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martedì 24 agosto 2021

Considerazioni impopolari sull’eutanasia legale

 




(url: https://lospiegone.com/wp-content/uploads/2020/12/euthanasia.jpg)

Considerazioni impopolari sull’eutanasia legale

 

Nel convulso e caotico crocevia dei fatti internazionali (Afghanistan), delle polemiche interne su vaccini e greenpass, ancora freschi di campionato europeo appena vinto, c’è un movimento referendario che, quasi sottotraccia, pare aver raggiunto la soglia psicologica delle 500mila firme, suggello necessario per potersi validamente candidare a momento di convocazione dei seggi. È la proposta chiamata “Eutanasia legale”, sulla quale svolgerò in questa sede alcune veloci ma efficaci considerazioni non popolari, ovvero che non piaceranno ai più, e probabilmente proprio ai promotori referendari e ai loro molteplici sostenitori, tifosi e partigiani.

Forse si vorrebbe che io prendessi nettamente una posizione, pro o contro l’oggetto del contendere, la legalizzazione dell’eutanasia. Ma non lo farò. Innanzitutto, perché uno schierarsi preliminare di per sé non è efficace nel conferire fondatezza alla posizione che s’intende sostenere. E, in secondo luogo, perché l’oggetto del contendere non è automaticamente o nativamente prendere le une o le altre parti quanto, e piuttosto, mostrare quanto vi sia di errato nella proposta “Eutanasia legale”. Immagino che alcuni potrebbero già dirmi “va beh, non sei d’accordo, e allora non potresti parlarne”. Ma questo è un violento modo di procedere che nega a priori qualunque possibile serio e costruttivo confronto. Anzi, è un negare validità all’interlocutore, né più né meno che dire che in quanto uomo, ad esempio, non potrei occuparmi di questioni di genere. Oppure che non essendo ricco, io non possa interessarmi dei ceti sociali superiori. Oppure ancora che non essendo genitore, non possa sensatamente discutere dell’educazione dei figli. Gli esempi sarebbero innumerevoli, ma ragione vuole che comunque ci si esprima e solo dopo si valuti la bontà degli argomenti, senza esclusioni aprioristiche degli interlocutori. Allora, posso pure immaginare la scontata risposta di certi interlocutori; “Va beh, ma siete in pochi, forse solo tu, a vedere le cose in questi termini”. Non è un’obiezione forte, anzi, a dispetto dell’apparente forza, denota una profonda debolezza. La bontà non dipende dal consenso, ma dal valore degli argomenti.

E sebbene impopolari, le mie considerazioni andranno prese sul serio.

 Di cosa si tratta? Di chiedere agli elettori il loro consenso all’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale. La sua attuale formulazione è la seguente:

Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.

Non si applicano le aggravanti indicate nell'articolo 61.

Si applicano le disposizioni relative all'omicidio [575-577] se il fatto è commesso:

1) contro una persona minore degli anni diciotto;

2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;

3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno [613 2].

Beh, se immaginiamo al contesto astratto dell’eutanasia, camera medica, personale in camice, il letto del paziente, macchinari medicali vari non sembra che l’abrogazione parziale del presente articolo centri molto. Secondo la Treccani, con ‘eutanasia’ deve intendersi “Azione od omissione che, per sua natura e nelle intenzioni di chi agisce (eutanasia attiva) o si astiene dall’agire (eutanasia passiva), procura anticipatamente la morte di un malato allo scopo di alleviarne le sofferenze. In particolare, l’eutanasia va definita come l’uccisione di un soggetto consenziente, in grado di esprimere la volontà di morire, o nella forma del suicidio assistito (con l’aiuto del medico al quale si rivolge per la prescrizione di farmaci letali per l’autosomministrazione) o nella forma dell’eutanasia volontaria in senso stretto, con la richiesta al medico di essere soppresso nel presente o nel futuro. L’uccisione medicalizzata di una persona senza il suo consenso, infatti, non va definita eutanasia, ma omicidio tout court, come nel caso di soggetti che non esprimono la propria volontà o la esprimono in senso contrario” (fonte: https://www.treccani.it/enciclopedia/eutanasia/). E in genere quando pensiamo allo scenario che attiva il ricorso all’eutanasia pensiamo sempre ad un contesto medico o comunque ad una situazione soggettiva di sofferenza non sopportabile, lenita appunto per mezzo del ricorso alla soppressione di colui che soffre e che chiede di morire. Sembra quasi allora che l’eutanasia sia un gesto pietoso nei confronti dei sofferenti e sicuramente in questo senso molti astrattamente immaginano questa pratica come giusta, come una conquista di civiltà, come un diritto soggettivo, finalizzato a rendere i soggetti liberi sino alla fine, come nel motto del movimento referendario. Beh, così non è, e lo vedremo subito. Intanto il quesito referendario per il quale si raccolgono le firme è il seguente:

“Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1 limitatamente alle seguenti parole «la reclusione da sei a quindici anni.»; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole «Si applicano»?” (fonte: https://referendum.eutanasialegale.it/il-quesito-referendario/).

Se il numero di firme fosse sufficiente e se Corte di Cassazione e Corte Costituzionale dovessero dare parere positivo e fosse raggiunto il quorum e la maggioranza dei voti fosse per il sì, l’effetto della consultazione sarebbe la rimodulazione seguente del suddetto articolo 579 del codice penale:

Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso:

Contro una persona minore degli anni diciotto;

Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;

Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno [613 2]”.

Bene, e dove starebbe qui l’eutanasia? Dove la libertà dei malati terminali? Di quanti soffrono per condizioni sanitarie non emendabili? In che termini la morte di chi la richiede (consenziente) sarebbe “buona” o “dolce”? Inutile dire che l’intento del movimento referendario è quello di disarticolare il divieto di omicidio del consenziente, ma non sarebbe ancora eutanasia, perlomeno di quel mito sociale cui quasi tutti pensano. Soffro, e smetto di soffrire. Voglio morire perché questa vita non mi dà nulla, ma non voglio soffrire. In realtà, l’effetto finale è quello di non perseguire più l’omicidio di un consenziente, a meno che il consenziente non fosse un minore, una persona non sana di mente o in condizioni di infermità o incapace di intendere e di volere, o il consenso estorto o carpito con l’inganno. Il mero riferimento al consenso espresso dal consenziente non configura in maniera precisa la fattispecie dell’eutanasia, ma di una possibilità omicidiaria che non per forza dovrebbe essere dolce o buona. Quindi, non sarebbe più perseguibile chi uccide un consenziente. Ma chi dovrebbe ucciderlo? E come? E quando? E in quali condizioni? Anche lo stesso consenso è sempre validamente espresso? Oppure una volta espresso non è più modificabile se si cambia idea nel frattempo? E come dev’essere espresso? Questo i promotori del referendum non lo dicono con il loro quesito, ma lo sviluppano in un discorso generale comunque posteriore alla stessa consultazione referendaria, forti del testamento biologico e della sentenza della Corte Costituzionale sul caso del suicidio assistito del DJ Fabo. 

Ma il quesito ha poco di eutanasia, e molto di legittimazione dell’omicidio. Senza peraltro quella condizione “senza soffrire” che rende appetibile la pratica. Ed immagino che l’entusiasmo di molti già giunti a questo punto si sia raffreddato. Magari possono anche sentirsi un po’ imbrogliati, ma il marketing referendario funziona un po’ sempre così. E ciò dipende non tanto dalla buona fede dei comitati proponenti, ma dall’istituto stesso del referendum, che nel nostro ordinamento è abrogativo, nel caso di leggi ordinarie, e confermativo, nel caso di leggi costituzionali. Non è propositivo, e, quindi, votando il quesito di Eutanasia legale gli elettori non votano affatto per una proposta, rendere legale l’eutanasia, ma per abrogare parzialmente un articolo del codice penale. Inutile nascondersi che un siffatto esito referendario obbligherebbe il legislatore ad intervenire, sia per coordinare l’art. 579 del codice penale così novellato con il resto dell’ordinamento giuridico sia per, eventualmente, normare davvero l’eutanasia. Dunque, pare non sbagliato interpretare la consultazione più un tentativo di forzare la mano ai decisori politici piuttosto che una legalizzazione tout court dell’eutanasia.

Eppure, e paradossalmente, anche per quello che dirò a breve, nonostante tutto, è il quesito proposto una maniera contorta per rendere legale la pratica in questione. Sì, se colui che sopprime chi lo richiede non è più perseguito, viene soddisfatto uno degli aspetti costituenti l’eutanasia. E, a mio sommesso parere, è anche l’aspetto principale dell’oggetto del desiderio: l’eutanasia è un modo edulcorato per dire omicidio di chi lo richiede. E la pretesa che sia data esecuzione al volere dei singoli sembra calcare le movenze di un’obbligazione: il mio consenso ti obbliga ad eseguire la mia volontà …

Qui termina la disamina legale e cominciano le considerazioni politiche ed etiche. Si dirà che in fondo il legislatore deve fare ciò che desidera la maggioranza: se quest’ultima vuole l’eutanasia, l’eutanasia dovrà essere legalizzata. Un modo di procedere forte e sbrigativo, se si vuole, ma poco corretto. Il legislatore, cioè, sarebbe un mero esecutore degli umori impulsivi della maggioranza popolare. Purtroppo, questo modo d’intendere le relazioni tra rappresentanti e rappresentati travalica un po’ lo stretto ambito politico per tracimare in molti altri settori. La stessa medicina non ne è esente. Quante volte si sente dire in giro che il medico dovrebbe fare il volere del paziente? Se pensiamo all’interruzione volontaria di gravidanza, giusto per fare un esempio scevro di irritabilità, monta sempre più l’idea che il ginecologo per definizione non possa essere obiettore perché, così facendo, violerebbe il diritto della donna che vorrebbe interrompere la gravidanza. Questo perché il medico non deve fare il medico con scienza e coscienza (la sua), ma dare esecuzione pratica ai voleri del paziente. Oppure, quando ci si rivolge ad un professionista, non si accettano le soluzioni proposte da quest’ultimo, ma si vorrebbe che facesse quello che noi vorremmo. Un altro esempio potrebbe essere la relazione tra i genitori e i docenti. Sempre più non si accetta la valutazione scolastica, come se i docenti dovessero ottemperare al volere delle famiglie …

Per come la si guardi la questione, comunque, rimane inevasa una correlata questione: è politicamente corretto che una comunità accetti l’istituto dell’eutanasia? La questione non è leggera né scontata, anzi piuttosto scivolosa. E la risposta dipende dal tipo di legame che i singoli hanno con il gruppo di appartenenza. In effetti, quando i singoli chiedono di morire? Quasi sempre quando si sentono soli a dover affrontare l’imminente fine della loro vita oppure a dover sopportare sofferenze interminabili e così via. Allora, l’eutanasia appare la richiesta politica di recidere definitivamente i rapporti con il resto della comunità. O, per meglio dire, recidere anche in concreto dei rapporti che sono già interrotti. Ma, in questo caso, il farmaco, l’eutanasia, sarebbe migliore del male, le relazioni frammentarie, discontinue, insufficienti in seno alla società? Credo di no, anche se magari alcuni singoli potrebbero pensarla diversamente. Ma, ancora una volta, dobbiamo pensare a partire dai singoli oppure a partire dalla comunità politica? Forse, una delle chiavi del successo popolare di queste pratiche sta appunto nel grado di massimizzazione delle attese dei singoli. Infatti, l’eutanasia appaga il mio volere singolo di recidere i rapporti con questa vita e di farlo senza sofferenza. In qualche modo, allora, l’eutanasia è il risultato del disagio politico dei soggetti, privi di legami soddisfacenti con il resto della popolazione e frammentanti nel mare magno della complessità. In realtà, il problema non è nemmeno dei soggetti, i quali, in quanto tali, istanziano singolarmente la frammentazione moderna delle comunità politiche, ma della mancanza di un pensiero politico. Non manca la politica, anzi ve n’è sin troppa, ma la capacità di formularne valori, principi ed orizzonti di senso condivisi. Io non ci sto, voglio andarmene dolcemente …

Sicuramente l’eutanasia è tecnicamente possibile. Ma è anche giusta? E qui ci addentriamo nelle considerazioni etiche. Non bioetiche, ma etiche. E la precisazione è una precisa scelta di campo. Abbiamo detto poco fa che l’eutanasia è, senza tanti giri di parole, un atto che consiste nella soppressione di un terzo che ne faccia esplicita richiesta.  È, cioè, un omicidio. Ma in ragione di una sorta di contratto tra i due non comporterebbe conseguenze spiacevoli per l’assassino. Le parole paiono importanti: se dico “omicidio”, l’eutanasia non pare improvvisamente tanto bella o appetibile. L’omicidio è un insieme di azioni volutamente messe in campo per togliere la vita ad un soggetto. Che quest’ultimo lo desideri non è davvero significativo. E non lo è nemmeno che avvenga in regime di sedazione profonda. Un soggetto umano uccide un altro soggetto umano. È giusto? Dubito che possa esserlo. Ma delle tante ulteriori obiezioni che si potrebbero muovere, prendiamo in considerazione solo un aspetto rilevante per i miei attuali argomenti etici. L’eutanasia è tale se chi lo richiede cessa di vivere senza soffrire. La nostra società è terrorizzata dalla presenza del dolore, e pretende che, attraverso appositi strumenti, sia progressivamente tolta, quando non del tutto eliminata. La cosa non deve stupire: la presenza del male nel mondo ha sempre suscitato scandalo. La novità sta nel rinnegare questa stessa cifra della condizione umana. Basta leggere Eschilo per avvedersene: vivere è soffrire. La vita è, per definizione, tensione, sforzo, mancanza, … sofferenza. Perché immaginare una vita priva di sofferenza? Perché migliore. Non si comprende allora perché non intensificare la terapia del dolore mentre invece si invoca la morte di chi soffre. Ora, colui che chiede l’eutanasia probabilmente non rifiuta la vita in quanto tale, ma quello specifico e singolare tipo di vita che gli è capitata. Forse non è sempre insopportabile o forse diventa strumento di affermazione di un principio o diritto: la vita è mia e ne dispongo. Riflettiamoci sopra un attimo: da sempre, i diritti soggettivi sono stati strumenti per il benessere dei soggetti umani. Quindi, i diritti erano mezzi mentre il fine erano i soggetti umani. Assistiamo oggi ad un proliferare di diritti la cui nota costante è l’inversione di detto rapporto, ovvero non si pretende più che il diritto sia riconosciuto per ampliare le sfere di libertà del soggetto umano, ma perché ciò che conta è il principio stesso, vale a dire il diritto in quanto tale. Ne consegue, allora, che dinanzi a diritti insaziabili lo stesso soggetto umano, da fine diventato mezzo, venga fagocitato. E l’esempio è senza dubbio calzante nel caso dell’eutanasia. Infatti, il diritto ingoia per intero il soggetto che lo richiede. E, in questo caso, l’effetto è definitivo. Chi sceglie l’eutanasia, non può tornare indietro, non può modificare le sue decisioni. Muore. “Ma lo ha scelto lui e noi non possiamo che rispettarne la volontà”. No, possiamo giudicarla. Ad esempio, chi ci garantisce che la sua volontà fosse pienamente consapevole? O che non fosse in qualche modo indotta? Immaginiamo un anziano malato in tutto dipendente dagli altri. Se questi gli facessero pesare la sua condizione, a lungo andare non potrebbe maturare la decisione di abbreviare la sua vita tramite il ricorso all’eutanasia? Sarebbe libero fino alla fine? Ne dubito. Ma facciamo un altro esempio. Poniamo caso che un facoltoso principe del foro per via di un incidente resti paralizzato dal petto in giù e che nonostante l’assistenza puntuale e abbondante, egli soffra del suo nuovo stato. Non maturerebbe un desiderio di eutanasia? Probabilmente, sì. Ma sarebbe un consenso libero? Difficile dirlo, se si prescinde dal tipo di vita che si troverebbe improvvisamente a dover condurre. Ma, e più a fondo, si ripete, anche in un’ottica di legittimazione culturale dell’eutanasia, che non basta vivere, che ci vuole qualcosa di più per meritarsi la vita. Questo è un concetto pericolosissimo in ottica etica perché separa gli uni e gli altri sulla base di un funzionalismo che non è disponibile per tutti. Uno dei campioni più noti di questa prospettiva è senz’altro Nussbaum, per la quale, tuttavia, permangono ancora ampi margini di liberalismo circa le condizioni eque da garantire a ciascuno perché possa vivere, al di là del semplice essere. Eppure, sullo sfondo si staglia sempre l’interrogativo di fondo: l’essere dell’essere umano è uguale al mero trascorrere del tempo? Cos’è che rende umana la vita umana? Possibile che l’essere degli esseri umani sia lo stesso del sasso? Del fiore? Della stella? È possibile che il disagio della modernità, che esperiamo, con i suoi eccessi di naturalizzazione della vita umana, di animalizzazione – mi si passi il brutto neologismo – della condizione umana, lo spaesamento innanzi alla complessità di ciò che esiste, abbia finito con il ridurre ciò che è umano a qualcosa di poco conto? Di, in fondo, insignificante? E tale da dover reclamare un surplus di sforzo vitale perché la vita umana sia davvero degna di essere vissuta? Se non basta sopravvivere, quali sarebbero gli standard superiori perché si viva? C’è chi indica la qualità della vita, chi una soglia massima di sofferenza da patire, chi un ventaglio di realizzazioni personali … Per Spaemann, uno tra i molti, la differenza che corre tra qualcosa e qualcuno è la capacità che gli esseri umani possiedono di avere contezza di essere individuali istanziazioni del genere umano. In breve, volendo abbreviare, potremmo semplificare dicendo che gli uomini non sopravvivono, ma vivono. E lo fanno perché la loro condizione non si riduce ad una qualità, ad una classifica di dolore patito, ad un elenco di obiettivi professionali da conseguire. Sicuramente, noi siamo anche funzioni, ma non siamo le nostre funzioni. Anche perché non a tutti sono date le medesime funzioni o lo stesso grado di funzionamento e neppure le medesime occasioni al cui interno espletarle. Non siamo qualcosa, ma qualcuno. E questo qualcuno non è un’isola separata dai suoi simili. Invece, l’onda possente dei diritti moderni ha le sembianze di una sequela frammentata di pretese e di rivendicazioni soggettive. Io voglio che …, io ho diritto a … Ma la cornice generale dei diritti personali cade dentro una cornice di relazioni umane. Altrimenti, tutti avremmo solo diritti, e nessun dovere. E, dunque, vivremmo dentro una condizione sociale di ingiustizia. Eppure, sfrondato dei nostri termini e del nostro periodare, le movenze del “partito” eutanasico sono proprio queste: io non godo di questa mia vita, io ho il diritto di rifiutarla! Ma non c’è soltanto l’io, ci siamo noi. Con l’eutanasia non è il singolo che rifiuta la vita, ma è un gruppo sociale che accetta di eliminare propri singoli. E perché  mai una comunità dovrebbe uccidere i propri membri mentre contemporaneamente condanna singoli che uccidano altri membri? È un interessante cortocircuito: si condanna l’omicidio quando commesso da singoli ma si legalizza l’omicidio quando viene commesso dalla comunità. Non funziona. Non funziona nel caso della pena capitale, come potrebbe andare bene invece nel caso dell’eutanasia? Non è sufficiente il consenso personale perché lo sia. È l’orizzonte generale che lo rende un disvalore.

Inoltre, per tornare all’abilismo che renderebbe degna la vita, non tutti possono scegliere come vivere, mentre tutti possono vivere. Allora, la vita di quanti non possono compiere quella scelta sarebbe meno degna? Meno importante? Meno desiderabile? Immagino le pressioni su anziani e disabili per abbreviare le loro vite, ricorrendo all’eutanasia, al fine di rendere meno penosa l’opera di assistenza dei familiari. Pressioni inconsce, sia ben inteso, ma pur sempre pressioni influenti, soprattutto in quelle difficili e particolarmente onerose condizioni di vita. E, dunque, a ben vedere, l’istituto, finirebbe per andare bene per i pochi che davvero lo vorranno e per i tanti invece che socialmente, economicamente, umanamente vi saranno risospinti da una comunità che non vorrà più sostenerne il peso, una volta che si renderà disponibile quest’ulteriore possibilità per situazioni senz’altra via di uscita. Un peso dolce e o buono ...

Vista da un’altra prospettiva, l’eutanasia legale sembra essere una magnifica occasione per il corpo sociale di tagliare proprie membra. Ed è ironico che ciò avvenga nell’esatto momento in cui i più liberali credono di dare massima espansione ai diritti dei singoli. Cessano di vivere i singoli, continua a vivere il gruppo. Chi ci guadagna di più? I singoli? Il gruppo? Anche questa è una questione di equità, ma contribuisce a mostrare quanto sia errata la proposta di eutanasia legale.

Probabilmente, si potrebbero aggiungere tante altre considerazioni, ma credo di essere già abbastanza impopolare.



lunedì 27 febbraio 2017

C'è un diritto a morire?

Esiste un diritto a morire? Considerazioni chiarificatrici …

A vicenda conclusa, conduco le seguenti considerazioni.
Ogni volta, si ripete la telenovela. I suoi passaggi sono i soliti, mi si passi la sintesi estrema:

1. malato terminale o senza speranza alcuna di guarigione invia un appello al presidente della Repubblica di turno con il quale chiede aiuto;
2. lo stesso, successivamente, manda un appello al Parlamento affinché vari subito una legge sul “fine – vita”, o variabilmente sul “testamento biologico”;
3. segue un intervallo breve ma di intenso silenzio;
4. improvvisamente, chi per lui comunica che il soggetto si trova in Svizzera e che si sta sottoponendo alle visite del caso;
5. qualche ora dopo, il portavoce improvvisamente comunica che il soggetto “può sempre cambiare idea”;
6. segue un silenzio di poche ore;
7. improvvisamente, arriva il comunicato con cui si annuncia la morte “dolce” del soggetto;
8. qualche ora dopo, si diffonde un ultimo messaggio del soggetto defunto nel quale si recita sempre lo stesso bozzetto “muoio all’estero perché il mio paese non me lo ha consentito”.

Al netto delle vicende soggettive e del singolo caso, e a prescindere dall’umana sofferenza esperibile in questo come in tanti altri casi, ritengo sia doveroso svolgere alcune considerazioni. Non possiamo giudicare le persone, ma riflettere sulle loro azioni sicuramente sì. Certo, le presenti potranno piacere come non piacere, ma quando leggo di considerazioni di terzi che non mi piacciono, non nego certo loro la possibilità di intervenire nella discussione. Spero valga lo stesso per me.
La sequenza (1) – (8) è ovviamente frutto di un’abile regia la cui finalità finale è ben chiara: non fare l’interesse del soggetto, ma utilizzarlo per investire di onda emozionale l’elettorato nazionale. Sì, alla fine il soggetto ha avuto quanto chiedeva ma ciò non lo ha  certo messo al riparo da approfittatori o da abili persuasori che desideravano strumentalizzarne la sofferenza. E non credo lo si possa negare. Peraltro, è stucchevole annunciare che “può anche cambiare idea” dopo che, a proprie spese, lo si è trasportato in Svizzera. Forse anche ipocrita, ma è funzionale al gioco retorico messo in scena. Tutto per realizzare il colpo ad effetto finale: è finalmente libero.
Libero … da che cosa? E qui veniamo alle riflessioni più dure. Se nella messa in scena mediatica, una sorta di spot pubblicitario/propagandistico, è ovvio che la responsabilità del soggetto venga diminuita e sciolta nell’apparato che ne ha gestito le ultime settimane, comunicati compresi, sulle motivazioni delle sue decisioni ci sono molte cose da dire.
In primo luogo, la libertà del soggetto. Da una vita scintillante e pericolosa ad una vita immobile, oscura e con mille difficoltà prima assenti. È comprensibile che ci senta prigionieri, è la condizione propria di qualsiasi disabile, ovvero di chiunque non possa liberamente entrare in relazione e relazionarsi soddisfacentemente con gli altri. Ma è sempre vita. Ecco il primo problema: non si tratta di quantità, ma di qualità. L’assenza di livelli elevati di soddisfazione personale nella vita che si esperisce non c’entra con la libertà. Voleva liberarsi della propria libertà? Ma è morto proprio per poterla affermare … No, al netto dei giochetti retorici, il soggetto ha rifiutato la vita, asserendo di voler riaffermare la propria libertà. Magari quella di cui godeva prima dell’incidente, una solo ricordata ed enfatizzata, oppure una solo sognata ora che viveva con quanto gli era rimasto. Ma la libertà c’entra con la vita?
Secondo problema. Cos’è la vita? Un insieme di desideri e moventi correlati? Oppure tanto altro? In altre parole, quando asseriamo che la “vita è mia”, cosa intendiamo? Una lunga sequela di pensatori moderni ci hanno detto e ripetuto che la vita è nelle nostre disposizioni personali, ovvero che possiamo farne quel che vogliamo. In merito, ritengo che si tratti di una semplificazione che riposa su due equivoci, distinti ma vagamente confusi. Innanzitutto, la vita non è un bene che consumiamo. La sua fungibilità non c’entra nulla, ma proprio nulla, con la qualità del prodotto. Certo se intendiamo la nostra esistenza come un bene, è del tutto naturale desiderare il massimo del profitto, ovvero che il bene – vita sia perfetto, e non malandato o fiacco o di bassa qualità. Cosa ha rifiutato il soggetto in questione? La vita? No, la qualità del bene-vita. Ma considerare la vita un bene, come un’auto o una moto o il conto in banca fa il paio con l’altro equivoco cui accennavo in precedenza, vale a dire la diretta permeabilità della disponibilità della vita a sorgente dell’arbitrio morale. In altri termini, quando affermo che “ la vita è mia” intendo anche asserire che ne posso fare quel che voglio e, cioè, che sono io soggetto morale che possa legiferarvi sopra. Il che è, almeno prima facie, del tutto erroneo. Infatti, tale soggetto morale è adagiato su una fallacia tanto grossa quanto invisibile ai più, vale a dire che una cosa è la volontà personale del singolo un’altra cosa la sua possibilità tecnica. Detto altrimenti, non è affatto consequenziale che se voglio qualcosa, questo qualcosa rientri nelle mie disponibilità per il semplice fatto che esistano una o più tecniche disponibili all’uopo. Ciò significa che quando asserisco la “vita è mia” sto semplicemente ribadendo verbalmente, e con qualche altro atto, un mio desiderio, una mia massima, un mio capriccio, un mio arbitrio in altri termini. Ma il fatto che lo stesso sia (tecnicamente) possibile, non garantisce in alcun modo circa la sua moralità. Anzi, la possibilità non comporta la sua liceità, chi lo pensi o lo sostenga, volutamente o in buona fede, cade in grave errore. Penso che la filosofia moderna abbia parlato in merito di fallacia naturalistica. Ma ometterò la cosa per tutelare la sensatezza delle presenti considerazioni. Che sia tecnicamente possibile fare qualcosa alla (mia) vita non autorizza alcun passaggio immediato alla sua bontà assiologica. Questo perché non è la possibilità materiale a rendere moralmente buona una determinata azione. Quando si asserisce che la “vita è mia”, in realtà, si asserisce che quanto voglia farne della stessa è … un mio diritto. E così giungiamo all’ultimo stadio delle presenti considerazioni.
I difensori del gesto estremo, anche molto disperato, a dispetto dell’ingentilimento retorico presentato ai media, si trincerano dietro al valico insuperabile del diritto soggettivo. Ma cos’è un diritto? Dall’infanzia sino alla terza età, la nostra epoca è attraversata dagli assertori apodittici del diritto infallibile del soggetto. Questo è un mio diritto. Questo è un mio sacrosanto diritto. Questo è un mio diritto fondamentale. E così via. Tutto, o quasi, è considerato, asserito e difeso, come un diritto del soggetto che lo concepisce, asserisce e difende. Non è così, ovviamente. Non ogni desiderio personale è un diritto. Non ogni capriccio è fonte di diritti soggettivi. Non ogni arbitrio è sorgente di diritti. Il diritto sta alla vita di ciascuno come ciascuno sta al mezzo. Ecco il punto. I diritti sono strumenti per la vita del soggetto, non viceversa. Altrimenti, si verifica quello che, i più sapienti di me, chiamano i “diritti insaziabili”. Ovvero, la progressiva, ed inarrestabile, estensione del novero dei diritti ha come suo corrispettivo la scomparsa del senso stesso del diritto soggettivo, vale a dire della legittima pretesa del soggetto a godere di un certo trattamento di favore in accordo ad una sua particolare condizione esistenziale. Ma se io asserisco che “essendo mia la vita, è mio diritto farne quel che voglio” ci troviamo alle prese con un grosso equivoco la cui strutturazione epistemica è difficilmente districabile per via dei mille equivoci su cui riposa. Disporre della vita non è un diritto. Sarebbe semplice, ma i più fraintendono tra aspirazione e tutela degli interessi personali. La fungibilità della vita non si traduce in sua disposizione, come quando si tratta un qualsiasi altro bene. Addirittura, si potrebbe rincarare la dose dicendo che la vita non è un diritto. La ragione di ciò è tanto semplice quanto ignorata. La vita è un insieme di condizioni, di stati, di relazioni, di mezzi, di progetti, di variabili. Ne consegue che essa è il fine del soggetto. Allora, come può la vita diventare strumento nelle disponibilità del soggetto? Trattasi di mera strumentalità che tradisce la prospettiva arbitraria del soggetto stesso. Infatti, affermare l’esistenza di un diritto personale sulla vita significa asserire che la vita è sottoposta al dominio del soggetto, e che, quindi, è, né più né meno, strumento per l’affermazione del soggetto stesso. Si potrebbe pensare a qualcosa di più paradossale? Ma questo è l’esito, ipotizzo non frutto di adeguata riflessione e ponderazione, di un altro stile di pensiero, e di atteggiamento, che connota, in lungo e in largo, la nostra mentalità corrente. Infatti, è conseguenza del nesso volontàdiritto. Eccoci, così, giunti, all’ultima stazione, al cospetto del terribile diritto del soggetto. In realtà, quando asserisco “la vita è mia” sto giustificando il mio imperio sulla vita. Pertanto, ogni contenuto della mia volontà è equiparabile ad asserti giuridici, la cui forza è corrispondente a quella di prerogative personali accordatemi dalla società cui appartengo per via della sorgente intima e personale della volontà che legifera. Ma questo è un insensato scimmiottare nel piccolo giardino del desiderio personale del singolo il meccanismo pubblico e generale del riconoscimento di diritti. Ed è insensato perché equipara erroneamente volontà e trattamento di favore. Non è così. Non funziona così. È pericolosa come dinamica. Elevare a rango di pretesa soggettiva meritevole di tutela e promozione erga omnes significa abbassare il diritto a questioni di bottega o di commercio tra singoli. Non è un caso che tutti i commentatori si siano prodigati o sentiti in obbligo di asserire che “nessuno può transigere” circa la bontà del desiderio del soggetto in questione. È ovvio che un siffatto stato di cose rende ciascuno uno straniero morale in casa d’altri. Così, il terribile diritto del singolo eleva steccati altissimi tra il “sé” e tutti gli altri, come se a casa sua vigesse un altro diritto, altri diritti personali …
In effetti, a ben guardare, il soggetto in questione non ha chiesto né la fine dell’accanimento terapeutico, che d’altra parte non era in corso, né tantomeno di porre fine alle sue sofferenze, che una buona terapia del dolore avrebbe facilmente consentito. Il soggetto ha chiesto di morire, ha scientemente e deliberatamente chiesto di rifiutare la vita. È normale se si considera la vita un bene fungibile. Se è difettosa, la si può ben rifiutare. Non è forse un suo diritto? Non è un diritto di recesso? La strumentalità della vita, però, ha inesorabilmente ridotto il soggetto che la rifiutava a strumento a sua volta. Infatti, rifiutare la vita in nome di un diritto personale a rispedirla al mittente, in quanto qualitativamente non all’altezza, significa, né più né meno, che il soggetto stesso è infine mezzo del diritto che asserisce. Ecco qua il punto cruciale: l’estensione inesorabile del catalogo dei diritti ha il rovescio di rendere possibile l’inversione del normale rapporto tra il diritto e il soggetto che ne fruisce. In altri termini, ed è questo ciò che ostende la divulgazione sul tema, il soggetto è divenuto strumento di affermazione del diritto stesso, e non più suo fruitore. La sua vicenda è stata sapientemente adoperata per affermare la sovranità assoluta del diritto a disfarsi della propria vita. E poco importa che inizialmente sia stata una scelta consapevole del soggetto o che il tutto sia partito dal soggetto stesso. Il diritto in questione ha finito con il fagocitare il soggetto stesso, a sua volta ingranaggio nel meccanismo infernale attivato: atomizzare i soggetti in regni parziali di diritti personali. Infatti, quando asserisco che “la vita è mia”, asserisco nel contempo che “solo io posso farne quel che voglio”. Il che, però, comporta anche la scissione dei rapporti tra il soggetto in questione e la comunità di appartenenza. Non v’è più un vincolo generalista che deponga circa la bontà o meno dei diritti soggettivi.
E qui giungiamo alle ultime considerazioni. Proliferano foto e meme degli ultimi tempi. Cosa ci dicono queste immagini? Che una persona soffre. Il moto immediato è cercare di fare qualsiasi cosa per lenire tali sofferenze. E questo è, in effetti, il messaggio ultimo di chi ha confezionato la telenovela, vale a dire far accettare ai più l’idea, nonché la bontà, di un (presunto) diritto soggettivo a porre termine alla propria vita. Ma soffriva davvero? Ecco, l’immagine non ce lo dice, ma, nella sua crudezza, nella sapiente disposizione della sua scenografia medica e mediatica, ce lo fa supporre. Che significa? Significa che vi è un significato emotivo che le immagini recano pur mostrando altro. Si parla tanto di post – verità, ma in fondo la crudezza del presente attuale agisce sugli strati profondi della nostra coscienza e parla al nostro di presente, alla nostra di vita, alla nostra di salute, alla nostra di volontà. Sì, quella visione attiva il nostro dispositivo intimo e inconscio di difesa perché mostra, e ci rende tangibile, la nostra stessa fragilità umana, la vulnerabilità corporale che ci caratterizza. Nella storia del soggetto in questione ciascuno ha visto la propria vita, ha scorto il concreto rischio di fare la stessa fine, ha gustato l’indesiderabile condizione di vita danneggiata, di libertà limitata, di bassa qualità … E questo ha attivato il primordiale meccanismo di difesa dell’io, vale a dire la negazione. Temo di perdere tutto quanto? Temo di perdere la mia libertà? Temo di perdere le bellezze della vita? Bene, nego questo timore. Ma per negarlo, devo anche rimuovere ciò che lo causa, vale a dire la visione che percepisco, le stesse foto retoricamente e ad arte prodotte allo scopo di suscitare disgusto. La conclusione è asserire circa la volontà espressa dal soggetto, ossia negare la causa del suo di disgusto, la vita stessa. Ma questo ci spinge ad un’ultima considerazione, la seguente: la qualità di una vita non risiede spesso nella sua vera o meno qualità, ma nella sua relazione con i nostri desideri. In altri termini, non vediamo con gli occhi, ma con il ventre. Ed una volta abilitato il passaggio dal desiderio alla sorgente morale, nulla diminuisce questa miopia soggettiva. Ma non è un problema solo del singolo, ma dell’intera comunità. Infatti, il normale esito è un nichilismo giuridico dal momento che i diritti valgono non più per tutti, ma per il singolo utente o, comunque, in funzione della sua eccezionalità. Ne consegue anche come il singolo sia del tutto solo. E questa non è una ricchezza o forza, ma una profonda debolezza. D’altro canto, il fatto che il soggetto in questione sia stato affiancato da un vero e proprio apparato la dice lunga sulla condizione di emarginazione e di esclusione dello stesso. Questo dovrebbe sollecitare più d’una legittima questione circa la sua effettiva libertà così come circa l’accertamento della sua effettiva volontà. Una persona sola o indotta, più o meno direttamente, a considerare poca cosa la sua vita e, magari, anche spinta a rifiutarla. Era cosciente? Era libero di farsi una sua idea? Di ponderare i pro e i contro? Questo è un problema insidioso dato che potrebbe falsificare l’intera telenovela mandata in onda. Ma non lo sapremo mai, con un soggetto divenuto testimonial di una causa non propriamente sua, del “terribile” diritto a rinunciare alla propria vita …



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