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giovedì 1 agosto 2013

Logica deontica. FAQ2

Paradossi? Cosa sono quelli che capitano alla logica deontica?

Si tratta di mere contraddizioni che derivano dall'apparato formale del calcolo deontico stesso. Insomma, delle derivazioni inaspettate ma indesiderate[1], delle conseguenze logiche che però contraddicono o un assioma o un teorema della logica deontica stessa. Ne esistono un gran numero e per alcuni è indice di inadeguatezza formale[2] oppure ancora della necessità di un completamente del linguaggio formale prescelto[3].

Ma in cosa si distinguerebbero quelli deontici dai normali paradossi logici?

Nel loro caso l'insidia logica comportata dalla presenza di una contraddizione è ancora più grave. Non si tratta di un semplice, per così dire, autoriferimento semantico, una delle principali cause di contraddizione logica, come per esempio nel caso del paradosso del mentitore, ma un più marcato ed ostico malfunzionamento del linguaggio formale prescelto per formalizzare il comportamento dei concetti normativi. Se si verifica un paradosso deontico, è l'intero calcolo che suo malgrado lo ospita che decade a causa della sua incoerenza.

E come hanno luogo i paradossi deontici?

Secondo Hansson[4], esiste un significato particolare, e specifico, delle nozioni deontiche che non può venir rappresentato in maniera adeguata dal linguaggio simbolico scelto. Ragion per cui la dontraddizione che può essere derivata non è un esito comunque rifiutabile dal sistema logico di partenza, ma un'antinomia o una contraddizione interna al calcolo stesso.

É un problema di linguaggio?

Sì, perché von Wright stesso decise di costruire l'insieme di assiomi e tesi fondamentali della logica deontica, ossia la struttura entro il quale cercare di catturare il significato logico dei concetti normativi, sul linguaggio della logica proposizionale, rendendo così davvero difficile, quanto non del tutto impossibile, render conto di particolari fenomeni I quali, infatti, danno luogo a contraddizioni.

Quali fenomeni?

Partendo dal fatto che I paradossi deontici sono, in genere, o il risultato dell'interazione tra un operatore e una variabile oppure anche l'effetto di un'interazione tra una tesi generale e un caso particolare, in ogni caso si deve convenire sulla natura “rigida”, e poco flessibile, del linguaggio logico, incapace così di rispondere in maniera adeguata ad alcune particolari sollecitazioni. Per Feldman[5], la maniera più semplice per emendare la logica deontica, qualsiasi calcolo di logica deontica, è modificare il linguaggio enunciativo normalmente adoperato e rendere così conto di alcune circostanze non rappresentabili in maniera adeguata nei sistemi deontici. In breve, la logica deontica non appare in grado di render conto adeguatamente delle seguenti circostanze:

(1) relazioni di causalità tra modali deontici;
(2) relazioni di condizionalità (primaria e secondaria) tra proposizioni deontiche;
(3) iterazione di modali deontici;
(4) iterazione modale (modalità miste);
(5) difettibilità, e relativa apertura a tempi, agenti e contenuti differenti, delle proposizioni deontiche;
(6) vincoli di coerenza basati sul principio di contraddizione.

Per Brown[6], ad esempio, proprio la possibilità di distinguere tra tipologie differenti di obblighi, primari e secondari, o, in qualche modo anche, tra differenti tipi di condizionalità tra obbligo generale e sua declinazione singola, consente di superare gran parte delle difficoltà in cui si dibatte la disciplina.

Sembra di capire che il problema di base della logica deontica sia la sua eccesisva rigidità, giusto?

Sì, è così. Il linguaggio monadico, che consente l'assunzione di una sola variabile da parte di un singolo operatore, e una semantica molto povera, assunto dalla disciplina partire dal saggio pioniere di von Wright, non consente di cogliere la multiforme realtà deontica nella sua eterogeneità di singolarità e di coordinazione tra tesi generali e casi particolari. Dello stesso paere appare anche Feldman[7].

Senza una modifica in tal senso, la logica deontica è destinata a restare sostanzialmente impresentabile data la sua natura problematica?

Per Artosi[8], la situazione è sostanzialmente così. E, francamente, anch'io la penso così.

Ma è possibile fornire qualche esempio di paradosso deontico al fine di percepire meglio la natura particolare di tali contraddizioni?

Certamente. Possiamo elencare nella maniera che segue I principali paradossi che la letteratura deontica ci tramanda:

1) il paradosso dell'obbligo derivato;
2) il paradosso di Ross;
3) il paradosso del Buon Samaritano;
4) il paradosso della vittima;
5) il paradosso del ladro;
6) il paradosso di Platone;
7) il paradosso di Sartre;
8) il paradosso dell'Imperativo contrario al Dovere;
9) il paradosso del dovere epistemico.

Ora, pur essendo formule correttamente derivate entro il proprio sistema logico, sono quantomeno controintuitive una volta interpretate in senso normativo[9]. Vediamoli adesso singolarmente. Il paradosso dell'obbligo derivato fa riferimento ad un principio base della logica deontica, segnatamente il principio dell'obbligo derivato, secondo il quale «l’esecuzione dell’atto p obbliga (moralmente) l’agente ad eseguire l’atto q»[10]. Siccome, però, il concetto di obbligo è interdefinibile sulla base di uno degli altri concetti deontici, tale obbligo conduce all'esito paradossale secondo il quale «il fare un atto vietato ci obbliga a fare qualsiasi altra cosa. Per cui, ad esempio, ammesso che il furto sia un atto proibito, il compierlo ci obbliga a commettere un altro atto, ad esempio l’omicidio»[11]. Come a dire che, e in maniera del tutto insensata, «the doing of what is forbidden commits us to the doing whatsoever»[12]. Si tratta di una conclusione del tutto inaspettata ma indesiderata e che pone un serio dubbio sulla consistenza del sistema deontico stesso dal momento che è una contraddizione difficilmente refutabile senza comportare un rigetto anche del principio base. Per von Wright, si tratta di un analogo deontico del paradosso dell'mplicazione stretta[13].

Ora diventa più chiara la difficoltà posta in essere dai paradossi deontici. Ma cos'altro possiamo dire al riguardo e su tutti gli altri?

Il paradosso di Ross è un vero e proprio esempio di antiquariato deontico nel senso che p stato formulato da Alf Ross, lo stesso del dilemma di Jørgensen prima ancora che la logica deontica quale disciplina nascesse storicamente[14]. Comunque, anch'esso coinvolge direttamente uno dei principi fondamentali della logica deontica, ossia il principio secondo il quale devono darsi le conseguenze di cosa è il caso che si dia[15]. Ora se abbiamo l'obbligo di compiere una data azione, per esempio 'p', ciò comporta dover accettare che tale obbligo corrisponda all'obbligo equivalente di compiere l'azione 'p' oppure l'azione 'q'. Il problema sorge una volta che tale formula viene interpretata, per cui possiamo incorrere nella contraddizione seguente: è obbligatorio imbucare la lettera oppure bruciarla[16]. Il che è del tutto contraddittorio: com'è possibile che dall'obbligo ad imbucare una lettera segua naturalmente che sia obbligatorio imbucarla o bruciarla?

É una contraddizione notevole oltre che preoccupante. Accade la stessa cosa con gli altri paradossi?

Il meccanismo di genesi della contraddizione è, più o meno, lo stesso: vige un principio base del sistema il quale non funziona più quando deve declinarsi nel caso concreto. Ad esempio, prendiamo ora in considerazione il paradosso del Buon Samaritano. Quest'ultimo prende le mosse, come conseguenza paradossale, dal principio [P] secondo il quale «whatever implies what is forbidden is itself forbidden»[17]. Pertanto, seguiamo il discorso di Poli: «un fondamentale principio della logica deontica è: (P) Se un atto A implica un atto B, allora: (1) L’obbligatorietà di A implica l’obbligatorietà di B; (2) La proibizione di B implica la proibizione di A. se, in sintonia con un’opinione diffusa, intendiamo «atto A» come «affermazione o stato di cose tale che qualche agente esegue A», il principio (P) si trasforma in: (P) Se una persona a esegue l’atto A implica che una persona b esegue l’atto B, allora: (1) che la persona a è obbligata a fare A implica che la persona b è obbligata a fare B; (2) che la persona b ha la proibizione di fare B implica che la persona a ha la proibizione di fare A. (P) però non è equivalente a (P). Esso conduce anzi ad autocontraddizioni»[18]. Facciamo un esempio, se il Buon Samaritano aiuta Giorgio che è stato derubato, allora possiamo dire che Giorgio è stato derubato; ma è vietato che Giorgio venga derubato. In tal caso, allora, essendo che il Buon Samaritano aiuta Giorgio perché quest'ultimo è stato derubato, è vietato pure che il Buon Samaritano aiuti Giorgio. Questo risultato è del tutto paradossale[19].

(continua)

Note

[1] Cfr. E. J. Lemmon – P. H. Nowell Smith, Escapism: The Logical Basis for the Ethics, “Mind”, 69, 1960, p. 290: «this is not a logician’s paradox, like Russell’s class of paradox; it reveals no logical antinomy or contradiction within the calculus. It is simply that theorem 54, which is obtained by substitution from a truth of logic, gives, when interpreted, a result which is not only surprising, but unpalatable».
[2] Cfr. G. Sartor, Informatica giuridica. Un’introduzione, Giuffré, Milano, 1996, p. 87: la logica deontica manca «di solide fondamenta logiche e filosofiche».
[3] Cfr. G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere, Giuffré, Milano, 1969, p. 612: la logica deontica è «non ancora sistemizzata completamente».
[4] Cfr. B. Hansson, An Analysis of Some Deontic Logics, “Noûs”, 4, 1969, p. 373: «The “paradoxes” which arise in these logics seem to indicate that the axioms reflect only some special sense of the words “obligation” and “permission”».
[5] Cfr. F. Feldman, A Simplex Solution to the Paradoxes of Deontic Logic, “Philosophical Perspective. Action Theory and Philosophy of Mind”, 4, 1990, p. 309: «Some of deontic logic’s stickiest problems are revealed by the so-called “paradoxes of deontic logic”. None of these is, strictly speaking, a paradox – no one purports to derive a contradiction from a bunch of seemingly uncontroversial premises. Instead, the general form is this: some system of deontic logic has been proposed. A critic then describes a possible situation and produces a set of ordinary language sentences. The sentences would presumably be true if the situation were occur. The critic next indicates the systematic representations of these sentences. He points out that the systematic representations do not have the logical features of the ordinary language sentences they are intended to represent. In the most typical case, the problem is that the original set of sentences is consistent, whereas the representations are inconsistent».
[6] Cfr., M. A. Brown, Conditional and Unconditional Obligation for Agents in Time, in M. Zakharyaschev – K. Segerberg – M. De Rijke – H. Wansing (eds.), Advances in Modal Logic. Volume 2, CSLI, Stanford, 2001, p. 121: «It is widely recognized that any full development of deontic logic must provide a way in which to represent and reason about conditional as well as unconditional obligation. Traditional discussions of deontic logic have, for the most part, set aside various sorts of complications, aiming to provide a simple core theory of unconditional obligation and/or of conditional obligation which might later (it was hoped) be adjusted and elaborated, to take account of various subtleties. The result has been a series of accounts of obligation which have been unsatisfying in various ways, not least of which is the fact that they have been beset by a variety of “paradoxes”».
[7] Cfr. F. Feldman, op. cit., p. 336: «it seemd to me that the solutions to the paradoxes require a system that has the following features: (a) it must be able to express some sort of conditional obligation for which factual detachment fails; (b) it must be able to express the idea that something may be obligatory as of one time, but non-obligatory at some other time; (c) it must be able to express the idea that something may be obligatory for one person, but not for others».
[8] Cfr. A. Artosi, il paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000, p. 69: «la logica deontica è una fonte insidiosa e inesauribile di paradossi».
[9] Ivi, p. 69 e sg.: «formule perfettamente valide dal punto di vista logico (cioè teoremi del Sistema Standard) che, quando interpretate, hanno, per così dire, un sapore fortemente controintuitivo».
[10] Cfr. R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (I), “Verifiche”, 3, 1982, p. 335.
[11] Ivi, p. 336.
[12] Cfr. A. N. Prior, The Paradoxes of Derived Obligation, “Mind”, 63, 1954, p. 64.
[13] G. H. von Wright, A Note on Deontic Logic and Derived Obligation, “Mind”, 260, 1956, p. 508: «The “paradox” under consideration is an analogue to a wellknown Paradox of Strict Implication in modal logic (…) that then an impossible proposition would entail any arbitrary proposition».
[14] Cfr. N. Grana, op. cit., p. 25: «nel ’41 Ross ne ha formulato uno, diventato in seguito famoso (paradosso di Ross). Lo possiamo esprimere nel modo seguente: OAO(AB). Esso ci dice che se un’azione è obbligatoria, allora è obbligatoria quell’azione o qualsiasi altra azione. L’esempio emblematico dello stesso Ross è il seguente: «Se qualcuno deve imbucare una lettera, allora egli deve imbucare la lettera o bruciarla»».
[15] Cfr. Al – Hibri Cox, Deontic Logic. A Comprehensive Appraisal and a New Proposal, University Press of America, Washington, 1978, p. 16.
[16] Cfr. A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 89 e sgg. Cfr. R. Poli, op. cit., p. 336: «Il paradosso di Ross si può simbolizzare nei due modi seguenti: (i) OpO(pq); (ii) Pp(pq). dalle due formulazioni indicate deriva che (i) se devo spedire una lettera, allora devo spedirla o bruciarla; (ii) se ho il permesso di guidare l’automobile, allora ho il permesso di guidarla o di uccidere».
[17] Cfr. Al – Hibri Cox, cit., pp. 17 – 18.
[18] Cfr. Cfr. R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), “Verifiche”, 4, 1982, p. 460.
[19] Cfr. A. Artosi, op. cit., p. 72: «il Buon Samaritano dal momento che se è vietato aggredire e derubare i viandanti, allora è vietato aggredirli e derubarli e anche soccorrerli quando vengano aggrediti e derubati. Così, andando in soccorso della vitima di una aggressione, il Buon Samaritano compie paradossalmente un’azione proibita. Di qui il nome di Paradosso del Buon Samaritano».


(immagine tratta da: http://journals.cambridge.org/fulltext_content/DIA/DIA25_04/S0012217300049684_eqnU1.gif)


sabato 27 luglio 2013

Logica deontica. FAQ




Cos'è la logica deontica?

Si tratta di una nuova branca nelle ricerche logiche del XX secolo che, ufficialmente, prende le mosse dai lavori di von Wright nel 1951[1].

Come “ufficialmente”?

Notoriamente, si ritiene atto fondativo della logica deontica moderna il saggio Deontic Logic pubblicato nel 1951 sulla rivista Mind. Tuttavia, però, come dimostrato ampiamente dalle ricerche di Knnuttila[2], sono presenti nel corso della storia umana molti precorrimenti o anticipazioni i quali, però, non hanno mai raggiunto la completezza, formale e d'intenti, del progetto di von Wright.

Ma di cosa si occupa esattamente?

Al riguardo, e coerentemente con la sua evoluzione, tanto rapida quanto burrascosa[3], il suo ambito di occupazione è mutato, passando dalle generiche 'norme' alla 'razionalità pratica'. Volendo schematizzare, però, possiamo sintetizzare almeno i seguenti sei significati fondamentali, magari tra loro molto simili, ma con significati reciprocamente eterogenei:

  1. logica delle proposizioni normative[4];
  2. logica delle norme[5];
  3. logica della deontica[6];
  4. logica dei concetti normativi[7];
  5. logica del ragionamento normativo[8];
  6. logica della razionalità pratica[9].

A seconda del significato specifico prescelto, i vari autori hanno posto in modo particolare l'accenso rispettivamente sul formalismo a) delle proposizioni normative; b) delle norme; c) della sfera deontica; d) sulla proprietà formali delle nozioni normative; e) sul formalismo specifico del ragionamento su norme; e, f) sul rapporto tra causalità pratica e conformità a precisi valori.

D'accordo, ma cosa sono le proposizioni normative? E cosa i concetti normativi?

Per le prime, in genere, s'intendono tutte quelle proposizioni ove figurano nozioni normative, come, ad esempio, 'permesso', 'vietato', 'obbligatorio', indifferente', e così via. In breve, tutte quelle espressioni che hanno uno specifico significato normativo, e nettamente in contrasto con quello delle espressioni che descrivono stati di cose. I concetti normativi, poi, sono semplicemente le nozioni aventi significato normativo senza che ciò comporti far riferimento diretto alle propozioni ove compaiono.

E il ragionamento normativo?

Detto in breve, tutti quei ragionamenti che operano su o con proposizioni ove figurano nozioni normative. Questo perché si ritiene che il comportamento logico di questi ultimi non sia riducibile a quello dei ragionamenti con o su proposizioni descrittivi di cose. Per questi ultimi, infatti, non v'è problema a verificare, in termini verofunzionali, le proposizioni oggetto di discussione o ragionamento, cosa che non è possibile fare alla stessa maniera con le proposizioni ove figurino nozioni normative o che possiedano uno spiccato significato normativo. In questo senso, infatti, la logica deontica appare dotata di particolare significato dal momento che, sensu lato, consente di estendere il dominio della logica oltre il reame della verità[10].

Perché le proposizioni normative non sono verofunzionali?

Perché non descrivono uno stato di cose, rispetto al quale ha senso chiedersi se siano vere oppure false, ma prescrivono un certo ordine reale, e rispetto al quale è impossibile chiedersi se siano vere oppure false. In letteratura, si parla appunto di 'Grande Divisione' tra fatti e valori, o anche di 'Legge di Hume', violando la quale si incorre nella 'fallacia naturalistica'. Tanto l'una quanto l'altra sostengono una sola cosa: non è possibile derivare il 'dovere', ossia il 'normativo', dall'essere', ossia il 'descrittivo' (e viceversa, ovviamente)[11].

Questo significa che la sfera pratica è del tutto svincolata dalla razionalità?

Assolutamente no, ma che, da un punto di vista teorico è problematico trovare una fondazione razionale la quale non incorra nella suddetta fallacia, o che operi arbitrarie invasioni di campo, p.e. Dal 'descrittivo' al 'normativo', oppure dal 'prescrittivo' all'essere'. E tuttavia appare prima facie banale osservare come le proposizioni normative funzionino secondo una logica. A rigore, dovrebbero collocarsi in un dominio eterogeneo a quest'ultima, ma ciò non accade né tantomeno possiamo considerarle del tutto 'logiche'. Da qui sorge un problema che Jørgensen chiamò puzzle[12]. Successivamente, il danese Ross chiamò questo problema, in onore del connazionale che per primo lo colse da un punto di vista teorico, 'dilemma di Jørgensen'[13].

Cos'è esattamente il dilemma di Jørgensen?

Si tratta del riconoscimento della difficoltà formale a giustificare la possibilità di inferenze ove figurino proposizioni normative o come premesse o come conclusione[14]. Questo perché essendo non verofunzionali, non pare possibile adoperare la logica, di per sé verofunzionale invece, per dare luogo a inferenze corrette o sensate. In genere, essendo un dilemma, vi sono due tesi reciprocamente esclusive le quali danno, rispettivamente, una versione della logica e una possibilità, positiva o negativa, circa una logica delle norme[15]. Volendo sintetizzare in questa sede, possiamo avere:

i) la logica, essendo verofunzionale, trova applicazione solamente alle proposizioni verofunzionali, e non alle proposizioni normative, ragion per cui è impossibile una logica delle norme;
ii) è possibile una logica delle norme a condizione, però, che la logica estenda il suo

Allora c'è un rapporto tra la logica deontica e il dilemma di Jørgensen?

Concettualmente sì, praticamente no. Infatti, si tratta di una topica afferente alla discussione teorica sulla possibilità, o meno, di una logica deontica[16] mentre nessun legame vero e proprio è possibile scorgere tra la prima e il secondo. Dire che la logica deontica affonda le proprie radici nella cd. Is – Ought Question[17] è banale nel senso che l'intera riflessione morale del XX secolo è stata determinata dalla sistemazione di Poincaré ai rapporti tra scienza e morale[18]. Piuttosto ha senso, invece, affermare che il pensiero pratico è pur sempre pensiero, e come tale dovrebbe rispondere alle medesime “leggi del pensiero”[19], sebbene, ovviamente, ciò appaia complicato e problematico. La presenza di diffusi paradossi deontici, ad esempio, e quello più eclatante, mette seriamente in questione la possibilità stessa di una logica deontica[20].

(continua ...)

Note

[1] G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 60, 1951, p. 1 e sgg. Cfr. G. H. von Wright, An Essay in Modal Logic, North – Holland, Amsterdam, 1951.
[2] Cfr. S. Knuuttila, Logica modale, in AA. VV., La logica nel Medioevo, Jaca book, Milano, 1999, pp. 289 – 308. Cfr. S. Knuuttila, Modalities in Medieval Philosophy, Routledge, London and New York, 1993. Cfr. S. Knuuttila, The Emergence of Deontic Logic in the Fourteenth Century, in R. Hilpinen (eds.), New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, pp. 225 – 248. Cfr. S. Knuuttila, The Emergence of the Logic of Will in Medieval Thought, in G. B. Matthews (eds.), Augustine Tradition, University of California Press, New York, 1999, pp. 206 – 221.
[3] Cfr. Cfr. G. H. von Wright, Norme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, p. 5: «Il mio itinerario attraverso il labirinto della «logica deontica» dura ormai da più di trent’anni». Cfr. Cfr. J. Hintikka, Deontic Logic and Its Philosophical Morals, in J. Hintikka, Models for Modalities. Selected Essays, Reidel, Dordrecht, 1969, pp. 191 – 2: «The literature of deontic logic offers instructive and amusing examples of such fallacies». Cfr. G. Di Bernardo, La teoria dell’azione come base per la logica deontica, “Informatica e diritto”, 2, 1983, p. 239: «emerge ancora una volta la preoccupazione di von Wright di dare alla logica deontica una solida base, una base cioè che eviti i continui paradossi in cui la logica deontica incorre fin dal suo nascere».
[4] Cfr. A. C. A. Mangiameli, Diritto e Cyberspazio. Appunti di informatica giuridica e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2000, p. 128. Cfr. G. Kalinowski, Il significato della logica deontica per la filosofia morale e giuridica, in G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977 p. 282.
[5] Cfr. N. Grana, Logica deontica paraconsistente, Liguori, Napoli, 1990, p. 57.
[6] Cfr. P. Di Lucia, Deontica in von Wright, Giuffré, Milano, 1992 p. 5.
[7] G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 60, 1951, p. 1. Cfr. A. Ross, Direttive e norme, Comunità, Milano, 1978 p. 209; Cfr. T. Mazzarese, Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam, Padova, 1989 p. 3: «l’insieme di sistemi formali (di calcoli) che assumono ad oggetto il comportamento logico di concetti normativi quali obbligo, divieto, permesso, facoltà, diritto, pretesa».
[8] Cfr. Y. U. Ryu – R. M. Lee, Defeasible Deontic Reasoning: A Logic Programming Model, in J. J. Ch. Meyer – R. J. Wieringa, Deontic Logic in Computer Science. Normative System Specification, John Wiley and Sons, Chichester, 1993, p. 225: «deontic logic, also called logic of norm or logic of obligation, refers to a study of the normative use of language in which statements of “it is obliged…”, “it is permitted …”, etc. occur».
[9] Cfr. G. H. von Wright, Norme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, pp. 5 – 87. Cfr. A. Pizzo, Pensiero pratico e logica deontica: assenza o presenza di razionalità?, “www.filosofia.it”, pp. 1 – 31 (contenuto on – line: http://www.filosofia.it/images/download/essais/07_PensieroPratico_e_logica0deontica.pdf).
[10] Cfr. G. H. von Wright, Logical Studies, Routledge And Kegan Paul, London, 1957, p. vii.
[11] Cfr. G. F. Schueler, Why “oughts” are not Facts (or What the Tortoise and Achilles Taught Mrs. Ganderhoot and Me about Practical Reason), “Mind”, 416, 1995, p. 713: «A great deal of the moral philosophy of the last hundred yaears has been devoted to trying to understand “the relation between ‘is’ and ‘ought’. On the one side, when we are engaged in genuine moral reasoning and debite, we seen to take it for granted that various factual claims support judgments about we ought or ought not to do. We even seem to regard some such judgments as true (and othres as false). On the other side, when we reflect on such judgments, it seems difficult indeed to see how either of these things could be straightforwardly the case, in view of the very great difference between factual and evaluative (or normative) judgments».
[12] Cfr. J. Joergensen, Imperatives and Logic, “Erkentnnis”, 7, 1937 – 8, p. 290.
[13] Cfr. Cfr. A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 76.
[14]. Cfr. A. Marturano, Il “Dilemma di Jørgense”, Aracne, Roma, 2012, p. 9.
[15] Cfr. Cfr. G. H. von Wright, Deontic Logic: A Personal View, “Ratio Juris”, 1, 1999, p. 27: «Mally’s work had few, if any, repercussions in the literature. But in the late 1930s and early 1940s there was a certain amount of discussion whether a logic of norms or of imperatives is at all possible in view of the fact that imperatives – and presumably norms too – lack truth-value. In the debate two Danes took a prominent part. One was Jørgen Jørgensen, after whom the name “Jørgensen’s Dilemma” was coined. The other was Alf Ross, inventor of the famous paradox. Both the dilemma and the paradox are still active topics of current debate».
[16] Cfr. S. Coyle, The Possibility of Deontic Logic, “Ratio Juris”, 15, 2002, pp. 294 - 318.
[17] Cfr. G. Di Bernardo, Is – ought question e logica deontica, in U. Scarpelli (ed.), La logica e il dover essere, “Rivista di filosofia”, 1976, p. 169.
[18] Cfr. A. N. Prior, op. cit., p. 22: «to find a ‘foundation’ for morality that is not itself already moral». Cfr. Cfr. A. G. Conte, Alle origini della deontica…cit., p. 641: «La teoria di Jørgen Jørgensen (1894 – 1969) è nata come critica d’una tesi formulata da Jules - Henri Poincaré (1854 – 1912)». Cfr. S. Cremaschi, L’etica del novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma, 2005, p. 64: «Negli anni quaranta iniziò a concentrarsi l’attenzione sulle possibili conseguenze per l’etica degli sviluppi della logica. Una delle linee di ricerca intraprese fu quella dello sviluppo di sistemi di logica formale specifici per il linguaggio deontico, cioè contenente prescrizioni […] una seconda linea partì dalla riscoperta della critica humiana al passaggio is – ought».
[19] Cfr. G. H. von Wright, Introduzione, a: G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37: «il pensiero pratico è pur sempre pensiero e, come tale, deve soddisfare i requisiti e le leggi della logica. Lo studio del pensiero pratico rappresenta, tuttavia, un notevole ampliamento della tradizionale scienza della logica. Tale studio può valere anche come fondamento di un’antropologia filosofica, che corrisponda al senso profondo della caratterizzazione aristotelica dell’uomo come animale razionale».

[20] Cfr. N. Grana, Logica deontica paraconsistente, Liguori, Napoli, 1990, pp. 13 – 4: «la derivazione nel sistema formalizzato deontico di alcuni paradossi dividono gli studiosi. Il dilemma di Jørgensen, che pone in discussione la legittimità stessa della logica deontica, viene riproposto da studiosi che non sono disposti a tollerare i paradossi nella logica deontica e che non credono alla possibilità razionale della stessa».



(immagine tratta da: http://www.syzetesis.it/immagini/ArticoliRecensioni2009/deontic-hexagon.jpg)