Il volume di Eva
Canterella, Itaca. Eroi, donne, potere
tra vendetta e diritto, l’ho letto tutto d’un fiato tanto è interessante.
Eppure, in
questa sede non interessa offrire un resoconto puntuale dello stesso oppure
commentare il percorso argomentativo seguito dall’autrice. E, a dire il vero,
non l’ho mai fatto in questo (non)luogo virtuale.
Allora,
l’intento è, piuttosto, quello di ricostruire, per quanto possibile, il
contesto storico del passaggio dalla Grecia preistorica a quella storica per il
tramite della versione “fantastica” offerta dai poemi omerici, l’Odissea nel caso presente.
Attraverso la
narrazione di Itaca, ci si propone di comprenderne l’«organizzazione sociale,
la mentalità dei suoi abitanti, le loro credenze religiose, il loro mondo» (p.
19). Il che, ovviamente, non significa considerare il poema omerico attendibile
da un punto di vista storico, ma, e qui sta l’estremo fascino dell’intero
progetto, cogliere al di là del mito, oltre la fantasia, al di là delle
menzogne letterarie, le movenze storiche di una società proprio all’alba della
fase propriamente storica della terra greca. Infatti, il punto di partenza
dell’autrice è ritenere che «la società di Itaca sia realmente esistita» (p.
19).
Bisogna, allora,
prestare fede a quanto narra Omero? Sì e no, nella misura in cui siamo capaci
di discernere la concretezza storica, anche tramite il confronto con altre
fonti, dalle invenzioni della poesia greca.
Cantarella ritiene che «credere nella storicità dell’epos omerico significa credere che l’Odissea, descrivendo la vita di Itaca e
dei personaggi che la popolano, descriva i lineamenti dell’organizzazione
sociale che i greci si diedero in un determinato momento della loro storia» (p.
19), credere che «la poesia epica descriva […] la cultura nel senso più ampio
del termine: le credenze magiche e religiose, le regole etiche e sociali, le
mentalità, i valori, la psicologia, il modo in cui venivano vissute le
emozioni» (pp. 19 – 20), pensare che «Omero trasmetta nella sua globalità la
memoria del patrimonio culturale di un popolo» (p. 20).
Non si tratta,
allora, di considerare l’Odissea un
documento storico, ma di estrapolarne quelle informazioni antropologiche che,
essendo storicamente situate, nonostante gli inevitabili ibridamenti
posteriori, consentono di vedere le movenze di una società storicamente
concretizzatasi. Certamente non sarà esistito un re di Itaca di nome Ulisse, né
tantomeno un delfino di nome Telemaco o una regina di nome Penelope. Ma,
invece, sarà esistita una società storicamente reale facente da sfondo alla
finzione omerica.
Dopo aver
dedicato molte pagine al valore filologico della narrazione omerica, e alle
relative dispute tra studiosi in merito alla sua, o meno, attendibilità, anche
a finalità di ricostruzione storica, l’autrice entra nel merito di quella parte
che più interessa alla presente ricognizione.
Cantarella
individua nella civiltà micenea del XIV secolo a. C. lo sfondo storico
poeticamente narrato da Omero. Sconfessando la teoria “standard”, secondo la
quale la storia greca comincerebbe intorno all’anno Mille con la discesa dei
Dori nel bacino egeo, le interpretazioni di Evans sulla lingua della civiltà
pre – dorica, ossia quella micenea, o «achea» (p. 37), la famosa lineare B, consentono di datare la
storia greca prima delle date convenzionali, cogliendo prima le informazioni
salienti sulla nascita della civiltà greca. Come sostiene l’autrice «L’effetto
della decifrazione della lineare B sugli studi omerici fu molto importante. La
scoperta che la civiltà micenea era greca imponeva che a Omero si guardasse in
una prospettiva nuova: se nel suo racconto c’era qualcosa di vero, se il mondo
da lui descritto era reale, questo mondo doveva essere quello nel quale erano
ambientati gli eventi narrati: quello miceneo, dunque» (pp. 42 – 3).
Se si considera
Omero soltanto il compilatore di racconti tramandati oralmente, non è lecito
supporre che l’epos narrato sia
relativo ad una società precedente? Ad una cultura anteriore? L’idea, allora, è
di considerare la poesia omerica la narrazione dell’epica micenea. L’Odissea, da questo punto di vista, sarebbe la trasmissione,
per messa per iscritto di una cultura orale, una raccolta di «poesia epica
micenea» (p. 44). Certo ciò produce la questione del ruolo di Omero nella
trasmissione stessa di una poesia non più coeva alla narrazione scritta, ma
nondimeno diventa ora possibile, tenendo conto di necessarie cautele
metodologiche, considerare la narrazione omerica come la narrazione storica
della società greca anteriore all’invasione dorica.
Pertanto, «le istituzioni pubbliche e i
rapporti sociali itacesi sono quelli che regolano i rapporti tra i membri di
una comunità vissuta tra il X e l’VIII secolo a. C.» (p. 51). Seguire le
vicende, sociali ed istituzionali, narrate da Omero, significa «assistere alla
nascita di una polis» (p. 51).
Cantarella
individua alcuni elementi alla base della società itacese: la regalità; l’importanza della forza; il ruolo del consenso. Nelle vicende di Telemaco, di Penelepe, degli attriti con
i Proci, con la loro hybris,
scorgiamo i barlumi dell’articolazione del potere a Itaca. Premesso che il suo
re, Odisseo, è assente, e vaga nel Mediterraneo dopo la fine della guerra di
Troia, chi esercita il potere? Non Penelope, perché donna, non Telemaco, che
appare impotente. Se v’è una polis,
allora dovrebbe esserci anche un basileus,
ma quest’ultimo manca nella descrizione itacese offertaci da Omero. Così come
manca il wanax, ossia il potere
assoluto delle società cretese e minoica. Un esempio per tutti è Minosse, il
sovrano che controlla tutto e tutti, che esercita un potere davvero assoluto,
giudice inappellabile nell’esercizio della sua volontà. Ci troviamo, dunque, in
un periodo storico certamente posteriore ma comunque precedente alla comparsa
della polis, imminente alla sua alba,
ma ancora avvolto nelle nebbie della preistoria ellenica. Peraltro, altri
elementi fanno pensare alla presenza di una gestione a più mani del potere.
Telemaco chiede aiuto all’assemblea degli anziani i quali, però, non offrono al
giovane molto sostegno. Qual è il reale potere di quest’assemblea? Come asserisce
l’autrice «non è un organo al servizio del re» (p. 89), ha un margine di
autonomia rispetto al re, può essere consultata, convocata, ma ha margini di
potere esecutivo davvero ridotti. V’è poi un altro organo di potere: il
consiglio ristretto. In merito, non disponiamo di molti elementi a nostra
disposizione, anche se tutto lascia supporre che non fosse una prerogativa
regale. In genere, il consiglio, di società arcaiche, viene composto da anziani, da gherontes. Ma avverte l’autrice come si debba prescindere «da ogni
riferimento all’età» (p. 92). Chi vi siede, occupa quel ruolo non per anzianità
anagrafica, ma perché svolge le funzioni di “consigliere” del re. Il termine gheron, dunque, deve essere connesso con
quello di basileus, il consiglio
fornisce pareri, non sappiamo se solo consultivi o se anche vincolanti, al re.
Ma ignoriamo chi lo convochi, chi ne abbia facoltà. D’altra parte, la medesima
difficoltà che riscontriamo nel ricostruire il diverso ruolo giocato dai vari
attori nella misura in cui si occupino del “privato” o del “pubblico”, la
ritroviamo ogniqualvolta guardiamo alla profonda ambivalenza degli eroi omerici
i quali si destreggiano tra “casa” e “città”, con tutto quell’insieme complesso
di interrelazioni dovuto allo svolgere ruoli diversi in più tempi (esempio:
marito e re). Tuttavia, il quadro generale che emerge è che per i greci la
distinzione tra “pubblico” e “privato” fosse ben nota e riconosciuta. Peraltro,
il pubblico, la città, appare «qualcosa
di più e di diverso della somma dei gruppi familiari» (p. 97).
Ai presenti
fini, pertanto, assume importanza la descrizione dello Scudo di Achille che
Omero narra nell’Iliade.
Tra le altre
cose, sulla sua superficie sono descritte due occasioni contrapposte: una cerimonia nuziale e una scena processuale.
Questo suggerisce di considerare le città greche non come semplici «aggregati
urbani» (p. 99), ma come «comunità politiche» (p. 99), rette, pertanto, da un
insieme condiviso e riconosciuto di regole. Infatti, queste due scene, un
matrimonio e un processo, sembrano delineare la presenza di istituzioni precise che quelle comunità
si erano date. Nel caso del processo, poi, viene anche individuato un organo
ulteriore di controllo del rispetto formale delle regole riconosciute.
Sulla base di
queste indicazioni, per forza di cose frammentarie, sembra di poter desumere
come le poleis raffigurate
icasticamente sullo scudo del pelide, siano le poleis greche, realtà storiche ben al di là della finzione retorica
della poesia epica, organizzazioni «in cui esistono persone istituzionalmente
abilitate ad esercitare la giurisdizione» (p. 101), le quali rappresentano
anche «la collettività nei rapporti internazionali» (p. 101). Dunque, allora,
anche le relazioni internazionali sembrano soggiacere ad un complesso di regole
«i cui soggetti erano le comunità cittadine» (p. 101). Basti a titolo d’esempio
il rituale dell’«ospitalità», così caro agli eroi greci nelle loro
peregrinazioni, che comprendeva anche il consueto «scambio di doni». Peraltro,
agli stranieri si chiede in primo luogo la città, ossia lo Stato, di
provenienza, e dopo la genealogia parentale. Ciò induce anche a pensare come
ormai «l’appartenenza cittadina […] prevale su quella familiare» (p. 101). Storicamente
questo è sensato in quanto descrive l’alba della civiltà greca classica,
fondata ed organizzata sui rapporti tra cittadini, ossia abitanti il medesimo
consesso, e viventi secondo le stesse regole.
Ecco come la
poesia epica di Omero possa servire in funzione storica, descrivendo proprio il
momento di passaggio dalle comunità pre – politiche, del wanax despota assoluto di un territorio, il cui centro di potere è
il Palazzo, alle comunità politiche, la cui vita si svolge all’interno della polis, in conformità a regole ed
istituzioni consolidate e rispettate.
Il seguito dell’opera
è dedicato all’esplorazione di alcuni dei molti significati assunti dal
personaggio Ulisse, talvolta espressione della metis, della sapienza manuale, variante della proverbiale “furbizia”
ulissea, che sconfigge non solo la forza,
come nel caso del ciclope Polifemo, ma anche il ben più noto, e nobile, logos. Ulisse è talvolta eroe talvolta
«eroe vendicatore» (p. 167).
Se quella
Itacese è una comunità che, sotto molti aspetti, benché non tutti, ben si
attaglia al modello della polis, di
età classica, perché possiede una netta separazione tra “giustizia” e “vendetta”,
tra “pubblico” e “privato”, tra “potere” e “sapienza”, e perché si regge su un
complesso riconosciuto di regole ed istituzioni, con alcuni organi intermedi
tra i sudditi e il basileus, che
articolano ulteriormente il potere, possiamo dire anche che «esiste un diritto»
(p. 190) a Itaca? Nel mondo di Omero? Nei poemi omerici «esiste un sistema di
amministrazione della giustizia» (p. 194), di giustizia cittadina, non privata,
come quella di Ulisse nei suoi palazzi, sui suoi sottoposti. Anzi, il compito
di amministrare la giustizia «appare riservato a personaggi diversi» (p. 194),
in genere il re, il basileus, ma non solo. Nell’Odissea talvolta sembra essere Telemaco,
almeno nel periodo di assenza del sovrano. Quali che fossero, però, «le
competenze giurisdizionali dei sovrani» (p. 196) è difficile dire poiché le
fonti al riguardo tacciono. Tuttavia, esse appaiono non generalizzate e
esclusive. Tant’è che si registra anche la presenza di un collegio giudicante
sul quale si appoggia colui che amministra la giustizia, un collegio di gherontes, non per forza “anziani”, come
abbiamo visto. Nella scena descritta sullo scudo di Achille si vede come operi
un histor (si colga l’analogia con la
posteriore storia: colui che
istruisce il caso) il quale non «decide la controversia» (p. 197), la presenta,
esponendo i fatti e le rispettive ragioni dei litiganti. Chi decide è un
«organo collegiale» (p. 197), composto dagli anziani. A prima vista sembra
strano che decidano sulla pubblica piazza ma la descrizione della seduta lascia
intravedere la scelta di un luogo adibito alla risoluzione delle controversie. Il
caso specifico, poi, del giusto prezzo da versare a risarcimento di un torto
offeso, offre spunti interessanti per scorgere l’affermazione di un diritto pubblico
oggettivo dalle ceneri dei rituali privati della vendetta. Ecco, allora, che
assume senso il ruolo degli anziani, dei gherontes:
essi sono «la risposta a un’esigenza nuova di giustizia, della quale, nell’epoca
che ved eil progressivo emergere dei valori collaborativi, il potere collettivo
si fa carico, per la prima volta nel mondo greco postmiceneo» (p. 201), si
affiancano, cioè, all’etica arcaica, basata sul mero esercizio della forza
personale, «valori ispirati a un’etica coopera iva, e la corrispondente
necessità, sempre più sentita, di garantire la pace sociale» (p. 201).
Certo nella polis nascente esistono ancora forme
arcaiche di giustizia privata, come la vendetta e la disponibilità dei beni
personali, ma «viene affiancata da una sanzione nuova, diversa, fisica, così
come fisica era stata per secoli la reazione vendicativa. Senonché, ora, l’uso
della forza fisica è una sanzione “pubblica”» (p. 202). Dunque, la «Grecia
postmicenea entra nel mondo del diritto» (p. 202).
(immagine tratta da: http://squilibri2.files.wordpress.com/2010/06/scudo21.gif)
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