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martedì 4 marzo 2014

Nussbaum su disabilità e giustizia


Liberi, eguali e indipendenti?



(immagine tratta da: http://chronicle.com/img/photos/biz/2408-5702-nussbaum.jpg)


Le persone disabili costituiscono il più grande scandalo della ragione occidentale, quegli esempi negativi che la razionalità pura ed ideale non può riconoscere[00] e che preferisce, di gran lunga, nascondere, dunque, in luoghi separati, in “altrove”, in modo tale che siano lontani dagli occhi e da qualsiasi possibile cognizione.


I filosofi, in genere, non si occupano di disabilità, forse troppo umiliante per i propri voli della fantasia, forse troppo limitante per la profonda finitudine che connota le esistenze di coloro che incontrano ostacoli maggiori rispetto ad altri nello sviluppo della propria personalità.


In questo panorama fortemente desolante ed arido, riscontro solo una strana eccezione nella filosofa statunitense Martha C. Nussbaum la quale, al contrario, ha anche incentrato la sua ricerca proprio sulla condizione esistenziale delle persone disabili[01].


A mio modesto modo di vedere, il tema presente ha un'indubbia rilevanza teorica, anche come metro per valutare l'efficacia delle formule politiche che, in genere, i filosofi producono nel tentativo di interpretare, o di riformare, a seconda dei casi, l'ordine sociale.


Tuttavia, prima di entrare nello specifico del tema in questione, è bene spendere ancora alcune parole per chiarire alcuni presupposti davvero importanti sulla disabilità.


Le persone disabili certamente soffrono la presenza di ostacoli oggettivi di varia natura che interferiscono immediatamente con l'espletamento di funzioni personali al punto da rallentarne in maniera tanto vistosa e profonda l'effettuazione. Il mancato rispetto di uno standar da parte delle persone disabili spinge a non considerarle “normali”. Ovviamente, nel caso presente non ha proprio alcuna importanza parlare di “normalità” o di “ordine” o di “standard evolutivo”, l'importanza appare solo relativa. La presenza di un handicap, pertanto, nell'accezione inglese del termine, vale a dire di “peso aggiuntivo”, che in questo caso grava sulle spalle delle persone disabili, e che interferisce con le loro normali funzionalità, è la differenza che corre tra una persona normodotata, la quale può tranquillamente contare sulle proprie forze per superare i normali ostacoli della vita quotidiana, e una persona disabile, la quale non può contare sulle proprie forze per andare avanti nella propria vita personale e per sviluppare in maniera adeguata le proprie lecite aspettative esistenziali. L'interferenza della menomazione fisica con il pieno sviluppo personale incide o sull'autonomia personale o sulle capacità cognitive oppure sull'indipendenza nelle relazioni umane.



Detto questo, sia pure molto brevemente, emerge subito come alcuni aspetti, di per sé rilevanti, della condizione vissuta dalle persone disabili, pur nell'estrema generalità di quanto sto dicendo, siano, in primo luogo, l'estrema dipendenza cui vanno incontro le persone disabili e, in secondo luogo, la manifestazione radicale in esse dei limiti della nostra condizione umana, come la sofferenza, la mancanza di capacità, il bisogno, e così via. La relazione di cura, la quale, detto per inciso, sovente, e molto spesso, a dire il vero, caratterizza la condizione esistenziale delle persone disabili, è talmente importante da far dire alla Nussbaum come sarebbe bene riformulare tutte le nostre teorie della giustizia al fine di tenerne conto[1]. Questo perché le cure alle persone disabili, per la loro durata, coincidente in genere con quasi l'intera vita di queste ultime, e per la loro natura, sono molto onerose e tali da incidere in maniera formidabile sulle finanze della collettività. Il trattamento da riservare loro, pertanto, è così importante da influenzare la nostra stessa concezione della giustizia sociale, la nostra stessa idea di diritto. Infatti, hanno le persone disabili delle pretese, peraltro legittime, vista la loro condizione, da far valere nei confronti del resto della comunità oppure no? E se sì, non vanno soddisfatte, costi quel che costi? Forse ha ragione Dworkin quando asserisce che, in genere, ed intendo presso il centro occidentale della medesima teorizzazione politica, i diritti non vengono presi sul serio, e, aggiungo, sempre più considerati come privilegi che le finanze pubbliche non possono più concedere, come sprechi che la crisi attuale non può più tollerare. Ma questo accade perché l'intrinseca asimmetria dei rapporti di forza tra persone disabili e persone normodotate finisce con il realizzare il rischio, a suo modo paventato, nella sua prosa romanzata, da Pontiggia secondo il quale il rischio razzista, con riguardo al tema attuale, è sempre presente ed agente. Nel momento in cui si riconosce la diversità e da questa si prendono le mosse al fine di dedurre diritti differenti, ossia separati, vale a dire specificatamente in funzione dei differenti fruitori finali, ecco che ha luogo la discriminazione[2].


Quando accade ciò, la giustizia fallisce, ma, e prima ancora, fallisce l'intelligenza umana, quella stessa meravigliosa creazione di cui tanto si beano i filosofi, gli stessi che, in genere, preferiscono ignorare la disabilità tout – court.


Invece, la disabilità è una cosa concreta, è una declinazione, magari radicale, della medesima condizione umana e interpella direttamente tutte le nostre teorie politiche, ed economiche, mette in questione le nostre più profonde convinzioni, i nostri più radicali convincimenti personali. Solo riconoscendo nei soggetti disabili la medesima umanità, è possibile dare seguito ad una riconsiderazione generale in tema di diritti, giustizia e redistribuzione del reddito secondo il bisogno. In fondo, infatti, le persone disabili sono “persone”, non “qualcosa”[3], magari da rifiutare o misconoscere. Al di sotto del mero riconoscimento di un diritto, v'è un diritto ancor più fondamentale, ancora più radicale, ancora più “di principio”: il diritto di avere diritti[4], vale a dire la possibilità, anche per loro, di essere titolari di diritti, costi quel che costi. Altrimenti, finiamo con la finzione della giustizia o dei diritti soggettivi e continuiamo, ma stavolta alla luce del sole, a negare parità ed eguaglianza di diritti.


Secondo Nussbaum proprio il tema della disabilità, e della connessa giustizia dovuta alle persone disabili, dovrebbe spingerci, magari anche in maniera celere, a ri – pensare il nostro modello politico. Perché dovrebbe accadere questo? La risposta è tanto semplice quanto radicale: tutti i teorici del contratto sociale, e, quindi, di una certa modalità di pensare ai rapporti, in termini di costi e benefici, tra i singoli membri della società politica, hanno sempre caratterizzato il soggetto che entra in relazione, per il tramite del contratto sociale, come non – disabile. Anzi, i soggetti che successivamente costituirebbero la comunità politica sono concepiti come liberi, eguali ed indipendenti[5]. In questo modo, i teorici del contratto sociale negano cittadinanza a tutti coloro che, per vari motivi, o per diversi handicaps, non possono agire come fanno coloro i quali, al contrario, sono liberi, eguali ed indipendenti. Infatti, i contraenti del contratto sono gli stessi per i quali vengono redatti i principi della comunità politica[6]. Di conseguenza, se le persone disabili non possono entrare come pari rispetto agli altri contraenti, come uguali tra eguali, non possono far valere alcuna pretesa successivamente. La loro esclusione appare dunque tanto radicale quanto criticabile.


L'estromissione doppia, prima dall'elenco dei contraenti il patto, e dopo dai fruitori dello stesso, è il simbolo più vistoso dello stigma sociale con il quale, in genere, si occulta l'umanità[7]. Questo perché, in genere, la presenza di handicap così importanti spinge a considerare le persone che ne portano il segno quotidianamente come non – normali[8]. E questo è un problema “classico”, oserei dire, per la disabilità in generale[9].


Tuttavia, ciò non significa che si debbano lasciare le cose così come stanno.
Per la Nussbaum, questa stessa mancanza è indice del fallimento del modello stesso: i disabili esistono, non sono scherzi o bizzarrie singole della Natura.


Per affrontare, appunto, questo problema, rilevante per qualsiasi teoria politica che voglia farsi apprezzare come realmente valida, Nussbaum sottopone a critica l'intera tradizione liberale occidentale, e, in modo particolare, il modello contrattualista, dal periodo classico, con Locke e Hume, sino al neocontrattualismo, con Rawls sugli scudi.


Il discorso della filosofa è, nel contempo, pregevole, per l'impegno analitico profuso, e interessante, per gli esiti imprevisti cui mette capo. Per la Nussbaum, gli uomini stipulano tra loro un contratto, cioè «decidono di rinunciare all'uso privato della forza e alla possibilità di sottrarre i beni agli altri, in cambio di pace, sicurezza e con la prospettiva di un vantaggio reciproco»[10]. L'idea alla bade di qualsiasi formulazione di marca contrattualista è che una comunità politica si costituisca in un momento non storico, ma ideale, come il voluto superamento dello stato di natura e con lo scambio di pretese naturali con vantaggi sociali. In modo particolare, gli uomini accettano di rinunciare alla loro libertà di natura in nome di un vantaggio reciproco altrimenti non conseguibile. Per gli autori classici, dunque, vi sono dei beni indisponibili al consumo durante lo stato naturale, ed è in vista di quest'ultimo, possibile solo dopo il superamento dello stato di natura, che decidono di uscirne e di accedere ad altre forme di organizzazione sociale.


Quel che, però, tutte le concezioni contrattualiste fanno è giustificare teoricamente un modello di società politica fondata su un insieme di «principi politici fondamentali»[11], uno dei maggiori contributi della filosofia politica liberale[12]. Questa società politica mostra come tutti possono rinunciare al proprio potere «a favore del diritto e dell'autorità debitamente costituita»[13] a condizione di essere spogliati dei vantaggi artificiali che alcuni di essi hanno nelle società reali. In quest'ultimo caso, infatti, avviene che, tolte tutte le differenze di partenza, gli uomini non possono che accordarsi «su un certo tipo di contratto»[14]. Ne emerge, allora, che se il punto di partenza è equo, «i principi che ne emergeranno saranno anch'essi equi»[15].


La stessa idea procedurale di società politica, non per forza Stato, precisa Nozick[16], è presente in Rawls per il quale, avverte invece Nussbaum[17], il discorso è più complesso, sia con riferimento alle sue fonti sia con riguardo alla specifica modalità con cui discute alcuni punti specifici della propria teoria di società politica giusta. Il punto di partenza resta, però, lo stesso: come assicurare ai singoli tutti quei diritti che lo stato di natura non consente? Anche Nozick scorge il medesimo problema, commentando il discorso lockiano: «nello stato di natura una persona può essere priva del potere di far rispettare i propri diritti; può non essere capace di punire o farsi risarcire da un avversario più forte che li ha violati»[18].


Rispetto alla teoria ralwsiana, Nussbaum individua ben tre differenti problemi irrisolti, e punti critici per la stessa. Per gli scopi presenti, però, ci concentreremo solamente su uno di questi, quello relativo, per l'appunto, alla disabilità, e al ruolo che chi ne soffre assume nella società politica.


Nussbaum osserva come per tutti i teorici classici del modello contrattualista di società politica «i soggetti contraenti siano uomini approssimativamente eguali riguardo alle capacità e in grado di svolgere attività economica produttiva»[19]. Le persone disabili, chi in misura maggiore e chi in misura minore ma tale comunque dall'essere esclusi dall'insieme delle persone “produttive”, sono così estromesse dalla società politica. Le persone disabili, dunque, sono escluse dal gruppo «di coloro che scelgono i principi politici fondamentali»[20]. I teorici classici non contemplano la presenza, vale a dire il ruolo attivo, di persone disabili tra coloro che stabiliscono i principi morali di una società giusta. Semplicemente, i disabili non fanno parte della pars valentior, rappresentativa dell'intera specie umana, incaricata di elaborare i valori fondamentali di una società politica che possa fregiarsi della virtù morale. Il problema di tale esclusione è che se i disabili non sono inclusi nel gruppo di coloro che scelgono, essi «non sono inclusi […] nel gruppo di coloro per i quali i principi sono scelti»[21]. In maniera del tutto caratteristica, a mio avviso, accade una pericolosa transizione in virtù della quale essere inclusi nell'elenco di coloro che stabiliscono i principi fondamentali, che una futura società politica deve avere, significa anche essere tra i futuri fruitori degli stessi. Viceversa, non avere rappresentanza nell'insieme dei formulatori dei principi di base della futura società politica comporta, di conseguenza, non essere presi in considerazione in qualità di possibili fruitori dei principi politici fondamentali nella futura società politica. Il problema, nel caso delle persone affette da disabilità, è doppio: non far parte della pars valentior, che formula i principi insindacabili sui quali deve fondarsi la futura società politica, e non venir contemplati quali possibili beneficiari degli stessi principi politici fondamentali. Si potrebbe anche dire che si tratta di una medesima esclusione, la quale opera in due momenti differenti ma collegati: nel momento di codificazione dei principi basilari della società politica e in quello del godimento degli stessi.


Per Nussbaum il problema, in sede teorica, risiede in quella condizione iniziale che, in nessun caso, una persona disabile può rispettare: essere libera, eguale ed indipendente. I bisogni delle persone disabili sono così “speciali” da impedire che possano relazionarsi con loro simili come farebbe normalmente una qualsiasi persona bianca occidentale, tale cioè da conformarsi al modello “borghese” codificato durante l'Illuminismo. É questo il problema, è qui che si colloca la radice del “male” contrattualista: formulare un modello privatistico di fondazione dello Stato, presupponendo, a torto, che gli uomini siano tutti liberi, eguali ed indipendenti. Così non è e ne consegue che il modello del contratto, in virtù del quale dei privati in posizione paritetica contrattano tra di loro cosa cedere, in termini di libertà personale, e cosa ottenere, in termini di vantaggi sociali, è la sanzione formale che riconosce come valida, ed assicura anche in termini politici, la differenza sostanziale che sussiste nello stato di natura rispetto alla differente distribuzione della forza personale e delle capacità naturali di entrare in relazione con gli altri.


Se l'idea morale centrale nella tradizione contrattualista è il «mutuo vantaggio e reciprocità»[22], l'esclusione iniziale delle persone disabili comporta la loro esclusione futura dall'elenco delle persone che possono godere dei principi politici stessi. Infatti, non far parte dei contraenti originali del patto sociale significa che le persone disabili non hanno «eguale cittadinanza»[23] con gli altri.


Nella teoria politica di Rawls, che riprende ampliandola ed aggiornandola, sotto un certo punto di vista, la teoria classica del contratto sociale, la società politica viene intesa nei termini di un'impresa cooperativa per il mutuo vantaggio[24]. Di conseguenza, il problema diviene quello di spiegare come mai le parti decidano di abbandonare lo stato di natura per ottenere dei vantaggi reciproci derivanti dalla cooperazione sociale. Le parti, cioè, vanno alla ricerca di un vantaggio reciproco da conseguirsi per il tramite della cooperazione in società. L'idea di Rawls è che persone razionali siano in grado di compiere una scelta tra la cooperazione e la non cooperazione per il «vantaggio reciproco»[25], capaci di comprendere come la cooperazione sia sempre preferibile alla non cooperazione, e che, dunque, in ultima istanza, la società politica stessa sia di per sé preferibile, vale a dire più vantaggiosa, allo stato di natura. In altri termini, le parti non devono decidere se sia preferibile una società esistente, quella “naturale”, o una società futura, quella “politica”, ma solamente riconoscere la ragionevolezza di alcuni principi e l'assenza stessa di principi e scegliere i primi. É infatti razionalmente preferibile la cooperazione sociale, ossia la presenza di alcuni principi politici fondamentali, anziché vivere l'arbitrio dell'assenza totale di principi o del più forte, come si configura, in genere, lo stato di natura, non a caso considerato da Hobbes una condizione di perenne bellum ominium contra omnes.


Rispetto all'argomento presente, la teoria di Rawls, pur configurandosi come un progresso rispetto al modello classico di contrattualismo, non risolve il problema della giustizia sociale rispetto al trattamento da riservare alle persone disabili. Anche Rawls, infatti, considera i disabili dei soggetti marginali rispetto all'insieme complessivo dei soggetti politici e finisce con il posticipare ogni considerazione al riguardo in un imprecisato momento futuro.


Ciò spinge Nussbaum ad asserire come le «teorie contrattualiste devono fare affidamento su una qualche concezione di razionalità nel processo contrattuale e tutte assumono che i contraenti siano lo stesso gruppo sociale dei cittadini per i quali i principi sono stato redatti»[26]. La conseguenza è piana e lineare: «nessuna teoria di questo tipo può includere completamente persone con gravi menomazioni mentali come persone per le quali, in prima istanza, i principi sono stati progettati»[27].


Pur riconoscendo valore alle moderne teorie contrattualiste, con speciale riferimento alle loro concezioni di giustizia, Nussbaum sente di dover rilevare come non siano in grado di affrontare in maniera adeguata il problema della giustizia sociale che deriva dalla sostanziale esclusione delle persone disabili dal godimento dei principi politici fondamentali di una società[28].


Al prototipo di “personalità occidentale”, l'uomo borghese della tradizione illuministica, vale a dire il soggetto libero, eguale ed indipendente, che produce un elenco di principi politici fondamentali, Nussbaum sostituisce un elenco di capacità le quali vanno intese nei termini di «principi politici per una società liberale pluralista»[29]. Ella stabilisce una soglia minima di capacità e prevede per obiettivo della società «portare i cittadini al di sopra di questa soglia delle capacità»[30]. In altri termini, Nussbaum non concepisce un modello generale e comprensivo di giustizia sociale, ma solamente un correttivo funzionale che possa migliorare il grado complessivo attuale di giustizia[31]. Ella non dice nulla riguardo alla maniera concreta in virtù della quale la giustizia tratterebbe le ineguaglianze al di sotto della soglia minima, ma indica i livelli essenziali perché una vita umana possa considerarsi dignitosa. Pertanto, l'approccio alle capacità indica il «nucleo minimo di diritti sociali»[32] che viene garantito dal riconoscimento, e dalla conseguente promozione, delle capacità umane centrali. Nussbaum elenca le seguenti capacità:

  1. Vita;
  2. Salute;
  3. Integrità fisica;
  4. Immaginazione;
  5. Sentimenti;
  6. Ragion pratica;
  7. Appartenenza;
  8. Relazionarsi con altre specie;
  9. Gioco;
  10. Controllo del proprio ambiente.



L'idea di base di tale elenco è che una vita priva di una di queste capacità centrali non è una vita umanamente dignitosa. In altri termini, esso è un particolare approccio ai diritti umani[33]. Per il tramite di tale elenco, Nussbaum sposta il discorso sulla giustizia sociale dalle premesse all'esito finale del processo politico. Pertanto, la giustizia «sta nel risultato e la procedura è valida se sostiene tale esito»[34]. Di conseguenza, quel che importa ad una teoria della giustizia è la «qualità della vita delle persone»[35]. Allora, tutti i diritti dovrebbero essere garantiti alle persone «in quanto requisiti centrali di giustizia»[36].


L'approccio alle capacità non presuppone che le persone debbano essere libere, eguali ed indipendenti e, quindi, consente di «usare una concezione politica della persona che riflette più da vicino la vita reale»[37]. D'altro canto, infatti, lo stesso approccio parte da una concezione della persona come animale sociale la cui dignità non deriva da una razionalità idealizzata ed offre «una concezione più adeguata della piena ed eguale cittadinanza delle persone con menomazioni fisiche e mentali e di quella di coloro che si occupano di esse»[38].


Il difetto della teoria ralwsiana di giustizia è, in buona sostanza, far affidamento su una concezione presuntiva di normalità. Di conseguenza, Rawls non può spiegare perché a tutti coloro che si collocano al di sotto della mediana della normalità sia dovuta giustizia «piuttosto che carità»[39]. Ciò svela il vero carattere della finzione originaria del contratto sociale. Infatti, la cooperazione sociale promessa, e promossa, «è intimamente connessa all'idea che si debba restringere il gruppo iniziale dei contraenti a coloro che posseggono “normali” capacità produttive»[40]. Per poter includere le persone con disabilità entro il normale range di funzionamento della società politica, retta dal principio della cooperazione sociale per il mutuo vantaggio, Rawls dovrebbe riprogettare la razionalità delle parti al fine di includervi anche la cura degli interessi di terzi «e non solo dei propri»[41]. Per poter cooperare, le persone disabili «hanno bisogno di essere considerate come cittadini degni, cui siano riconosciuti i diritti di proprietà, all'impiego, e così via, e non come meri oggetti di proprietà»[42]. Il curioso paradosso delle teorie della giustizia sociale non fondate sull'approccio alle capacità è di considerare le persone disabili come dei mezzi, e non come dei fini, della medesima cooperazione sociale. Ovviamente, si tratta di “calare” la lista delle capacità umane centrali nella rete dei concreti bisogni delle singole persone con disabilità, ciascuna con i propri personali.



Nussbaum propone, dunque, di rendere più giusta la società politica modificando la prospettiva usuale, considerando le persone disabili dei soggetti politici di cooperazione sociale e non dei meri oggetti politici di cooperazione tra soggetti sociali. Infatti, lo scopo della cooperazione sociale «non è ottenere un vantaggio, bensì promuovere la dignità e il benessere di tutti i cittadini»[43].



Ora, se le condizioni di vita delle persone disabili, e di coloro che se ne prendono cura, sono oggettivamente più difficili delle altre, una «società decente organizzerà lo spazio pubblico, l'istruzione pubblica e altre rilevanti aree della politica pubblica per sostenere queste esigenze e per includerle completamente, dando a coloro che assistono tutte le capacità della nostra lista e dandone ai disabili il maggior numero possibile, nel modo più completo possibile»[44].



In conclusione, a parer mio, Nussbaum ridefinisce la nozione di giustizia cercando di farla aderire alle concrete condizioni di vita reale. In questo modo, il suo approccio fornisce «una parziale teoria della giustizia sociale di base»[45] e sostiene come «un mondo nel quale le persone hanno tutte le capacità della lista è un mondo giusto e decente, almeno ad un livello minimo»[46]. La teoria della giustizia sociale è, sotto ogni punto di vista, una particolare teoria del bene formulata nei termini di «diritti umani fondamentali»[47].




Note
[00] E tutto questo nonostante che la razionalità sia più una meta ideale, che non una condizione realisticamente realizzata. Secondo J. Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 85 e sgg. la razionalità umana è massimamente imperfetta e può essere perfetta solo in rarissimi casi “locali”.
[01] Anche se ciò va inteso come declinazione in concreto della teoria politica al fine di dare risposta a tre temi emergenti: 1) la disabilità; 2) il multiculturalismo; e, 3) la differenza di genere.
[1] Cfr. M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 28.
[2] Cfr. G. Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2012, p. 147.
[3] Cfr. R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma – Bari, 20134, p. 6.
[4] Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma – Bari, 2012, pp. 25 – 6.
[5] Cfr. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 104.
[6] Ivi, p. 84.
[7] Cfr. M. C. Nussbaum, Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 20132, p. 353.
[8] Ivi, p. 355.
[9] Cfr. G. Pontiggia, op. cit., pp. 42 – 3.
[10] Cfr. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere … op. cit., p. 30.
[11] Ibidem.
[12] Supra.
[13] Ibidem.
[14] Supra.
[15] Ivi, p. 31.
[16] Cfr. R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 45.
[17] Cfr. M. C. Nussbaum, Le frontiere … op. cit. p. 32 e sgg.
[18] Cfr. R. Nozick, op. cit., p. 35.
[19] Cfr. M. C. Nussbaum, Le frontiere … op. cit., p. 35.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p. 37.
[22] Ivi, p. 36.
[23] Ivi, p. 38.
[24] Ivi, p. 77.
[25] Ivi, p. 78.
[26] Ivi, p. 84.
[27] Ibidem.
[28] Ivi, p. 86.
[29] Ivi, p. 87.
[30] Ivi, p. 88.
[31] Ivi, p. 92.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p. 95.
[34] Ivi, p. 99.
[35] Ivi, p. 100.
[36] Ivi, p. 102.
[37] Ivi, p. 104.
[38] Ivi, p. 116.
[39] Ivi, p. 138.
[40] Ibidem.
[41] Ivi, p. 142.
[42] Ivi, p. 186.
[43] Ivi, p. 220.
[44] Ivi, pp. 241 – 242.
[45] Ivi, p. 294.
[46] Ibidem.
[47] Supra.




Bibliografia



J. Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità, Il Mulino, Bologna, 2005.
R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008.
M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 50.
M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007.
M. C. Nussbaum, Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 20132.
G. Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2012.
S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma – Bari, 2012.
R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma – Bari, 20134.







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