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giovedì 1 agosto 2013

Logica deontica. FAQ2

Paradossi? Cosa sono quelli che capitano alla logica deontica?

Si tratta di mere contraddizioni che derivano dall'apparato formale del calcolo deontico stesso. Insomma, delle derivazioni inaspettate ma indesiderate[1], delle conseguenze logiche che però contraddicono o un assioma o un teorema della logica deontica stessa. Ne esistono un gran numero e per alcuni è indice di inadeguatezza formale[2] oppure ancora della necessità di un completamente del linguaggio formale prescelto[3].

Ma in cosa si distinguerebbero quelli deontici dai normali paradossi logici?

Nel loro caso l'insidia logica comportata dalla presenza di una contraddizione è ancora più grave. Non si tratta di un semplice, per così dire, autoriferimento semantico, una delle principali cause di contraddizione logica, come per esempio nel caso del paradosso del mentitore, ma un più marcato ed ostico malfunzionamento del linguaggio formale prescelto per formalizzare il comportamento dei concetti normativi. Se si verifica un paradosso deontico, è l'intero calcolo che suo malgrado lo ospita che decade a causa della sua incoerenza.

E come hanno luogo i paradossi deontici?

Secondo Hansson[4], esiste un significato particolare, e specifico, delle nozioni deontiche che non può venir rappresentato in maniera adeguata dal linguaggio simbolico scelto. Ragion per cui la dontraddizione che può essere derivata non è un esito comunque rifiutabile dal sistema logico di partenza, ma un'antinomia o una contraddizione interna al calcolo stesso.

É un problema di linguaggio?

Sì, perché von Wright stesso decise di costruire l'insieme di assiomi e tesi fondamentali della logica deontica, ossia la struttura entro il quale cercare di catturare il significato logico dei concetti normativi, sul linguaggio della logica proposizionale, rendendo così davvero difficile, quanto non del tutto impossibile, render conto di particolari fenomeni I quali, infatti, danno luogo a contraddizioni.

Quali fenomeni?

Partendo dal fatto che I paradossi deontici sono, in genere, o il risultato dell'interazione tra un operatore e una variabile oppure anche l'effetto di un'interazione tra una tesi generale e un caso particolare, in ogni caso si deve convenire sulla natura “rigida”, e poco flessibile, del linguaggio logico, incapace così di rispondere in maniera adeguata ad alcune particolari sollecitazioni. Per Feldman[5], la maniera più semplice per emendare la logica deontica, qualsiasi calcolo di logica deontica, è modificare il linguaggio enunciativo normalmente adoperato e rendere così conto di alcune circostanze non rappresentabili in maniera adeguata nei sistemi deontici. In breve, la logica deontica non appare in grado di render conto adeguatamente delle seguenti circostanze:

(1) relazioni di causalità tra modali deontici;
(2) relazioni di condizionalità (primaria e secondaria) tra proposizioni deontiche;
(3) iterazione di modali deontici;
(4) iterazione modale (modalità miste);
(5) difettibilità, e relativa apertura a tempi, agenti e contenuti differenti, delle proposizioni deontiche;
(6) vincoli di coerenza basati sul principio di contraddizione.

Per Brown[6], ad esempio, proprio la possibilità di distinguere tra tipologie differenti di obblighi, primari e secondari, o, in qualche modo anche, tra differenti tipi di condizionalità tra obbligo generale e sua declinazione singola, consente di superare gran parte delle difficoltà in cui si dibatte la disciplina.

Sembra di capire che il problema di base della logica deontica sia la sua eccesisva rigidità, giusto?

Sì, è così. Il linguaggio monadico, che consente l'assunzione di una sola variabile da parte di un singolo operatore, e una semantica molto povera, assunto dalla disciplina partire dal saggio pioniere di von Wright, non consente di cogliere la multiforme realtà deontica nella sua eterogeneità di singolarità e di coordinazione tra tesi generali e casi particolari. Dello stesso paere appare anche Feldman[7].

Senza una modifica in tal senso, la logica deontica è destinata a restare sostanzialmente impresentabile data la sua natura problematica?

Per Artosi[8], la situazione è sostanzialmente così. E, francamente, anch'io la penso così.

Ma è possibile fornire qualche esempio di paradosso deontico al fine di percepire meglio la natura particolare di tali contraddizioni?

Certamente. Possiamo elencare nella maniera che segue I principali paradossi che la letteratura deontica ci tramanda:

1) il paradosso dell'obbligo derivato;
2) il paradosso di Ross;
3) il paradosso del Buon Samaritano;
4) il paradosso della vittima;
5) il paradosso del ladro;
6) il paradosso di Platone;
7) il paradosso di Sartre;
8) il paradosso dell'Imperativo contrario al Dovere;
9) il paradosso del dovere epistemico.

Ora, pur essendo formule correttamente derivate entro il proprio sistema logico, sono quantomeno controintuitive una volta interpretate in senso normativo[9]. Vediamoli adesso singolarmente. Il paradosso dell'obbligo derivato fa riferimento ad un principio base della logica deontica, segnatamente il principio dell'obbligo derivato, secondo il quale «l’esecuzione dell’atto p obbliga (moralmente) l’agente ad eseguire l’atto q»[10]. Siccome, però, il concetto di obbligo è interdefinibile sulla base di uno degli altri concetti deontici, tale obbligo conduce all'esito paradossale secondo il quale «il fare un atto vietato ci obbliga a fare qualsiasi altra cosa. Per cui, ad esempio, ammesso che il furto sia un atto proibito, il compierlo ci obbliga a commettere un altro atto, ad esempio l’omicidio»[11]. Come a dire che, e in maniera del tutto insensata, «the doing of what is forbidden commits us to the doing whatsoever»[12]. Si tratta di una conclusione del tutto inaspettata ma indesiderata e che pone un serio dubbio sulla consistenza del sistema deontico stesso dal momento che è una contraddizione difficilmente refutabile senza comportare un rigetto anche del principio base. Per von Wright, si tratta di un analogo deontico del paradosso dell'mplicazione stretta[13].

Ora diventa più chiara la difficoltà posta in essere dai paradossi deontici. Ma cos'altro possiamo dire al riguardo e su tutti gli altri?

Il paradosso di Ross è un vero e proprio esempio di antiquariato deontico nel senso che p stato formulato da Alf Ross, lo stesso del dilemma di Jørgensen prima ancora che la logica deontica quale disciplina nascesse storicamente[14]. Comunque, anch'esso coinvolge direttamente uno dei principi fondamentali della logica deontica, ossia il principio secondo il quale devono darsi le conseguenze di cosa è il caso che si dia[15]. Ora se abbiamo l'obbligo di compiere una data azione, per esempio 'p', ciò comporta dover accettare che tale obbligo corrisponda all'obbligo equivalente di compiere l'azione 'p' oppure l'azione 'q'. Il problema sorge una volta che tale formula viene interpretata, per cui possiamo incorrere nella contraddizione seguente: è obbligatorio imbucare la lettera oppure bruciarla[16]. Il che è del tutto contraddittorio: com'è possibile che dall'obbligo ad imbucare una lettera segua naturalmente che sia obbligatorio imbucarla o bruciarla?

É una contraddizione notevole oltre che preoccupante. Accade la stessa cosa con gli altri paradossi?

Il meccanismo di genesi della contraddizione è, più o meno, lo stesso: vige un principio base del sistema il quale non funziona più quando deve declinarsi nel caso concreto. Ad esempio, prendiamo ora in considerazione il paradosso del Buon Samaritano. Quest'ultimo prende le mosse, come conseguenza paradossale, dal principio [P] secondo il quale «whatever implies what is forbidden is itself forbidden»[17]. Pertanto, seguiamo il discorso di Poli: «un fondamentale principio della logica deontica è: (P) Se un atto A implica un atto B, allora: (1) L’obbligatorietà di A implica l’obbligatorietà di B; (2) La proibizione di B implica la proibizione di A. se, in sintonia con un’opinione diffusa, intendiamo «atto A» come «affermazione o stato di cose tale che qualche agente esegue A», il principio (P) si trasforma in: (P) Se una persona a esegue l’atto A implica che una persona b esegue l’atto B, allora: (1) che la persona a è obbligata a fare A implica che la persona b è obbligata a fare B; (2) che la persona b ha la proibizione di fare B implica che la persona a ha la proibizione di fare A. (P) però non è equivalente a (P). Esso conduce anzi ad autocontraddizioni»[18]. Facciamo un esempio, se il Buon Samaritano aiuta Giorgio che è stato derubato, allora possiamo dire che Giorgio è stato derubato; ma è vietato che Giorgio venga derubato. In tal caso, allora, essendo che il Buon Samaritano aiuta Giorgio perché quest'ultimo è stato derubato, è vietato pure che il Buon Samaritano aiuti Giorgio. Questo risultato è del tutto paradossale[19].

(continua)

Note

[1] Cfr. E. J. Lemmon – P. H. Nowell Smith, Escapism: The Logical Basis for the Ethics, “Mind”, 69, 1960, p. 290: «this is not a logician’s paradox, like Russell’s class of paradox; it reveals no logical antinomy or contradiction within the calculus. It is simply that theorem 54, which is obtained by substitution from a truth of logic, gives, when interpreted, a result which is not only surprising, but unpalatable».
[2] Cfr. G. Sartor, Informatica giuridica. Un’introduzione, Giuffré, Milano, 1996, p. 87: la logica deontica manca «di solide fondamenta logiche e filosofiche».
[3] Cfr. G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere, Giuffré, Milano, 1969, p. 612: la logica deontica è «non ancora sistemizzata completamente».
[4] Cfr. B. Hansson, An Analysis of Some Deontic Logics, “Noûs”, 4, 1969, p. 373: «The “paradoxes” which arise in these logics seem to indicate that the axioms reflect only some special sense of the words “obligation” and “permission”».
[5] Cfr. F. Feldman, A Simplex Solution to the Paradoxes of Deontic Logic, “Philosophical Perspective. Action Theory and Philosophy of Mind”, 4, 1990, p. 309: «Some of deontic logic’s stickiest problems are revealed by the so-called “paradoxes of deontic logic”. None of these is, strictly speaking, a paradox – no one purports to derive a contradiction from a bunch of seemingly uncontroversial premises. Instead, the general form is this: some system of deontic logic has been proposed. A critic then describes a possible situation and produces a set of ordinary language sentences. The sentences would presumably be true if the situation were occur. The critic next indicates the systematic representations of these sentences. He points out that the systematic representations do not have the logical features of the ordinary language sentences they are intended to represent. In the most typical case, the problem is that the original set of sentences is consistent, whereas the representations are inconsistent».
[6] Cfr., M. A. Brown, Conditional and Unconditional Obligation for Agents in Time, in M. Zakharyaschev – K. Segerberg – M. De Rijke – H. Wansing (eds.), Advances in Modal Logic. Volume 2, CSLI, Stanford, 2001, p. 121: «It is widely recognized that any full development of deontic logic must provide a way in which to represent and reason about conditional as well as unconditional obligation. Traditional discussions of deontic logic have, for the most part, set aside various sorts of complications, aiming to provide a simple core theory of unconditional obligation and/or of conditional obligation which might later (it was hoped) be adjusted and elaborated, to take account of various subtleties. The result has been a series of accounts of obligation which have been unsatisfying in various ways, not least of which is the fact that they have been beset by a variety of “paradoxes”».
[7] Cfr. F. Feldman, op. cit., p. 336: «it seemd to me that the solutions to the paradoxes require a system that has the following features: (a) it must be able to express some sort of conditional obligation for which factual detachment fails; (b) it must be able to express the idea that something may be obligatory as of one time, but non-obligatory at some other time; (c) it must be able to express the idea that something may be obligatory for one person, but not for others».
[8] Cfr. A. Artosi, il paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000, p. 69: «la logica deontica è una fonte insidiosa e inesauribile di paradossi».
[9] Ivi, p. 69 e sg.: «formule perfettamente valide dal punto di vista logico (cioè teoremi del Sistema Standard) che, quando interpretate, hanno, per così dire, un sapore fortemente controintuitivo».
[10] Cfr. R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (I), “Verifiche”, 3, 1982, p. 335.
[11] Ivi, p. 336.
[12] Cfr. A. N. Prior, The Paradoxes of Derived Obligation, “Mind”, 63, 1954, p. 64.
[13] G. H. von Wright, A Note on Deontic Logic and Derived Obligation, “Mind”, 260, 1956, p. 508: «The “paradox” under consideration is an analogue to a wellknown Paradox of Strict Implication in modal logic (…) that then an impossible proposition would entail any arbitrary proposition».
[14] Cfr. N. Grana, op. cit., p. 25: «nel ’41 Ross ne ha formulato uno, diventato in seguito famoso (paradosso di Ross). Lo possiamo esprimere nel modo seguente: OAO(AB). Esso ci dice che se un’azione è obbligatoria, allora è obbligatoria quell’azione o qualsiasi altra azione. L’esempio emblematico dello stesso Ross è il seguente: «Se qualcuno deve imbucare una lettera, allora egli deve imbucare la lettera o bruciarla»».
[15] Cfr. Al – Hibri Cox, Deontic Logic. A Comprehensive Appraisal and a New Proposal, University Press of America, Washington, 1978, p. 16.
[16] Cfr. A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 89 e sgg. Cfr. R. Poli, op. cit., p. 336: «Il paradosso di Ross si può simbolizzare nei due modi seguenti: (i) OpO(pq); (ii) Pp(pq). dalle due formulazioni indicate deriva che (i) se devo spedire una lettera, allora devo spedirla o bruciarla; (ii) se ho il permesso di guidare l’automobile, allora ho il permesso di guidarla o di uccidere».
[17] Cfr. Al – Hibri Cox, cit., pp. 17 – 18.
[18] Cfr. Cfr. R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), “Verifiche”, 4, 1982, p. 460.
[19] Cfr. A. Artosi, op. cit., p. 72: «il Buon Samaritano dal momento che se è vietato aggredire e derubare i viandanti, allora è vietato aggredirli e derubarli e anche soccorrerli quando vengano aggrediti e derubati. Così, andando in soccorso della vitima di una aggressione, il Buon Samaritano compie paradossalmente un’azione proibita. Di qui il nome di Paradosso del Buon Samaritano».


(immagine tratta da: http://journals.cambridge.org/fulltext_content/DIA/DIA25_04/S0012217300049684_eqnU1.gif)


sabato 27 luglio 2013

Logica deontica. FAQ




Cos'è la logica deontica?

Si tratta di una nuova branca nelle ricerche logiche del XX secolo che, ufficialmente, prende le mosse dai lavori di von Wright nel 1951[1].

Come “ufficialmente”?

Notoriamente, si ritiene atto fondativo della logica deontica moderna il saggio Deontic Logic pubblicato nel 1951 sulla rivista Mind. Tuttavia, però, come dimostrato ampiamente dalle ricerche di Knnuttila[2], sono presenti nel corso della storia umana molti precorrimenti o anticipazioni i quali, però, non hanno mai raggiunto la completezza, formale e d'intenti, del progetto di von Wright.

Ma di cosa si occupa esattamente?

Al riguardo, e coerentemente con la sua evoluzione, tanto rapida quanto burrascosa[3], il suo ambito di occupazione è mutato, passando dalle generiche 'norme' alla 'razionalità pratica'. Volendo schematizzare, però, possiamo sintetizzare almeno i seguenti sei significati fondamentali, magari tra loro molto simili, ma con significati reciprocamente eterogenei:

  1. logica delle proposizioni normative[4];
  2. logica delle norme[5];
  3. logica della deontica[6];
  4. logica dei concetti normativi[7];
  5. logica del ragionamento normativo[8];
  6. logica della razionalità pratica[9].

A seconda del significato specifico prescelto, i vari autori hanno posto in modo particolare l'accenso rispettivamente sul formalismo a) delle proposizioni normative; b) delle norme; c) della sfera deontica; d) sulla proprietà formali delle nozioni normative; e) sul formalismo specifico del ragionamento su norme; e, f) sul rapporto tra causalità pratica e conformità a precisi valori.

D'accordo, ma cosa sono le proposizioni normative? E cosa i concetti normativi?

Per le prime, in genere, s'intendono tutte quelle proposizioni ove figurano nozioni normative, come, ad esempio, 'permesso', 'vietato', 'obbligatorio', indifferente', e così via. In breve, tutte quelle espressioni che hanno uno specifico significato normativo, e nettamente in contrasto con quello delle espressioni che descrivono stati di cose. I concetti normativi, poi, sono semplicemente le nozioni aventi significato normativo senza che ciò comporti far riferimento diretto alle propozioni ove compaiono.

E il ragionamento normativo?

Detto in breve, tutti quei ragionamenti che operano su o con proposizioni ove figurano nozioni normative. Questo perché si ritiene che il comportamento logico di questi ultimi non sia riducibile a quello dei ragionamenti con o su proposizioni descrittivi di cose. Per questi ultimi, infatti, non v'è problema a verificare, in termini verofunzionali, le proposizioni oggetto di discussione o ragionamento, cosa che non è possibile fare alla stessa maniera con le proposizioni ove figurino nozioni normative o che possiedano uno spiccato significato normativo. In questo senso, infatti, la logica deontica appare dotata di particolare significato dal momento che, sensu lato, consente di estendere il dominio della logica oltre il reame della verità[10].

Perché le proposizioni normative non sono verofunzionali?

Perché non descrivono uno stato di cose, rispetto al quale ha senso chiedersi se siano vere oppure false, ma prescrivono un certo ordine reale, e rispetto al quale è impossibile chiedersi se siano vere oppure false. In letteratura, si parla appunto di 'Grande Divisione' tra fatti e valori, o anche di 'Legge di Hume', violando la quale si incorre nella 'fallacia naturalistica'. Tanto l'una quanto l'altra sostengono una sola cosa: non è possibile derivare il 'dovere', ossia il 'normativo', dall'essere', ossia il 'descrittivo' (e viceversa, ovviamente)[11].

Questo significa che la sfera pratica è del tutto svincolata dalla razionalità?

Assolutamente no, ma che, da un punto di vista teorico è problematico trovare una fondazione razionale la quale non incorra nella suddetta fallacia, o che operi arbitrarie invasioni di campo, p.e. Dal 'descrittivo' al 'normativo', oppure dal 'prescrittivo' all'essere'. E tuttavia appare prima facie banale osservare come le proposizioni normative funzionino secondo una logica. A rigore, dovrebbero collocarsi in un dominio eterogeneo a quest'ultima, ma ciò non accade né tantomeno possiamo considerarle del tutto 'logiche'. Da qui sorge un problema che Jørgensen chiamò puzzle[12]. Successivamente, il danese Ross chiamò questo problema, in onore del connazionale che per primo lo colse da un punto di vista teorico, 'dilemma di Jørgensen'[13].

Cos'è esattamente il dilemma di Jørgensen?

Si tratta del riconoscimento della difficoltà formale a giustificare la possibilità di inferenze ove figurino proposizioni normative o come premesse o come conclusione[14]. Questo perché essendo non verofunzionali, non pare possibile adoperare la logica, di per sé verofunzionale invece, per dare luogo a inferenze corrette o sensate. In genere, essendo un dilemma, vi sono due tesi reciprocamente esclusive le quali danno, rispettivamente, una versione della logica e una possibilità, positiva o negativa, circa una logica delle norme[15]. Volendo sintetizzare in questa sede, possiamo avere:

i) la logica, essendo verofunzionale, trova applicazione solamente alle proposizioni verofunzionali, e non alle proposizioni normative, ragion per cui è impossibile una logica delle norme;
ii) è possibile una logica delle norme a condizione, però, che la logica estenda il suo

Allora c'è un rapporto tra la logica deontica e il dilemma di Jørgensen?

Concettualmente sì, praticamente no. Infatti, si tratta di una topica afferente alla discussione teorica sulla possibilità, o meno, di una logica deontica[16] mentre nessun legame vero e proprio è possibile scorgere tra la prima e il secondo. Dire che la logica deontica affonda le proprie radici nella cd. Is – Ought Question[17] è banale nel senso che l'intera riflessione morale del XX secolo è stata determinata dalla sistemazione di Poincaré ai rapporti tra scienza e morale[18]. Piuttosto ha senso, invece, affermare che il pensiero pratico è pur sempre pensiero, e come tale dovrebbe rispondere alle medesime “leggi del pensiero”[19], sebbene, ovviamente, ciò appaia complicato e problematico. La presenza di diffusi paradossi deontici, ad esempio, e quello più eclatante, mette seriamente in questione la possibilità stessa di una logica deontica[20].

(continua ...)

Note

[1] G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 60, 1951, p. 1 e sgg. Cfr. G. H. von Wright, An Essay in Modal Logic, North – Holland, Amsterdam, 1951.
[2] Cfr. S. Knuuttila, Logica modale, in AA. VV., La logica nel Medioevo, Jaca book, Milano, 1999, pp. 289 – 308. Cfr. S. Knuuttila, Modalities in Medieval Philosophy, Routledge, London and New York, 1993. Cfr. S. Knuuttila, The Emergence of Deontic Logic in the Fourteenth Century, in R. Hilpinen (eds.), New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, pp. 225 – 248. Cfr. S. Knuuttila, The Emergence of the Logic of Will in Medieval Thought, in G. B. Matthews (eds.), Augustine Tradition, University of California Press, New York, 1999, pp. 206 – 221.
[3] Cfr. Cfr. G. H. von Wright, Norme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, p. 5: «Il mio itinerario attraverso il labirinto della «logica deontica» dura ormai da più di trent’anni». Cfr. Cfr. J. Hintikka, Deontic Logic and Its Philosophical Morals, in J. Hintikka, Models for Modalities. Selected Essays, Reidel, Dordrecht, 1969, pp. 191 – 2: «The literature of deontic logic offers instructive and amusing examples of such fallacies». Cfr. G. Di Bernardo, La teoria dell’azione come base per la logica deontica, “Informatica e diritto”, 2, 1983, p. 239: «emerge ancora una volta la preoccupazione di von Wright di dare alla logica deontica una solida base, una base cioè che eviti i continui paradossi in cui la logica deontica incorre fin dal suo nascere».
[4] Cfr. A. C. A. Mangiameli, Diritto e Cyberspazio. Appunti di informatica giuridica e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2000, p. 128. Cfr. G. Kalinowski, Il significato della logica deontica per la filosofia morale e giuridica, in G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977 p. 282.
[5] Cfr. N. Grana, Logica deontica paraconsistente, Liguori, Napoli, 1990, p. 57.
[6] Cfr. P. Di Lucia, Deontica in von Wright, Giuffré, Milano, 1992 p. 5.
[7] G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 60, 1951, p. 1. Cfr. A. Ross, Direttive e norme, Comunità, Milano, 1978 p. 209; Cfr. T. Mazzarese, Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam, Padova, 1989 p. 3: «l’insieme di sistemi formali (di calcoli) che assumono ad oggetto il comportamento logico di concetti normativi quali obbligo, divieto, permesso, facoltà, diritto, pretesa».
[8] Cfr. Y. U. Ryu – R. M. Lee, Defeasible Deontic Reasoning: A Logic Programming Model, in J. J. Ch. Meyer – R. J. Wieringa, Deontic Logic in Computer Science. Normative System Specification, John Wiley and Sons, Chichester, 1993, p. 225: «deontic logic, also called logic of norm or logic of obligation, refers to a study of the normative use of language in which statements of “it is obliged…”, “it is permitted …”, etc. occur».
[9] Cfr. G. H. von Wright, Norme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, pp. 5 – 87. Cfr. A. Pizzo, Pensiero pratico e logica deontica: assenza o presenza di razionalità?, “www.filosofia.it”, pp. 1 – 31 (contenuto on – line: http://www.filosofia.it/images/download/essais/07_PensieroPratico_e_logica0deontica.pdf).
[10] Cfr. G. H. von Wright, Logical Studies, Routledge And Kegan Paul, London, 1957, p. vii.
[11] Cfr. G. F. Schueler, Why “oughts” are not Facts (or What the Tortoise and Achilles Taught Mrs. Ganderhoot and Me about Practical Reason), “Mind”, 416, 1995, p. 713: «A great deal of the moral philosophy of the last hundred yaears has been devoted to trying to understand “the relation between ‘is’ and ‘ought’. On the one side, when we are engaged in genuine moral reasoning and debite, we seen to take it for granted that various factual claims support judgments about we ought or ought not to do. We even seem to regard some such judgments as true (and othres as false). On the other side, when we reflect on such judgments, it seems difficult indeed to see how either of these things could be straightforwardly the case, in view of the very great difference between factual and evaluative (or normative) judgments».
[12] Cfr. J. Joergensen, Imperatives and Logic, “Erkentnnis”, 7, 1937 – 8, p. 290.
[13] Cfr. Cfr. A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 76.
[14]. Cfr. A. Marturano, Il “Dilemma di Jørgense”, Aracne, Roma, 2012, p. 9.
[15] Cfr. Cfr. G. H. von Wright, Deontic Logic: A Personal View, “Ratio Juris”, 1, 1999, p. 27: «Mally’s work had few, if any, repercussions in the literature. But in the late 1930s and early 1940s there was a certain amount of discussion whether a logic of norms or of imperatives is at all possible in view of the fact that imperatives – and presumably norms too – lack truth-value. In the debate two Danes took a prominent part. One was Jørgen Jørgensen, after whom the name “Jørgensen’s Dilemma” was coined. The other was Alf Ross, inventor of the famous paradox. Both the dilemma and the paradox are still active topics of current debate».
[16] Cfr. S. Coyle, The Possibility of Deontic Logic, “Ratio Juris”, 15, 2002, pp. 294 - 318.
[17] Cfr. G. Di Bernardo, Is – ought question e logica deontica, in U. Scarpelli (ed.), La logica e il dover essere, “Rivista di filosofia”, 1976, p. 169.
[18] Cfr. A. N. Prior, op. cit., p. 22: «to find a ‘foundation’ for morality that is not itself already moral». Cfr. Cfr. A. G. Conte, Alle origini della deontica…cit., p. 641: «La teoria di Jørgen Jørgensen (1894 – 1969) è nata come critica d’una tesi formulata da Jules - Henri Poincaré (1854 – 1912)». Cfr. S. Cremaschi, L’etica del novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma, 2005, p. 64: «Negli anni quaranta iniziò a concentrarsi l’attenzione sulle possibili conseguenze per l’etica degli sviluppi della logica. Una delle linee di ricerca intraprese fu quella dello sviluppo di sistemi di logica formale specifici per il linguaggio deontico, cioè contenente prescrizioni […] una seconda linea partì dalla riscoperta della critica humiana al passaggio is – ought».
[19] Cfr. G. H. von Wright, Introduzione, a: G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37: «il pensiero pratico è pur sempre pensiero e, come tale, deve soddisfare i requisiti e le leggi della logica. Lo studio del pensiero pratico rappresenta, tuttavia, un notevole ampliamento della tradizionale scienza della logica. Tale studio può valere anche come fondamento di un’antropologia filosofica, che corrisponda al senso profondo della caratterizzazione aristotelica dell’uomo come animale razionale».

[20] Cfr. N. Grana, Logica deontica paraconsistente, Liguori, Napoli, 1990, pp. 13 – 4: «la derivazione nel sistema formalizzato deontico di alcuni paradossi dividono gli studiosi. Il dilemma di Jørgensen, che pone in discussione la legittimità stessa della logica deontica, viene riproposto da studiosi che non sono disposti a tollerare i paradossi nella logica deontica e che non credono alla possibilità razionale della stessa».



(immagine tratta da: http://www.syzetesis.it/immagini/ArticoliRecensioni2009/deontic-hexagon.jpg)

venerdì 12 aprile 2013

Glossa sul "Dilemma di Joergensen"

"Questa difficoltà è stata formulata da Jørgen Jørgensen nel modo seguente. «Posto che le frasi imperative non possono né essere vere né essere false nel senso in cui queste parole sono usate in logica, esse non possono essere implicate in altre frasi e di conseguenza non possono fungere da conclusioni nelle inferenze logiche. Invero esse non possono nemmeno fungere da premesse in tali inferenze, perché anche le premesse in tanto possono funzionare come tali, in quanto siano capaci di di essere vere o false … Le frasi imperative sono quindi del tutto incapaci di funzionare come parti di qualsiasi argomentare logico»"

(Tebaldeschi I. (1976), La logica giuridica e le inferenze miste, in Tammelo I. - Tebaldeschi I. (1976), Studi di logica giuridica, Milano, Giuffré, 1976, pp. 18 - 9)

Una glossa, sia pure sbrigativa e succinta, della questione sollevata nel 1937 - 8 dal danese Joergensen, e poi passata in letteratura, via Ross, come il Dilemma di Joergensen" e relativa alla possibilità di una applicazione della logica verofunzionale anche alle enunciazioni non indicative, con interessamento alle cosiddette inferenze miste.





venerdì 28 dicembre 2012

Cantami, oh dilemma!



Il dilemma di Jørgensen




Premessa.

Forse per via della suggestione indotta dalla lettura del testo autobiografico della Marzano, Volevo essere una faralla, a causa del quale tornai brevemente sull'argomento, forse a causa dell'interessamento personale, da parte di Antonio Marturano, autore del nuovissimo Il "Dilemma di Jørgensen", sono tornato solo ora a meditare sulla questione. 

Certo posso solo rinviare ad un futuro prossimo una trattazione sia pure esaustiva, ma non completa data la sua stessa vastità, del dilemma di Jørgensen. In questa sede, enunzio semplicemente i termini del problema e alcune informazioni sulla storia dell'argomento. Mi riservo di tornarvi sopra in maniera più approfondita e con una rassegna delle principali soluzioni proposte.



Cosa sia il dilemma di Jørgensen.

Si tratta, detto in estrema sintesi, di prendere in seria considerazione la problematicità che sin dai tempi più antichi incontra una considerazione formale delle enunciazioni imperative. Già Aristotele [2003, p. 651], ad esempio, osservava come

l'espressione: ciò che deve essere, ha infatti un duplice significato. Noi indichiamo con essa sia ciò che è necessario […] sia quanto è bene

La varietà semantica di espressioni che usino formulazioni normative è problematica perché da un lato si è indotti a considerare queste ultime alla stregua delle enunciazioni indicative ma dall'altro lato, contemporaneamente, ciò appare quanto meno dubbio. Lo stagirita, però, non fa che anticipare una considerazione formale che verrà posta in essere solo dal filosofo neopositivista Jørgen Jørgensen e che successivamente, ad opera di Ross [1982, p. 76], già nel 1941, verrà conosciuta come il dilemma di Jørgensen

L'epistemologo danese, sul finire degli anni '30, si era posto il problema della significanza delle enunciazioni imperative, specie se poste a confronto con quelle indicative. In altri termini, risulta problematico precisare quale debba essere il trattamento formale con il quale prendere in considerazioni tutte quelle enunciazioni non teoriche, o cognitive, come ad esempio quelle morali o, in un senso certo più astratto, pratiche, le quali, pur non potendo godere del medesimo trattamento logico di cui godono le enunciazioni indicative, denotano una certa logica, ossia il rispetto di un insieme di regole deduttive


Il problema di Jørgensen, detto altrimenti, è quello di valutare quali possano essere tali regole e se queste ultime abbiano, o meno, un collegamento con le comuni regole della logica. La difficoltà sta nella natura di quest'ultima, la quale si caratterizza principalmente in termini verofunzionali: gli operatori formali funzionano in quanto accettano i valori di vero e/o di falso. E la verofunzionalità, intesa come trasmissione del relativo valore di verità dalle premesse alle conclusioni, diventa garanzia di validità per tutti i ragionamenti deduttivi. 


Cosa accade, però, se in suddetti ragionamenti figurano, come premesse e/o conclusioni, enunciazioni imperative? Queste ultime, infatti, sono aleticamente adiafore nel senso che, non descrivendo nulla, non esprimendo cioè una conoscenza intorno alla realtà, non sono né vere né false, ossia non sono verofunzionali. 


A rigore, dunque, ci dice Jørgensen (1937 – 8 p. 290), ci troviamo apparentemente di fronte ad un puzzle, un enigma, una difficoltà teorica rilevante: da un lato, la logica trova applicazione esclusivamente presso gli enunciati indicativi, ossia conoscitivi, teorici, cognitivi, descrittivi di stati di cose, mentre gli enunciati imperativi, essendo non indicativi, non conoscitivi, non teorici, non cognitivi, non descrittivi di stati di cose, sembrano essere estranei alla logica; ma, dall'altro lato, gli enunciati imperativi sembrano funzionare secondo una certa logica. Nelle sue parole esatte:

according to a generally accepted definition of logical inference only sentences which are capable of being true or false can function as premises or conclusions in an inference; nevertheless it seems evident that a conclusion in the imperative mood may be drawn from two premises one of which or both of which are in the imperative mood


Secondo Conte (2001, p. 641) la proposta di Jørgensen nasce come critica ad una tesi formulata da Jules - Henri Poincaré. Com'è noto, infatti, lo studioso francese pose in essere, sugli inizi del XX secolo, la ben nota distinzione, e separazione, tra scienza, corpus di conoscenze sui fatti, e morale, corpus di massime intorno ai valori. Suddetta distinzione si gioca, però, anche su un altro piano: la prima è una considerazione riguardo a fatti, ossia stati di cose, mentre la seconda è una considerazione riguardo alle valutazioni. I fatti e i valori sono due cose rispettivamente eterogenee il cui dominio di considerazione è certamente distinto. Da qui prende forma il noto dibattito sul Divisionismo tra la scienza e la morale, tra i fatti e i valori, tra la conoscenza e le valutazioni che ha toccato vari settori ed autori della filosofia del secolo scorso, anche se le sue estreme propaggini sono certamente coglibili anche oggi, come lo stesso studio di Marturano (2012) dimostra oltre ogni dubbio. 

Tuttavia, quest'ultimo pone in evidenza un elemento in genere trascurato in tutti quegli autori che hanno toccato solo di striscio la formulazione teorica del dilemma di Jørgensen (d'ora innanzi: (DJ)), ossia il nesso che lega tra loro il puzzle del filosofo danese e la ricerca di una logica delle norme, che ha pure attraversato il dibattito analitico del secolo scorso. 



Dilemma e logica delle enunciazioni normative.

Il legame che è possibile scorgere tra un trattamento formale adeguato alle enunciazioni imperative e la ricerca di un trattamento formale adatto alle norme è rivelativo delle profonde contaminazioni che hanno caratterizzato le ricerche analitiche in logica, epistemologia, morale e diritto. Si tratta di due facce distinte della stessa medaglia: vedere se, e a quali condizioni, sia possibile estendere il dominio della logica oltre i limiti convenzionali, ossia alle enunciazioni indicative. Come ci ricorda, ad esempio, von Wright (1999, p. 27) ciò lo dobbiamo in parte ai lavori di Mally (1926) e in parte al dibattito conseguente il quale si pone un problema fondamentale

whether a logic of norms or of imperatives is at all possible in view of the fact that imperatives – and presumably norms too – lack truth-value”

Tale discussione venne, inizialmente, egemonizzata da due danesi

One was Jørgen Jørgensen, after whom the name “Jørgensen’s Dilemma” was coined. The other was Alf Ross, inventor of the famous paradox. Both the dilemma and the paradox are still active topics of current debate

Convenzionalmente, preso atto delle difficoltà logiche di Jørgensen, nell'applicare anche alle enunciazioni non indicative valori di verità verofunzionali, la versione canonica dell'argomento individua due corni del dilemma: 

[DJ] 

1) è possibile una logica delle norme, a patto che la logica non sia verofunzionale; oppure, 

2) non è possibile una logica delle norme, a condizione che la logica sia verofunzionale. 

L'alternativa netta di due corni del (DJ) può venir posta nei termini seguenti:

I) è possibile dare luogo ad un trattamento formale adeguato anche per le enunciazioni non indicative, a condizione, però, di estenderne l'ambito di applicazione ben oltre le limitazioni verofunzionali; 

II) non è possibile dare luogo ad un trattamento formale adeguato anche per le enunciazioni non indicative, mantenendo ferma la natura convenzionale della logica (valida esclusivamente per le entità verofunzionali). 

Nei termini di [Kalinowski 1971 p. 108] l'alternativa è chiara: 

o considerare dette catene di enunciati come ragionamenti, e di conseguenza modificare la concezione tradizionale della logica insieme con diverse sue nozioni […], oppure salvare la nozione vigente di logica negando alle suddette catene di proposizioni il carattere di ragionamenti

Il (DJ), così inteso, però, combina quattro tesi alternative ai corni (1) e (2): 

[DJ2] 

a) la logica può anche applicarsi alle enunciazioni non apofantiche, a condizione però di modificarne la natura verofunzionale; 

b) la logica non può applicarsi alle enunciazioni non apofantiche, dato che può trovare applicazione solo ad enunciazioni verofunzionali; 

c) è possibile una logica delle norme, a seconda che possa trovare adeguata realizzazione la tesi (a); 

d) non è possibile una logica delle norme, a seconda che possa trovare adeguata realizzazione la tesi (b). 


Com'è evidente, le tesi (c) è collegata alla tesi (a) mentre la tesi (d) alla tesi (b). Rispettivamente, le tesi (a) e (b) danno luogo ai corni (1) e (2) del (DJ), ossia, nella formulazione (DJ2), alle tesi (c) e (d).


Alf Ross coniò nel 1942 proprio l'espressione in questione, “Dilemma di Jørgensen”, esprimendo, nel contempo, tutto il proprio imbarazzo nei confronti di espressioni linguistiche le quali, a rigore, dovrebbero venir espunte dal dominio razionale, via la loro eterogeneità ai valori verofunzionali, ma che pure denotano funzionare secondo una certa logica. 

Il dibattito intorno ai corni (1) e (2) incrocia spesso sulla sua strada le ricerche di von Wright, ossia tutti quei tentativi di dare luogo ad una logica deontica, ossia una logica delle enunciazioni normative, da intendersi come tutte quelle enunciazioni del linguaggio umano ove sono presenti i concetti normativi di obbligo, permesso, divieto e facoltà. In questo caso, allora, la logica deontica viene considerata una logica delle norme e tentare di sciogliere il netto contrasto tra i due corni del dilemma equivale a tentare di giustificare la logica deontica, ossia di ostenderne le relative condizioni di possibilità. Nelle parole di Conte [1992, p. 181] l'esistenza della logica deontica mostra che “i confini della logica trascendono l’ambito del vero e del falso” per come, ad esempio, in maniera certo suggestiva ma tutt'ora poco pratica, asseriva anche von Wright [1957, p. vii]:

Deontic logic gets part of its philosophical significance from the fact that norms and valuations, trough removed from the realm of truth, yet are subject to logical law. This shows that logic so to speak, ha a wider reach than truth

Come sostiene, infatti, Ross [1978, p. 214]:

Che la logica deontica sia possibile è oggi generalmente riconosciuto ma divergono ampiamente le opinioni sull’interpretazione dei suoi valori e le sue relazioni con la logica degli indicativi


Tale difficoltà, ad esempio, rende conto del parere di Grana [1990, p. 14] secondo il quale la ripresa in tempi recenti del dilemma di Jørgensen risponde all'esigenza di cercare altrove una sua fondazione filosofica, specie da parte di quanti non condividono l'ottimismo di von Wright e che non credono che una tale logica sia possibile.


La ricerca di una logica delle norme prende le mosse dalle difficoltà teoriche sollevate da (DJ). Come ricorda Guastini [1986, pp. 197 – 8] 

Vi è una logica di norme? Da un lato, sembra ovvio che una tale logica vi sia. Il nostro linguaggio quotidiano ne offre esempi frequenti […] dall’altro lato, sembra dubbio che una logica di norme vi sia. Infatti, le norme non sono proposizioni in senso logico, ossia entità dotate dei valori logici di «vero» e «falso». Quali sono dunque i valori logici delle norme, posto che le norme abbiano valori logici? Ciò non è affatto chiaro

Che il funzionamento razionale delle norme diverga da quello comunemente mostrato dalle enunciazioni indicative è presto detto.


La separazione dei fatti dai valori, che tanto ha informato di sé la riflessione giusfilosofica ad esempio, si pone con forza non appena si scorga la netta differenza tra l'etica e la politica. Come ricorda Prior [1949, pp. 36 - 7]: “ Ethics, and also Politics […] are ‘distinguished form all positive sciences by having as their special and primary object to determine what ought to be, and not to ascertain what is, has been, or will be”. Questo perché, per dirla à la Schueler [1995, p. 713]:

A great deal of the moral philosophy of the last hundred years has been devoted to trying to understand “the relation between ‘is’ and ‘ought’. On the one side, when we are engaged in genuine moral reasoning and debite, we seen to take it for granted that various factual claims support judgments about we ought or ought not to do. We even seem to regard some such judgments as true (and othres as false). On the other side, when we reflect on such judgments, it seems difficult indeed to see how either of these things could be straightforwardly the case, in view of the very great difference between factual and evaluative (or normative) judgments

La premessa alla base di qualsiasi declinazione della formazione divisionista è duplice, ossia si fonda su due distinte e complementari tesi [Celano, 1994, p. 43]:

La posizione divisionista si articola dunque in due tesi complementari: [1] Affermazioni prescrittive e affermazioni descrittive (asserzioni) sono, quanto al loro significato eterogenee. [2] Non è possibile derivare logicamente conclusioni prescrittive da sole premesse assertive


La difficoltà a costituire un discorso formale adeguato alle enunciazioni pratiche, magari sulla falsa riga di quanto accade invece per le “cugine” enunciazioni indicative, mette capo, forse, alla necessità di una logica pratica, ossia di una considerazione di carattere formale la quale prenda in considerazione le enunciazioni pratiche senza assumere a modello le enunciazioni indicative, concentrandosi esclusivamente sulla natura precipua delle espressioni linguistiche non cognitive. Come asserisce, infatti, Marìn [1991, p. 323] “Jørgensen’s dilemma is unavoidable: The classical concept of deduction, traditionally applied only to sentences susceptible of truth or falsity, must be widened, or else, the possibility of a logic of norms, of directive sentences, must be rejected”. 


Con molta probabilità ha ragione Coyle [2002, p. 41] quando “legge” le difficoltà notazionali della logica deontica come il risultato di un basarsi sulle strutture del linguaggio descrittivo.


Tenendo ferma l'adesione iniziale al neopositivismo logico, in fondo, è inevitabile che il Divisionismo produca simili difficoltà. Secondo Villa [2002, p. 388], infatti, “è il linguaggio descrittivo ad essere caratterizzato con maggiore chiarezza e precisione, in positivo, come linguaggio il cui obiettivo ideale è quello di fornire una fedele rappresentazione – di una porzione – della realtà”. D'altra parte, infatti, la logica deontica ha mostrato, sin dagli inizi, una doppia origine: intanto modale, perché derivante dai calcoli modali, in quanto proposizionale, perché derivante da una sorta di “estensione” della logica classica [Lovatti 1997 p. 84]. 


La lunga sequela di difficoltà formali, culminati in una incredibile serie di formulazioni paradossali, formule tanto sorprendenti quanto indesiderate [Nowell Smith – Lemmon 1960, p. 390], forse perché gli assiomi deontici riflettono solo un senso “specialissimo” delle parole normative che adoperiamo nel linguaggio [Hansson 1969, p. 373], trova la propria origine proprio nella costruzione formale qui in discussione, e come appartenenza al discorso analitico sulla significanza delle enunciazioni non descrittive [Celano 1990 p. 166]. Ha anche generato in passato l'opinione in forza della quale essa, proprio per via delle sue questioni aperte, non potesse svolgere alcun ruolo all'interno della teoria morale, pur influenzandola direttamente [Pizzo 2012 p. 11 e sgg.]. Ciò, però, è un errore in quanto può aiutare a chiarire la natura della contesa tra specifiche teorie morali concorrenti [McCord 1986, p. 179]. D'altra parte, come ricorda Cremaschi [2005, p. 64] nel corso degli anni '40 si svilupparono due diverse tendenze in senso al neopositivismo logico: (1) studio delle possibili conseguenze per l'etica dallo sviluppo della logica; e, (2) riscoperta della critica humiana al passaggio tra «è» e «deve». O, per dirla piuttosto con Rescher [966 p. vi], l'analisi del significato non verofunzionale delle enunciazioni non cognitive. 



Dilemma e discorso teorico sulle enunciazioni valutative.

Per Marturano, però, il problema alla base del (DJ) è un'altro: offrire un repertorio teorico in grado di giustificare teoricamente un tipo particolare di inferenze miste, ossia tutte quelle ove gli imperativi figurino in almeno una delle premesse. Cosa questa che, di per sé, costituisce un rovesciamento della tesi di Poincaré secondo la quale gli imperativi non possono essere derivati da premesse nessuna delle quali sia imperativa [Castañeda 1988, p. 20] Seguendo Castañeda è possibile mappare la teoria morale non cognitivista articolandola in tre differenti tesi riguardo alla natura formale dei ragionamenti ove figurino come parti costituenti enunciazioni imperative: 

TP) Tesi di Poincaré; 

TH) Tesi di Hume; 

THA) Tesi di Hare. 

In breve, 

(a) la (TP) dice che: gli imperativi non possono essere derivati da premesse nessuna delle quali sia imperativa; 

(b) la (TH) dice che: i giudizi normativi non sono implicati da premesse nessuna delle quali non sia un giudizio normativo; 

la (THa) dice che: nessun indicativo può essere derivato da premesse contenenti imperativi a meno che non possa essere derivato da sole premesse indicative. 


Sull’ultima tesi, risultano interessanti le stesse parole di Hare [1968, p. 40]:

La regola che un imperativo non può figurare nella conclusione di un’inferenza valida, a meno che non vi sia almeno un imperativo nelle premesse, può trovare conferma in considerazioni logiche generali […] nulla può figurare nella conclusione di un’inferenza deduttiva valida che non sia implicito nella congiunzione delle premesse i forza del loro significato. Di conseguenza, se nella conclusione c’è un imperativo, non solo nelle premesse deve figurare un qualche imperativo, ma deve esservi implicito proprio quell’imperativo […] Il lavoro di Wittgenstein e di altri ha largamente chiarito le ragioni per cui è impossibile fare questo. È stato argomentato, e persuasivamente a nostro avviso, che ogni inferenza deduttiva ha carattere analitico; vale a dire, che la funzione di un’inferenza deduttiva non è di ricavare dalle premesse ‘qualcosa di ulteriore’ in esse non implicito […], ma di rendere esplicito ciò che era implicito nella congiunzione delle premesse

In modi diversi, e secondo sensibilità particolari, viene sostenuta la medesima tesi di fondo secondo la quale vige l’eterogeneità di norme (e, valutazioni) e giudizi di fatto. Nelle parole di Celano [1994, p. 43]

La tesi della eterogeneità di norme e giudizi di valore da un lato e giudizi di fatto dall’altro lato si configura come la tesi della eterogeneità di discorso descrittivo e discorso prescrittivo: l’intenzione comunicativa tipica che presiede alla formulazione di un’affermazione di fatto è l’intenzione di informare [….]; l’intenzione comunicativa tipica che presiede alla formulazione di un’affermazione normativa o valutativa è quella di guidare (dirigere, indirizzare) l’azione

Questo sembra essere il problema fondamentale per l’etica contemporanea. Nelle parole di Scarpelli [1971, p. viii]

il problema fondamentale della filosofia morale contemporanea è il problema della distinzione e dei rapporti tra le proposizioni descrittive (vertenti su fatti) e le proposizioni direttive (prescriventi comportamenti, assegnanti valori a comportamenti e cose): come si dice nella filosofia di lingua inglese, la is-ought question

Anticipiamo adesso i tre fronti, promettenti sulla scena teoretica, che rispondere positivamente al (DJ) avrebbe per Marturano [2012 p. 146]:

1) non cognitività degli enunciati normativi;
(2) render conto della differenza illocutoria tra gli enunciati normativi e descrittivi; e, 
(3) rielaborazione del concetto di inferenza e dei connettivi logici.

Per giungere a tali esiti conclusivi, l'autore propende per una riformulazione del (DJ) tenendo conto dei seguenti aspetti del problema:

x) ampliare il concetto classico di inferenza logica;
xx) costruire una logica indiretta tra prescrizioni che salvaguardi il concetto classico di inferenza;
xxx) non si possono fare alcun tipo di inferenze tra prescrizioni (il discorso normativo è irrazionale).

Le varie formulazioni che sinora sono state prospettate del (DJ) si sono concentrate quasi esclusivamente sull'alternativa netta tra i corni (x) e (xxx) mentre il corno (xx) è presente solo in Jørgensen [1937 p. 290 e sgg.]. Marturano ([2012 p. 14] propone allora di riformulare il (DJ) nella maniera seguente:

[DJ3] se gli enunciati prescrittivi sono privi di valore di verità
c1) il concetto classico di verità è inadeguato e, perciò, bisogna ridefinire questa nozione in modo da ampliarla fino a comprendere ragionamenti che possono essere fatti tra enunciati privi del valore di verità; e,
c2) il concetto classico di inferenza è l'unico che preserva la nozione di razionalità ragion per cui il ragionameno tra enunciati prescrittivi, in quanto privi del valore di verità, è perciò impossibile.

L'alternativa netta tra i corni (c1) e (c2) riprende ovviamente la distinzione tra i corni (1) e (2).

Il nodo, tuttavia, va ancora sciolto pur rimanendo valida l'istanza teorica alla base del progetto, e scandalo, ed imbarazzo conseguente, di Jørgensen. Su questo torneremo in seguito.



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