità pratiche, alle conoscenze culturali. Così, l'equità sociale andrebbe valutata «in relazione alle modalità concrete che permettono a ciascuno di realizzare funzioni e di sviluppare competenze reali» (p. 67). La libertà per Sen consiste «nella disponibilità concreta ed equamente garantita» (p. 68) delle condizioni che rendono possibile il dispiegamento delle capacità individuali.



Il secondo capitolo s'intitola Governarsi e pone al centro della riflessione la forma di organizzazione politica attraverso la quale i soggetti si pongono in relazione a dei poteri. La filosofia sociale guarda alla democrazia «come un dato sociologico» (p. 72), ravvisandone anche l'«ineliminabile componente emotiva, affettiva, passionale» (p. 72). In questo modo, ad esempio, per Tocqueville la democrazia non è una forma di governo, ma «uno stato della società» (p. 74), segnatamente quella condizione che si realizza con la scomparsa dell'aristocrazia e con l'estensione universale del principio di eguaglianza. Ma alla pari di Tocqueville, Mill riscontra la necessità del governo di una società la quale proprio perché plurale è «mossa da interessi e desideri diversi» (p. 76). Così, la filosofia sociale si trova a lavorare su questo terreno, «l'antropologia dell'homo democraticus contemporaneo» (p. 77). La disamina dei mutamenti nei desideri dei soggetti relati da diversi poteri è alla base della ricognizione foucaltiana intorno ai governi delle società. Foucault conia appunto il concetto di governamentalità, vale a dire «una specifica razionalità di potere» (p. 81) che non si identifica né con un'istituzione né con una teoria. Essa si rivela un «dispositivo articolato secondo una duplice polarità: il governo di sé e il governo degli altri» (p. 82). Esso permette a Foucault di criticare il modello giuridico del potere, di rendere più chiaro il rapporto tra tecniche del sé e tecniche del dominio, di estendere il campo del potere sino a poterlo descrivere «come un gioco strategico, come governo e come dominio» (p. 86). Il principale lascito teorico di Foucault alla filosofia sociale appare essere quello di aver suggerito come il potere non debba essere analizzato in funzione di una sua pretesa essenza, ma «nei modi specifici in cui si esercita» (p. 89), ossia come entra in contatto con i soggetti. Vi sono, comunque, anche altre prospettive al riguardo le quali conducono una critica alla democrazia la quale va di pari passo alla crisi della stessa. Per rispondere a quest'ultima, Sintomer propone la procedura del sorteggio perché garantisce «imparzialità e favorisce la qualità della deliberazione» (p. 103). Si tratterebbe, per dirlo altrimenti, di uno strumento democratico che impone «il principio di eguaglianza» (p. 103). Nonostante ciò, però, esiste un grosso limite alla pratica in questione. Infatti, a chi rispondono quanti sono eletti per sorteggio? Si tratta, allora, del problema di «un equilibrio tra la procedura del sorteggio e il rispetto di una rappresentanza sociologica della società» (p. 103). A fronte di questi problemi, altri autori hanno proposto modelli teorici del tutto differenti, come nel caso dei comunitaristi. Per tutti costoro, infatti, la comunità è un «modo di abitare la società, un modo di farne esperienza» (p. 106). Le principali fonti di questo filone di pensiero sono Tönnies e Bataille. Per Nancy, invece, la comunità è il luogo «dell'esposizione delle esistenze finite» (p. 120). Per la filosofia sociale della comunità, «l'altro, il simile, non è riconosciuto perché uguale a me» (p. 123) dal momento che non esiste una comune origine «cui fare riferimento» (p. 123). Se ciascuno «è il suo fuori, è solo nella propria esteriorità che ci si riconosce simili» (p. 123). La comunità è appunto quel regime ontologico «in cui l'uno e l'altro sono simili» (p. 123), in cui cioè «l'identità è sempre spartita e perciò sempre perduta e mai posseduta» (p. 123). Di conseguenza, la progettualità politica da descrivere cui si mette capo non è quella comune dei diritti, dei doveri, delle tutele, dei contratti, del consenso, ma quella dell'esperienza, vale a dire «un'esperienza della spartizione, dell'inoperosità e della comunicazione dell'una come dell'altra» (p. 126). La riflessione di Nancy però spinge il pensiero sulla comunità ben oltre tutto ciò, attestandosi piuttosto su una «prospettiva ontologica sulla politica» (p. 126). Peraltro, tutto il fiorire di filosofie fenomenologiche nel corso del XX secolo ha a cuore la tematizzazione del rapporto tra il soggetto e l'altro al punto che non è scorretto né esagerare affermare che proprio questo sia uno dei temi che «definisce la stessa struttura dell'essere» (p. 128).



Il terzo capitolo s'intitola Sollevarsi e si occupa principalmente della sovversione del soggetto ad opera di psicoanalisi e marxismo. Grazie a Freud, sappiamo che il soggetto è perfino estraneo a sé stesso, in alcun caso «padrone e sovrano dei suoi atti e dei suoi pensieri» (p. 137). La sovversione nei confronti del sovrano assoluto della filosofia occidentale è radicale ed impone una riflessione del tutto diversa del rapporto tra i singoli, così sottodeterminati dal giogo dell'irrazionalità, e i poteri, così determinati da logiche estranee alla razionalità occidentale. Peraltro, la civiltà stessa finisce con l'apparire la negazione stessa della naturalità degli esseri umani, come una gabbia che irretisce gli uomini. La psicoanalisi, dal canto suo, diviene una «pratica di orientamento del desiderio e della sua soggettivazione singolare da parte di ciascuno» (p. 143). Tuttavia, la nota comune all'ipermodernità di cui siamo transito, secondo Recalcati, è caratterizzata dal trionfo del discorso del capitalista, vale a dire che la continua archiviazione del desiderio, altrimenti non soddisfacibile in alcun caso, nell'inconscio dove però continua ad operare, provoca l'evaporazione stessa del desiderio. Otteniamo, pertanto, un soggetto «colpevole, ma non dotato di senso di colpa» (p. 145). L'elemento, però, che maggiormente colpisce nel panorama contemporaneo è il conflitto, ossia l'esistenza di un legame sociale il quale si realizza solamente nella forma dello scontro. Pertanto, gli autori mettono assieme, proprio con riguardo alla tematizzazione del conflitto figure l'una diversa dall'altra, come Gramsci, Schmitt e Althusser. Questo perché essi sono accomunati da una comune maniera di concepire la società, vale a dire un «campo di lotta» (p. 147) di «visioni parziali di verità che lottano per istituirsi come universali» (p. 148). Tuttavia, il presente discorso sulla contesa di parzialità che vorrebbero imporsi come generalità incrocia il discorso sui significanti, ossia sui meccanismi sociali di riconoscimento e identificazione per mezzo dello scontro tra opzioni diverse e sovente contrarie.




Il quarto capitolo ha come titolo Nominarsi ad indicazione dell'orizzonte tematico prescelto: l'esame del rapporto tra i soggetti e i poteri «interrogandosi criticamente sul soggetto» (p. 175). La filosofia sociale deve stavolta prendere in considerazione tutti quei fermenti e quelle idee che l'antropologia, la relatività della cultura postcoloniale e la differenza sessuale offrono alla sua tematizzazione. Infatti, mentre il postcolonialismo chiede al soggetto «della filosofia sociale da dove parla» (p. 175), il femminismo gli «chiede chi è» (p. 175). Il soggetto viene così decostruito dalla forma generale ed occidentale quale è stato conosciuto in filosofia. La ricerca del chi del potere delinea in questo modo un orizzonte semantico innovativo, per non dire differente dalla tradizione consolidata in questo senso. In questo modo, anche, decostruire la razionalità occidentale consente pure di porre in essere «una continua autocritica» (p. 197). Anche il femminismo critica l'usurpazione dell'universale da parte di una parzialità. Per di più, contesta «la stessa forma simbolica dell'universale» (p. 199), un prodotto come tanti altri «del pensiero maschile» (p. 199). Bisogna così abbandonare il dualismo sinora imperante, anche se occultato dietro le parvenze di generalità ed universalità, «per aprire le forme del sapere all'esperienza femminile» (p. 199). L'idea di una differenza sessuale da far valere anche in sede teorica comporta cambiare punto di partenza per le riflessioni filosofiche: non più concetti o modelli generali, ma la particolarità di corpi gli uni differenti dagli altri. Per Butler, ad esempio, la differenza sessuale è «una delle norme che rende possibile il soggetto» (p. 207), vale a dire che lo rende «intelligibile e leggibile nello spazio sociale» (p. 207). In altri termini, va disinnescata «la polarizzazione tra natura (il sesso e il femminile) e la cultura (il genere maschile)» (p. 207). Il soggetto, cioè, non esiste né prima né dopo la corporeità, la dimensione della differenza corporale. Solo così diventa spiegabile la maniera attraverso la quale la costruzione del soggetto abbia sempre comportato un'esclusione: «se porta qualcosa nel campo della lingua […] lascia fuori qualcos'altro» (p. 208).




Il quinto capitolo s'intitola Immaginarsi. La natura del titolo non è casuale dal momento che i processi di globalizzazione in atto appaiono così irresistibili e violenti da porre al filosofo sociale il compito, certo difficile anche se non impossibile, per il mezzo della critica, di «creare le condizioni di possibilità per nuove configurazioni di senso all'interno della prospettiva globale» (p. 211). La globalizzazione non descrive un'estensione globale delle relazioni, dei saperi e delle pratiche, ma il fatto che «questi mutamenti interessano trasversalmente discipline diverse e ambiti differenti del sapere» (p. 212). Di fronte a questo scenario, il compito della filosofia sociale è quello di «rinvenire ambiti e significati in virtù dei quali possano essere “immaginati” funzioni, ruoli e saperi in grado di limitare gli eccessi in-globanti del capitalismo contemporaneo» (p. 213). D'altra parte, è anche vero che i soggetti sociali «sono attori non statali» (p. 214), ma planetari. Lo sfumare dei contorni nazionali è anche l'orizzonte di senso del fenomeno meglio conosciuto come glocalismo, vale a dire la «formazione e la rivendicazione crescente di identità culturali locali, che tendono ad accentuare fortemente alcuni tratti particolaristici di tipo etnico o religioso» (p. 216), apparentemente forme locali di resistenza all'omologazione planetaria, in realtà «parte integrante di quel processo di omologazione» (p. 216). I processi di globalizzazione, in altri termini, impongono di tener debitamente conto di tre differenti elementi: 1) lo sganciamento da forme e vincoli sociali precostituiti in senso tradizionale; 2) perdita delle sicurezza tradizionali; 3) istituzione di un nuovo tipo di legame. In questo senso, appare importante il contributo della prospettiva interculturale la quale cerca di «giudicare determinati contesti sociali nella misura in cui questi creano rappresentazioni di culture considerate estranee» (p. 225). Sicché, l'«interazione reciproca e la compenetrazione dialettica tra cultura e politica rappresentano infatti il vero polo duale intorno al quale è possibile ripensare la categoria di umanesimo come ambito di interpretazione e di critica del mondo contemporaneo» (p. 226). Come lo sfondamento dei confini nazionali impone un ripensamento alla dialettica tra la politica e la cultura, allo stesso modo anche lo sfondamento degli orizzonti culturali della biologia impone una nuova riflessione attorno all'umano. L'essere umano, perché soggetto della tecnica, «si presenta come l'unico essere vivente capace di attivare processi di modificazione riflessiva e ragionata delle coordinate naturali in cui è iscritto» (p. 227). La filosofia sociale, dunque, deve porsi in dialogo con l'antropologia della tecnica in quanto quest'ultima si configura come «una disciplina imprescindibile e un campo tematico necessario» (p. 227). Essa, infatti, «è indispensabile per comprendere e interpretare i mutamenti antropologici in atto nelle società contemporanee, in relazione ai recenti sviluppi delle nuove tecnologie» (p. 229), in maniera tale che la filosofia sociale possa soffermarsi «su queste trasformazioni» (p. 229) individuando quelle categorie «in grado di valutarne la portata e i significati» (p. 229). Su tutti i temi importati dall'antropologia della tecnica ne spicca uno: quello «dell'identità personale» (p. 233). Un altro aspetto che la condizione postmoderna della società umana planetaria impone è quello relativo all'autocoscienza religiosa. Negli ultimi anni è tornato di moda il sentimento religioso al punto che la filosofia sociale non può sognarsi di ignorarlo. Così, essa si trova costretta a prendere in considerazione gli effetti di tre elementi necessari: «le credenze, i riti e le istituzioni» (p. 234). Su questi gioca adesso un ruolo imprescindibile il pluralismo religioso il quale irrompe «in tempi e forme molto spesso inaspettati» (p. 237). Infatti, è al suo interno che si colloca l'orizzonte «in cui interpretare le implicazioni sociali e politiche di tali mutamenti» (p. 237).




(immagine tratta da: http://www.inmondadori.it/img/soggetti-poteri-Introduzione-Michele-Spano-Vincenzo-Rosito/ea978884306630/BL/BL/12/NZO/?tit=I+soggetti+e+i+poteri.+Introduzione+alla+filosofia+sociale+contemporanea&aut=Vincenzo+Rosito)

giovedì 3 ottobre 2013

Mondializzazione ...

Che può dirsi della globalizzazione? 


In soldoni, ed in estrema sintesi, ma senza alcuna pretesa di esaustività, quanto segue ...


I processi di globalizzazione impongono di tener debitamente conto di tre differenti elementi: 1) lo sganciamento da forme e vincoli sociali precostituiti in senso tradizionale; 2) perdita delle sicurezza tradizionali; 3) istituzione di un nuovo tipo di legame. 



In questo senso, appare importante il contributo della prospettiva interculturale la quale cerca di «giudicare determinati contesti sociali nella misura in cui questi creano rappresentazioni di culture considerate estranee»[*].


D'altra parte, l'impressione generale non è forse che siamo tutti un po' estranei gli uni agli altri?



[*] Cfr. V. Rosito – M. Spanò, I soggetti e i poteri. Introduzione alla filosofia sociale contemporanea, Carocci, Roma, 2013, p. 225.





(immagine tratta da: http://www.villaggiomondiale.it/glob.gif)

martedì 24 settembre 2013

Alcune idee di filosofia sociale ...



Recentemente ho pubblicato un post sulla filosofia sociale. in questa sede vorrei aggiungere soltanto alcune considerazioni ulteriori che mi provengono dalla contemporanea lettura di I soggetti e i poteri. Penso che la filosofia sociale possa costituirsi attorno ai seguenti punti fondamentali:

1. indagine dei nessi sociali che precedono e consentono le messe in forma istituzionale;
2. assenza di una prospettiva normativa;
3. descrizione (avalutativa) della società;
4. centralità dei discorsi che costruiscono, mutano ed abilitano lo spazio sociale;
5. assenza di autonomia disciplinare, ma crocevia e transito di altre discipline.

Ora sul punto 1) credo non possano esserci dissensi. 


Sul punto 2) credo non si possa che concordare: il filosofo sociale non ha mete ideali o modelli da proporre in funzione dei quali indicare come dovrebbe essere la realtà sociali, qualcosa di differente da com'è in effetti. La progettualità politica può essere solamente posteriore ad una filosofia sociale. 


Per questo stesso motivo, a mio sommesso parere, è corretto il punto 3): il filosofo sociale intende "riflettere", per quanto umanamente possibile, la società che, per parte sua, "è" lui stesso! 


Il punto 4) è anch'esso rilevante, ma per ragioni ulteriori. Infatti, in quanto grammatica dei discorsi sociali, la filosofia sociale presenta discorsi sulla società, discorsi della società, e così via. Mediante i discorsi, la società si istituisce, si trasforma, e così via. 


Piuttosto, nutro qualche perplessità, invece, sul punto 5). Penso, infatti, al contrario, che la filosofia sociale abbia una sua autonomia disciplinare rispetto a discipline affini e che, al contrario, rimarchi ciò proprio nella sua collocazione trasversale, come luogo di transito di intenzionalità e discorsi "altri".

Trattandosi, comunque, di idee che costituiscono ancora il bacino di partenza, ritengo di poter calare su di loro il beneficio dell'inventario e di tenerle "buone" per successive riflessioni, tanto sul testo di Rosito e Spanò quanto sulla disciplina in sé.








(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYCYWL4Whz1VNOBUlG3HGkhhK9N8kFiXjmJONK5Rfo-eC-Fd87ghOAI1gcyfGC-wfqlGgYowyPBoVaxbD-rD06bMFz_UvLmMvgUVME59rLai1kqr5sRNEi7K00qa9mosnJG4rUMMMwcHg/s320/Truman+show.png)

venerdì 24 maggio 2013


Spunti di filosofia sociale

  1. Gustiamo la socialità.

Sarebbe bello poter conseguire almeno una volta la finalità massima della filosofia secondo Aristotele, ossia poter dire tutto quel che c'è che da dire intorno ad una cosa, un argomento di propria scelta. Purtroppo, siamo uomini e le cose non vanno così, in genere quasi mai, figuriamoci allora una volta che ci proponiamo un compito così impegnativo com'è quello di parlare della filosofia sociale.


Nel corso del presente contributo, pertanto, m'impegno a fornire un resoconto “umano” della filosofia sociale, nella piena, e, spero anche matura, consapevolezza che non è possibile fornire un resoconto completo, esaustivo e corretto della materia in questione. Siccome non mi è consentito, per miei limiti e per ovvie esigenze di spazio, condurre un discorso completo ed esaustivo delle molteplici possibilità in campo, fornirò solamente degli “assaggi” della filosofia sociale, ossia dei “carotaggi” nel suolo costituito da questa materia, vasta ma affascinante, e stimolante nelle sue mille sfaccettature.


Pertanto, lungi da me qualsiasi tentazione enciclopedica e/o esaustiva. Come moderne termiti, sonderò il terreno sul quale desidero muovermi qua e là e renderò conto di quel poco che è possibile dire sopra tali assaggi. 

Ma non intendo farlo alla maniera a me consueta, stavolta intendo muovermi lungo sentieri nuovi, secondo movenze a me non consuete. Pertanto, prendo le mosse dal riconoscimento dei limiti propri all'umano, tanto in estensione quanto in profondità. Non posso certo dilungarmi molto nell'analisi e nemmeno illudermi di poter affondare sensibilmente in profondità. Le mie parole sono limitate così come le mie visioni e interpretazioni. Riconoscere ciò non solo è saggio, ma rende anche onesto il lavoro che si cerca di compiere. D'altra parte, mi trovo nelle medesime condizioni della metafisica occidentale: costruisce una rete con la quale cerca di catturare la preda salvo accorgersi solo in un secondo tempo che, a dispetto delle sue intenzioni e speranze, la selvaggina è fuggita dalla rete[1]. 


Francamente, penso che molto spesso al contrario la selvaggina non ricada nemmeno entro lo spazio della rete stessa. Così, ci indaffariamo molto spesso a costruire categorie concettuali e strumenti euristici senza pensare anche solo per un attimo che magari queste nostre costruzioni falliscono allo scopo. 


Il discorso che condurrò pertanto in questa sede non può che riconoscere i propri limiti, come il frutto di un uomo fatto di carne ed ossa, fragile sin nel midollo eppure capace di pensieri mirabili. Costruiamo una disciplina con un nome altisonante, filosofia sociale, ma questa deve accettare la fallibilità umana, di pensiero, di concetto, di lessico, di utilizzo, e così via. Essere limitati vuol dire anche, e forse non solamente, mettercela tutta nel pensare ad una certa cosa, nel dire una certa cosa, nell'agire in un certo modo, nel fare le cose così e colà, ma accettare sin da principio la possibilità, sempre presente, di sbagliare, di fallire, di dover modificare successivamente previsioni, certezze, conoscenze, etc. 


La filosofia sociale è, così, solo una possibilità fallibile dell'umano, e il presente discorso su di essa un discorso ancor più limitato e provvisorio. Il postmoderno ci dice che ora nulla più è capace di muovere le coscienze in una direzione piuttosto che in un'altra, che abbiamo preso congedo, definitivo e provvisorio, croce e delizia dei paradossi propri dell'attuale condizione (post)moderna della cultura contemporanea[2], dalle grandi metanarrazioni del passato[3]. Non si tratta più, allora, di concepire l'impresa del filosofo come un processo di ascensione verso l'alto, la purezza e la globalità di quanto v'è da conoscere, per, infine, riempirsi di tale conoscenza[4], ma di rendersi conto di quanto sia influenzata, da motivi esterni, la nostra stessa conoscenza, e di come, anche, ogni nostra costruzione sia sempre “meticcia”, impura, complessa, mai del tutto esente da condizionamenti. 


Certo, non me la sento di condividere in pieno la prospettiva postmoderna, che certo ha i suoi indubbi meriti, e talvolta anche pregi, ma ritengo che ciò possa essere di una certa rilevanza soprattutto in questa sede, dal momento che abbiamo a che fare con una disciplina dallo statuto certamente originale, molto di confine, che opera sul filo del rasoio, come peraltro sarà più chiaro in seguito, tra discorsi “altri”, tra razionalità differenti, tra tipi di discorsi, e giustificazioni, del tutto eterogenei gli uni agli altri. 



Se così stanno le cose, ha più senso proporsi l'ideale della scienza rigorosa? Ritengo di sì perché qui non si sta negando valore alle costruzioni razionali, ma si sta richiedendo onestà intellettuale nel nostro “sporcarci le mani” in prima persona. Per Husserl ancora la filosofia è ricerca rigorosa che soddisfi le più alte esigenze teoretiche[5], per noi le cose sono pure così ma tengono conto di una complessità sconosciuta agli inizi del XX secolo. Tant'è vero che la massima manifestazione di questa matura consapevolezza è proprio la produzione di opzioni teoriche paradossali, come, ad esempio, quella postmoderna la quale pone in essere un contenuto in diretta contraddizione con la forma del dire filosofico, del discorso filosofico[6]. Riconosciuti i limiti della conoscenza umana, non resta che accedere agli ultimi sbocchi possibili del processo meglio noto come secolarizzazione, ovvero immanentizzare il discorso filosofico stesso[7]. 


Per me, però, immanentizzare non vuol dire ridurre forma e contenuto del discorso filosofico, ma solo concedermi un freno epistemico: ridurre pretese e complessità d'analisi a tutto vantaggio, spero, dell'efficacia comunicativa. D'altra parte, se mettessi capo ad un assaggio di filosofia sociale privo di efficacia espressiva, c'è forse qualcuno che vorrebbe premiarmi?



Per questo motivo, e non solo però, il presente contributo assume una veste agile e sovente limitata: passerò velocemente da una definizione incompleta, e, quindi, “minima”, della materia in oggetto, al tipo di discorso suo proprio e ai suoi oggetti. Infine, un po' di tempo verrà dedicato alla mera indicazione, certo non esaustiva, delle discipline “altre” che la filosofia sociale certamente interseca nelle sue analisi.



(immagine tratta da: http://www1.lexmark.com/it_IT/about-us/corporate-social-responsibility/csr.jpg)


  1. Definizione minima.

La filosofia sociale è, innanzitutto e per lo più, una considerazione filosofica della socialità umana. Detto in questi termini, la disciplina in questione si occupa di una tema singolo, per quanto complesso al suo interno, la socialità, da intendersi in senso generale e vasto: dalle motivazioni che spingono un attore sociale a compiere, o meno, una determinata azione all'analisi degli effetti delle azioni umane su altri attori sociali, e così via. 


La nozione chiave è qui quella di 'socialità': l'insieme plurale che possiamo listare, senza pretesa di priorità e/o di rilevanza, come 1) intenzioni; 2) azioni; 3) risultato di intenzioni e azioni.



In questo modo, appare chiaro come la filosofia sociale si occupi sì del sociale, ma secondo un'ottica sua peculiare, ovvero del tipo di relazione tra (due o più) attori sociali intorno ad alcuni elementi importanti per ques'ultima (anche in questo caso, si tratta di un elenco senza ordine d'importanza): a) moventi; b) desideri; c) volontà; d) comportamento; e) contesto;f) influenze.

Su cosa sia un 'attore sociale' penso, sperando nel contempo di non sbagliarmi, dovrebbe essere chiaro ai più: l'essere umano preso nella sua singolarità nel momento in cui è calato, suo malgrado all'interno di una rete sociale di relazione (venendo ad essere chiamato anche a mettere in campo un comportamento sociale così e così in relazione a quello di altri come lui). Detto altrimenti, l'attore sociale è l'agente umano che mette in scena un comportamento socialmente riconoscibile come tale. Non tragga in inganno la finzione sociologica: l'essere umano è uno tramite di relazione con i suoi simili, in vista del quale legame opera in un certo modo (anziché in un altro). Come sosteneva Heidegger, pur nella sua fenomenologia astratta, la quale, appunto, si arresta sulla soglia della forma pura, senza cioè riuscire a scavare un po' più in profondità, l'esistenza è un esistere-con-altri[8]. 


La natura umana è, pertanto, eminentemente, relazionale: ha bisogno di riconoscersi negli altri e di comunicare con i propri simili. Nel racconto biblico, ad esempio, Dio crea Adamo e gli mette ai piedi un Regno, ma l'uomo si sente solo, ha bisogno di un suo simile, di un compagno, non per forza un "doppio", ma un altro che gli somigli[9]. Ma nell'entrare in relazione con altri, l'attore sociale compie delle azioni le quali sono collegate a moventi e desideri (desideri e attese in vista dei quali l'attore sociale compie scelte e azioni), volontà (la forza con la quale l'attore sociale opera per conseguire moventi e desideri prescelti), contesto (la rete sociale al cui interno muoversi, come orizzonte di senso e come limite alla propria libertà d'azione) e influenze (pur essendo in linea di principio libero, l'attore sociale sconta, data la sua natura relazionale, un influenzamento, tanto in termini cognitivi quanto in termini pratici).

L'interazione tra i moventi (che determinano la volontà), i desideri (che orientano le scelte), la volontà (il suo esercizio), il contesto (entro il quale agire) e le influenze (biologiche, culturali e contingenti) costituiscono globalmente il comportamento che la filosofia sociale desidera intenzionare.


La socialità, pertanto, come si vede, è molto vasta e presenta indifferenti sfaccettature sulle quali, di volta in volta, può cadere l'accento del ricercatore, così come, nel presente caso, del pensatore. 



Resta comunque il fatto che per darsi socialità vera e propria che il discorso non venga limitato al singolo attore sociale, ma che venga sempre presa in considerazione il risultato dinamico dell'interazione tra (almeno) due attori sociali (o più).

3. Argomenti.

Siccome la filosofia sociale, almeno per come la intendo in questa sede, è un discorso, suo malgrado, limitato su opzioni fallibili, dal momento che prende in considerazione il comportamento sociale di attori, ossia di persone in carne ed ossa le quali, e non solo per definizione, sono esseri connotati dalla finitudine, possiamo indicare grosso modo alcuni dei suoi argomenti, non so se principali o solo parziali e che elenco nella maniera seguente, senza allegare a tale elenco chissà quale opzione di rilevanza: 1) le istituzioni; 2) le norme; 3) l'azione; 4) i diritti; 5) la libertà.

La storia della filosofia ha mostrato nei secoli come il discorso possa essere condotto su ciascuno di questi temi. Ebbene, se ci limitassimo a seguirla mimeticamente, quale sarebbe lo specifico della disciplina in questione? Ne verrebbe fuori una materia affatto originale, priva, cioé, di un suo specifico. Allora, la filosofia sociale si occupa sì degli argomenti suindicati, ma lo fa in una sua maniera del tutto specifica.

Le istituzioni sono quelle azioni sociali, formali e informali, che vengono mandate ad effetto sulla base di regole condivise. Detto altrimenti, quando gli attori sociali operano secondo regole condivise e realizzano così delle pratiche sociali tra loro omogenee nel tempo si parla di istituzioni. Possiamo elencarne, a mo' di esempio, alcune: a) i contratti; b) i giochi; c) la famiglia; d) il lavoro; e così via.

Le norme sono quelle azioni sociali ordinate da norme, siano esse formali o meno. Detto altrimenti, quando gli attori sociali operano secondo regole condivise le quali vengono imposte coercitivamente e realizzano così delle pratiche socialie tra loro omogenee nel tempo si parla, riguardo a tali regole, di norme. Possiamo  elencarne, a mo' di esempio, alcune le quali operano a livelli diversi, tra loro in funzione gerarchica: a) norme consuetudinarie; b) norme morali; c) norme sociali; d) norme giuridiche; e così via. 


Non è un elenco esaustivo, ma rende bene l'idea di cosa siano le norme e quali ambiti regolino.

L'azione è lo specifico tipo di comportamento attivato dagli attori sociali. Penso si possa distinguere in merito, ancora senza nessuna pretesa di completezza e/o di infallibilità, tra: a) azioni; b) commissioni; c) omissioni. La differenza tra le prime, le seconde e le terze consiste nel rispettivo differente grado di decisione da parte degli agenti sociali: 1) iniziativa casuale del singolo attore sociale (che compie una generica azione sociale); 2) iniziativa voluta del singolo attore sociale (nel mandare ad effetto una determinata azione sociale); e, 3) iniziativa voluta del singolo attore sociale (nell'astenersi dal compiere una determinata azione).

I diritti sono delle pretese soggettive riconosciute, e promosse come tali, dall'insieme sociale. Detto altrimenti, la situazione sociale di tutti gli attori umani è differente: ad alcuni, rispetto ad altri, sono riconosciute e favorite delle posizioni di vantaggio. In questo caso, è l'organismo sociale che accorda a sue parti dei vantaggi mentre li nega ad altri. Nella comune teoria politica o anche giuridica, questo fatto viene legato all'equilibrio dinamico tra diritti e diritto: se aumentano i primi, diminuisce il secondo (e viceversa). Oppure, all'equilibrio dinamico tra la giustizia da una parte e l'arbitrio dall'altra: all'accrescere dell'una, diminuisce l'altro (o viceversa).

La libertà attiene all'iniziativa spontanea degli attori sociali e la filosofia sociale se ne occupa nella misura in cui intende compiere una ricognizione, pur limitata e fallibile, intorno ai limiti di tale libera iniziativa. Di conseguenza, la filosofia sociale prende in considerazione, ancora senza significati particolari da annettere a seguente elenco: a) interazione (tra attori sociali: quale limite all'azione singola); b) comunicazione (tra attori sociali: quale orizzonte condiviso nella scambio simbolico tra più attori sociali); c) azioni congiunte (tra attori sociali: come la libertà singola si coniughi con quella altrui); d) azioni cooperative (tra attori sociali: come la libertà singola cooperi con quella di altri); e) azioni opposte (di attori sociali: come le singole libertà vengano limitate dall'opposizione indiretta di altre loro pari); f) azioni confliggenti (di attori sociali: come le singole libertà si annullino nell'opposizione diretta di altre libertà loro pari ma si segno contrario); g) limiti all'azione (di attori sociali: come il grado complessivo di libertà per i membri di una data collettività sociale dipenda da fattori interni ed esterni).



Questi argomenti rendono conto, sia pure parzialmente, della stratificazione sociale, ossia della costruzione per livelli diversi, e differenti, ma tra loro relati, dell'insieme sociale. Ciascun livello inferiore è a sua volta funzione del livello superiore. Ragion per cui, cominciando dal più elementare, possiamo osservare, sia pure situazionalmente all'epoca coeva, la seguente strutturazione sociale: 1) individui; 2) gruppi; 3) classi; 4) società; 5) comunità; 6) stati; 7) relazioni internazionali.

La nota principale che, a mio sommesso parere, possiamo osservare nella condizione storica attuale, è l'elevata complessità raggiunta e progressivamente crescente la quale ri - definisce, entro certi limiti, la partecipazione del singolo attore sociale alla vita pratica di tali livelli. La cosiddetta globalizzazione enfatizza questo processo il quale non fa altro che aumentare la conflittualità interna al singolo livello al punto da paralizzare la stessa cooperazione tra attori sociali[10]. La partecipazione alla vita del proprio livello sociale viene messa in crisi dai processi economici i quali rivelano la reale natura dei rapporti politici coperti dalla finzione dell'elargizione moderna dei diritti[11]. E tuttavia non v'è alternativa alla dialettica dinamica tra i diritti (dei soggetti) e le differenze (tra i soggetti) all'interno di uno stesso livello sociale (per tacere, per esigenze di spazio, di quella tra livelli differenti).


La disamina dei differenti livelli entro i quali si esplica il comportamento degli attori sociali descrive l'ambito proprio della filosofia sociale: l'analisi dei molteplici aspetti della socialità. Quest'ultima, infatti, delinea, abbastanza bene ritengo, l'insieme di aspetti che costituiscono le relazioni tra gli attori sociali: 1) l'indifferenza; 2) l'interazione; 3) la comunicazione; 4) la cooperazione; 5) l'ostilità. Tralascio gli aspetti (1), (2) e (5) e spendo alcune parole sul (3) e sul (4). La comunicazione è, secondo me, la cartina di tornasole del comportamento sociale degli esseri umani. Infatti, è nello scambio verbale e non verbale tra due o più attori sociali che si può scorgere l'azione di quello scambio simbolico che è il lasciarsi attraversare dalla parola altra ed accettare di venire a patti con l'altro. Non è esattamente una forma di influenza esterna, che pure è presente, ma del medium in forza del quale un attore sociale agisce congiuntamente con un altro suo pari. 


Detto altrimenti, entrare in comunicazione è il prodromo dell'azione sociale vera e propria, prima ancora che l'azione sociale stessa possa essere cooperativa o oppositiva.


Ma veniamo adesso alla cooperazione. Tempo fa scrissi una cosetta sulla cooperazione: là la intendevo come "sottomissione" di interessi e volontà del singolo alla "reciprocità" del singolo tra altri singoli suoi pari[12]. Sostanzialmente, penso ancora che le cose siano così, ma la mia prospettiva di allora, magari ancora ingenua, è oggi più problematica: sino a che punto il singolo attore sociale accetta consapevolmente e volontariamente a limitare la propria libertà personale in favore di una reciprocità sociale? La storia italiana di questi ultimi anni, infatti, ha fatto vacillare la mia fiducia nella capacità umana di scorgere il "bene comune" dal momento che l'iniziativa libera dei singoli è stata in vario modo soggetta al potere di parti della società, ossia di caste e lobbies le quali non hanno affatto a cuore il bene di tutti, ma solo il proprio personale tornaconto. 


Ma il problema non è neppure questo, quanto piuttosto cercare di capire come mai comunque in singoli abbiano accettato di cooperare al progetto di benessere di questi gruppi sociali, dimenticando magari che ben altro doveva essere il loro! 



La cooperazione, per dirla altrimenti, quando funziona è una gran bella cosa, ma quando non funziona genera "mostri" sociali: un'azione collettiva, congiunta e collaborativa per favorire il vantaggio di pochi ...


4. Uno sguardo da nessun luogo. Il filo di rasoio della filosofia sociale.

Necessariamente plurale, ed interdisciplinare, e non solo per via dei suoi argomenti, la filosofia sociale interseca sul proprio cammino tante discipline, umane e naturali, filosofiche e non, senza comunque risolversi mai in una sola di queste stesse. Come a dire che si fa filosofia sociale solo accettando la diversità scientifica delle altre discipline e consentendo che il discorso sia impuro, sia contaminato da saperi altri, da conoscenze eterogenee[13].

Non esistono frutti puri, così come, molto probabilmente, neppure teorie incontaminate, ma (quasi) sempre teorie ibride. La filosofia sociale è una di queste teorie, batte diversi sentieri per condurre un suo discorso originale intorno a determinati argomenti.

Anche qui senza alcuna pretesa di completezza e/o infallibilità, ritengo che le discipline intersecate lungo il proprio cammino da parte della filosofia sociale siano: 1) la teoria delle istituzioni; 2) la logica delle azioni; 3) la teoria delle decisioni; 4) la filosofia delle norme; 5) i modelli psicosociologici di spiegazione del comportamento sociale; 6) la filosofia della politica e del diritto; 7) l'etica filosofica.

In breve, la filosofia sociale nel suo interessarsi alla dinamica sociale delle azioni dei singoli attori umani, deve per forza di cose lasciarsi guidare nell'esplorazione delle istituzioni umane, nella spiegazione logica, piscologica e sociale delle azioni umane, nell'esame dell'equilibrio tra partecipazione politica, giuridica ed etica alla cittadinanza umana.

Se così stanno le cose, dove è collocato lo sguardo della filosofia sociale? Molto probabilmente da nessuna parte dal momento che essa è certamente una disciplina ibrida, originale, sempre sul filo del rasoio o, meglio, operante nella terra di nessuno dei rispettivi confini tra differenti prospettive scientifiche intorno all'umano.

5. Glossa finale.

Mi si conceda ancora del tempo, poco in verità.

Che tipo di discorso conduce allora la filosofia sociale? Possiamo trarre fuori dal discorso disorganizzato e poco omogeneo sin qui condotto, le seguenti possibilità, distinte ma tra loro non irrelate: a) un discorso interdisciplinare (perché taglia longitudinalmente qualsiasi steccato tra discipline); b) un discorso "aperto" (perché mai concluso davvero e sempre pronto a modifiche e revisioni nel dinamico confronto con la realtà); c) un discorso flessibile (perché accetta di piegarsi a novità e modifiche); d) un discorso fallibile (perché riconosce di poter sbagliare data la sua natura concettuale di per sé eterogenea rispetto al fluire liquido della socialità umana); e) un discorso limitato (perché a causa della propria natura concettuale non può dire "tutto" intorno alla socialità umana).


Ma quel poco che riesce a cogliere è di estrema importanza se si desidera comprendere come si compiano o non si compiano azioni in questo mare magno della vita associata.




(immagine tratta da: http://marianna06.typepad.com/.a/6a00e54f0b19908834017ee3b6ef7a970d-800wi)


Note
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[1] Cfr. S. Natoli, Soggetto e fondamento. Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 56.
[2] Cfr. J. F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 24: «Un artista, uno scrittore postmoderno è nella situazione di un filosofo: il testo che egli scrive, l’opera che porta a compimento non sono in linea di massima retti da regole prestabilite e non possono esser giudicati attraverso un giudizio determinante, attraverso l’applicazione di categorie comuni […] Deve essere chiaro infine che il nostro compito non è quello di fornire realtà, ma di inventare allusioni al concepibile che non può essere presentato». Ma l'alludere, specie se si è nella condizione di piena consapevolezza dei propri limiti, espressivi e conoscitivi, non può che divenire un curioso 'balbettare', dagli ancor più buffi effetti paradossali.
[3] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 200516, p. 6.
[4] Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 20073, p. 116.
[5] Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma – Bari, 1994, p. 3.
[6] Cfr. L. V. Tarca, Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova, 19932, p. 237.
[7] Cfr. G. Vattimo, Perché «debole», in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, p. 187.
[8] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2000, p. .
[9] Gn II, 18 e sgg.[10] Cfr. M. L. Salvadori, Il Novecento. Un'introduzione, Laterza, Roma – Bari, 2004, p. 170.
[11] Cfr. M. L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma – Bari, 2011, p. 51.
[12] Cfr. A. Pizzo, Il diritto tra cultura e azione umana. Frammenti di antropologia del diritto, "Diritto & Diritti", ISSN 1127-8579, p. 2 (contenuto on - line: http://www.diritto.it/docs/21793-il-diritto-tra-cultura-e-azione-umana-frammenti-di-antropologia-del-diritto).
[13] Cfr. J. Feinberg, Filosofia sociale, Il Saggiatore, Milano, 1996, p. 9 e sgg.