Il romanzo di
Dostoevskij è, a mio sommesso parere, espressione dell’evoluzione prevedibile
della cultura occidentale nel XX secolo. La cosa è, in sé, sorprendente se si
pone mente alla data di pubblicazione, il 1864, ed anche se si considera
l’estrema posizione periferica della geografia culturale russa nello stesso
periodo di tempo. E tuttavia Dostoevskij mostra ancora una volta la sua
posizione di centralità sulla scena culturale mondiale, a dispetto del contesto
al cui interno operava. Ma non è forse indice della grandezza di un autore la
capacità che le sue pagine possano elevarsi al di sopra delle miserie e delle
ristrettezze che caratterizzano ciascuno di noi? L’universale non è, come piace
credere, la negazione della singolarità, ma la massima garanzia che la
singolarità ha fatto i conti con la generalità cui pur appartiene.
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Dostoevskij
coglie, con puntualità ed acume, il successivo sviluppo della cultura
occidentale in quanto delinea la precisa figura del “piccolo borghese”,
istruito, magari colto, ma affaccendato in miserie, tutto preso dal confronto,
sovente impari, con i suoi pari, dedito ad una vita comunque “bassa”, sordida,
che fa da contraltare alla sua visione “ottima” delle cose, alta, aulica,
nobile: tanto più è a conoscenza della bellezza quanto più si mischia alla
bruttezza materiale delle cose. Il protagonista, quanto più è memore della
perfezione spirituale della cultura, di quel vasto e magnifico orizzonte che le
lettere dischiudono, tanto più preferisce perdersi nell’abbruttimento
dell’urgenza sensibile delle cose, nella bruta concretezza delle cose reali,
fondersi in esse, come a fuggire la sua inettitudine. Di qui il tema,
successivamente celebre, dell’«inetto», di quella figura curiosa, espressione
di una condizione morale tutta occidentale quanto moderna, dell’uomo che
possiede una conoscenza magari superiore a quella media ma che, pur tuttavia,
non è in grado di condurre un’esistenza all’altezza, perdendosi e confondendosi
con i mille rivoli, in genere davvero insignificanti, della vita quotidiana,
con le sue routines e i suoi rituali, quasi a voler compiere la misteriosa
liturgia della vita occidentale.
L’inetto è,
forse, anche il prototipo dell’intellettuale moderno: tanto profonda la sua
mente quanto indolente la sua volontà. Colui che è incapace a vivere, colui che
difficilmente padroneggia il mestiere più duro e ostico che ci sia: vivere. In
genere, l’inetto è colui che non vive, ma si lascia vivere, che non agisce, ma
viene agito, che non sogna, ma è il sogno di qualcun altro. Un soggetto, cioè,
che è incapace di tradurre in azioni concrete le sue mete ideali, i suoi
progetti, i suoi pensieri e che, quasi sempre, delega agli altri le sue stesse
scelte. Incapace di scegliere, accondiscende a che gli altri lo facciano per
lui. In fondo, solo una volta sceglie: di non scegliere più. E così vede
passare la sua vita come uno spettatore, una vita non vissuta, un groviglio
caotico e complesso, pluricentrico, di corsi d’azione indipendenti da lui,
eterogenei a sé, lontani dai suoi occhi e dal suo cuore. Un coacervo misto di
pensieri senza pensatore, di sogni senza sognatore, di azioni senza agente, di
oggetti affastellati qua e là senza un soggetto.
Dostoevskij
narra di un inetto, ma narra anche di ciascuno di noi; in altri termini, egli
descrive l’uomo di oggi, l’uomo al termine della modernità, quello che, debole
davanti alla grandezza del passato, non riesce a fare nulla di sua libera
iniziativa, che magari ha grandi idee, grandi progetti, ma che per nulla al
mondo riuscirebbe a realizzarli, a mandarli ad effetto, che guarda, con
disincanto, con perplessità le magnifiche sorti e progressive dell’umanità.
Quasi per uno scherzo del destino, l’autore parla a noi di noi, anticipa gran
parte di quella diagnosi impietosa che possiamo leggere in Lyotard: che ne è
dei grandi racconti? Delle grandi mitologie? Di quelle narrazioni capaci di
smuovere le montagne? Di innalzare i cuori? Restano soli, sole, sulla pagina
piena di qualche libro. Le esistenze singole, concrete, inette, traslocano da
questo mondo a quell’altro, fuggendo la luce impietosa del disco solare,
sottoterra, metafora viva delle bassezze dell’uomo moderno, così prossimo agli
istinti bestiali, così vicino al “ventre profondo”, ai suoi umori, alle sue
bizze, al suo capriccio, così alieno alle belle lettere, alle cose umane, per
non dire delle divine.
E l’inetto
narra, parla di sé, delle sue scelte, del suo mondo, e critica quanto lo
circonda, quanto ammorba il suo delicato nasino. Chiuso nella sua affatto
dorata torre d’avorio, si cimenta in un lungo monologo sul suo posto nel mondo
e sulla sua malattia, quella del “secolo”, quella della modernità, quella che
vede il malato come fuori posto, privo di quelle certezze e garanzie che,
umanamente, desidera, che ardentemente vuole per sé, ma che nessuno, né
tantomeno lui stesso, gli dà, può garantirgli. E pur avendo le idee chiare,
mille moventi, mille pulsioni diverse allignano dentro di sé, mostrandosi
fugacemente e senza che sia lui a volerlo, nelle pieghe di un pensiero, di un
discorso, come illegali tra le parole, come note stonate in una sinfonia, come
altrettanti rovesci di diritti messi avanti.
Vi leggiamo il resoconto
di mezz’età, il bilancio di una vita regolata ma malata, di un impiegato
«maligno», «villano», con la «bava alla
bocca», «stupido», che alla prima occasione lascia il lavoro per fare la bella
vita con una misera rendita. Ma quale bella vita? Un topo resta pur sempre un
topo, lasciato il misero impiego da ufficio, ora dimora in un angolo della
grande città, Pietroburgo, in una camera «misera», «brutta», con una serva, una
«donna di campagna», «vecchia», «cattiva per stupidità», che puzza, schiavo di
«meschini mezzi». Egli è sempre parco nei suoi giudizi, su di sé e,
soprattutto, sugli altri. In fondo, l’inferno sono gli altri, fosse per noi
staremmo benissimo soli sul cuore della terra, magari trafitti da un raggio di
sole, ma felici nella nostra solitudine gratificante e bastevole. Ma dobbiamo
pur sempre fare i conti con gli altri, misurarci con loro, scontare con loro i
nostri sentimenti bassi e di acquisita consapevolezza dei nostri difetti,
demeriti, limiti, miserie. Umane, ma, forse, anche troppo umane. Vorremmo
un’esistenza libera dal lavoro, ma sovente viviamo per lavorare, e non più
viceversa. Ma questa è la legge, neanche tanto segreta, del mondo, così vuole
il mondo, così desidera la vita, così ci impongono gli altri. E allora non
possiamo che ripagarli con la stessa moneta, con il disprezzo, con la critica,
spesso gratuita quanto fatua, con il biasimo, con la chiacchiera, con la
menzogna. In fondo, però, la verità la conosciamo, per quanti sforzi
profondiamo nell’evitarla, nell’ignorarla, nel camuffarla di altro e con altro,
rimane inemendabile nella sua alterità, nella sua eterogeneità: come in uno
specchio vediamo riflessa la nostra anima. E Dostoevskij è maestro nello
scandagliarla, nel non celare nulla di quel mostro incomprensibile che reca il
nome di «uomo». L’umanità è proprio questo, svelare quanto v’è al fondo del
cuore di ciascuno, non nascondere nulla di quel miserabile divino che è l’uomo,
le ansie, le paure, le bassezze, le miserie, i desideri, di un’epoca, di una
cultura, di un secolo, di un universo che, tra i tanti mondi possibili, ha
scelto proprio l’attuale, senza però concedere nulla in termini di gratificazione,
di certezza, di buoni sentimenti. E nello scandagliare quanto dimora nel
profondo, Dostoevskij non esita a raccontare, con dovizia di particolari, la
“malattia” dell’uomo moderno: il suo compiacersi della sua stessa esistenza
patologica. È, in effetti, una delle tante tendenze dell’uomo di oggi quella di
descrivere le sue nequizie, quasi compiacendosi di ciò proprio nell’istante in
cui lo fa. E il desiderio stesso di scomparire, sé nella sua integrità, e
totalità, prende ciascuna fibra del suo essere, estendendo sino al limite
estremo la coperta della sua stessa soggettività, quasi a voler giungere al
plesso agognato ove qualsiasi differenza tra essere e nulla sfuma,
scompare, si annulla. Questo cupio
dissolvi, che tanto caratterizza l’homo
novus del (post)moderno assume le sembianze della contemplazione
narcisistica di sé, che narra ad altri, ovviamente (auto)assolvendosi da
qualsiasi colpa, omissione, mancanza, difetto, peccato, nequizia, nefandezza,
falsità. E d’altra parte, questo stesso uomo vive come se Dio non fosse, a
dimostrazione della verità così tanto dostoevskijana secondo la quale ex falso quodlibet sequitur¸ venendo a
mancare Dio dall’orizzonte umano qualsiasi condotta diviene possibile. L’idea
nietzscheana di una “morte di Dio” è anticipata da Dostoevskij: Dio è nulla per
l’uomo proprio nel momento in cui l’uomo stesso si fa Dio, si eleva
inopinatamente ad una considerazione superiore a quella che normalmente
caratterizza l’uomo qualunque. O, almeno, questa sarebbe la sua pia illusione
dal momento che uomo – massa rimane anch’egli, che irretito nelle miserie di
una condizione umana fragile non può in alcun modo vivere da Signore, ma
sempre, e solo, da schiavo. E nella perversa, quanto patologica, condizione che
quotidianamente egli conduce, scopre, con Hegel, che quanti disprezza,
servitori, schiavi, maggiordomi, in fondo sono migliori di lui, e, rendendosene
conto, ancor più getta su di loro livore, odio, disprezzo, senza scontar loro
alcun difetto. Si scopre schiavo proprio nel momento esatto in cui, al
contrario, egli vorrebbe esser libero; si scopre peggiore nel momento in cui,
al contrario, egli desidererebbe essere migliore. Gli schiavi diventano liberi
esattamente quando i loro signori diventano schiavi. Ed è attraverso il
“lavoro” che avviene questo scambio di ruoli, di identità, di esistenze, di status personali. Il protagonista se ne
avvede ma cosa può farci ormai? Incapace com’è di sterzare nella sua grama
esistenza, si aggrappa disperatamente a quello che è, a com’è vissuto sinora,
lasciando che l’inerzia stessa lo vinca, e lo salvi. Meglio il male oggi, che
l’incertezza domani.
Ed egli prova
«godimento» nel descrivere la sua dissoluzione, violentando così la natura
nobile delle lettere, delle narrazioni: trasfigurare vite private in esistenze
mirabili; rarefare singolarità, per quanto uniche ed irripetibili, in modelli
esemplari, al di là del tempo e dello spazio; nobilitare esperienze di vita in
storie di vite. In ossequio al proprio vanagloriamo, l’homo novus dei nostri tempi, troppo vicini per non abbacinarci con
la loro nefanda oscurità, cos’altro può fare se non descrivere le sue bassezze?
D’altra parte, non vede la sua vita scivolare via lontano da sé come uomo che
vive? Guardandola scorrere sullo schermo, anche deformante delle lettere, può forse sentirsi leggermente
più bello, più virtuoso, più innocente di quanto, ovviamente, non sia. Nella finzione
letteraria può sentirsi meno responsabile, più leggero, privo di quei gravami
che non mollano quanti, nella realtà, si macchiano di colpe, di omissioni, di
peccati, di vizi. Ma la sfera pubblica, del confronto di persone con le
persone, è difficile già ai tempi di Dostoevskij; così, il suo protagonista, il
suo “eroe”, se così può dirsi, soggiace all’inferno che si è creato, e da quel
giaciglio infernale non riesce – non vuole più destarsi. E d’altra parte, cos’è
l’uomo se non un «topo», un essere miserabile che bagorda con quanto la natura,
più matrigna che madre, ci offre? E aderendo al piano della natura, egli non
realizza forse tutti quegli ideali ottimistici ed illuministi di una vita secundum naturam? Non si può desiderare
nulla di più bello senza farsi fango con il fango, miseria tra tante miserie,
briciola di materia grigia tra materia bruta. Altrimenti, che razza d’ipocrisia
si tenta di mandare ad effetto? Di spacciare per verità? Se l’uomo è cenere,
perché attendere la dissoluzione materiale? Non è forse la scienza, e con essa
la matematica, ad insegnarci che non v’è scampo? Se l’uomo può vantare le
scimmie nella sua genealogia, perché non rassegnarci a questa nuova visione?
Perché non prendere atto del proprio vero posto nella natura? Animale tra gli
animali, materia tra materia. Non più nobile non più indegno. Ma ecco che il
desiderio indocile nuovamente serpeggia: rassegnarsi? Mai! V’è un’attività che
connota solo gli uomini, e che marca la differenza dai livelli “altri” del
regno dei viventi: il pensiero. Quello stesso che ride delle conclusioni cui
giunge, suo malgrado verrebbe da dire, l’uomo qualunque, l’uomo massa, l’uomo
piccolo borghese, l’uomo malato, l’uomo inetto, di cui narra Dostoevskij, e
come potrebbe far diversamente? Da sempre l’uomo ha aborrito il suo destino
naturale, da sempre ha messo in campo rituali, più o meno flokloristici, di
esorcizzazione del suo timore ancestrale, venir meno, scomparire per sempre,
trapassare nel nulla che, osceno, si staglia sullo sfondo delle nostre
esistenze. Ebbene, ridere è un esorcizzare, un allontanare, anche solo
metaforicamente, quel che ci aspetta, il momento esatto in cui essere e nulla
si fonderanno, e noi, come individualità irripetibili, diverremo come la
materia dalla quale, con arroganza, abbiamo presunto di poterci allontanare, di
poterci emancipare. Ma la morte è galandonna: dà a ciascuno come a tutti, senza
alcuna distinzione di sorta. Polvere che torna alla polvere, pagando così il
fio della colpa primigenia, volersi fare come Dio, sfuggire alla morte, alla
dissoluzione, all’assenza, alla mancanza.
D’altra parte,
per poter agire bisogna che non vi sia «nessun dubbio», ma la modernità non
toglie i dubbi, al contrario ne crea di nuovi senza derogare ai precedenti.
L’insicurezza serpeggia come una serpe che misteriosamente s’insinua nei cuori:
se non ho certezze, se non ho fondamenta, tanto salde, cos’è la mia azione se
non un biascicare parole insensate senza alcuna presa sulla realtà? Il secolo,
la modernitas, non garantisce, ma
solamente nega certezze, credenze secolari, usanze consolidate. È un secolo
malato perché «negatore» e quanti, magari, ancora si cullano in (presunte)
certezze, in valori tramandati, fanno (solo) «sogni dorati». E d’altra parte a
chi fa piacere fare i conti con la realtà? A chi piace destarsi dai sogni beati
di chi poco sa o, meglio, poco vuol sapere perché grave è la verità? Come un
topo preferisce rifugiarsi sottoterra, là dove più gli conviene, là dov’è
naturale la sua dimora, dove meglio s’acconcia con la sua natura. Vivere come
una talpa, senza nulla vedere, nulla riuscire a distinguere, e da dove
lasciarsi trasportare dai moti discontinui delle viscere della terra, dal
“ventre profondo” che ci costituisce ed istituisce, proprio quando ci illudiamo
di esser noi a scegliere, a condurre il gioco, i fili molteplici e sparsi di un
“io” che di centrato non ha proprio nulla. Edipo per aver saputo chi era, si
acceca, consegnato alla cecità come a condizione migliore della conoscenza,
preferibile ignorare, non sapere, che scontare con la luce accecante la verità
insopportabile. Un rifugio, un porto franco, un trucco per poter sopravvivere,
per poter tirare avanti. E il protagonista questo fa: tirare avanti per come la
vita stessa riesce a trascinarlo via con sé, corpo morto che non cade perché
già adiacente al suolo della terra matrigna. Se in preda ai flutti di un rio
destino, a che giova la predittività della scienza moderna? Quale quid è essa in grado di apportare ad
esistenze sciatte e vergognose? Al bando, allora, il metodo, principale creatura della mentalità scientifica, e via
anche alla logica, di essa superba espressione. La vita collide con la scienza,
il divenire inconcusso delle cose contraddice la logica. Allora, o si aderisce
alla vita, alla sua follia senza requie oppure si aderisce alla logica, alla
sua sistematicità tranquilla. Pazienza che le cose non stiano esattamente in
questo modo, che magari Dostoevskij pecchi di approssimazione, ma di quale
modernità si sta parlando qui? Della modernità che si lega ad una scienza ad
un’unica dimensione, quella che profetizza la superiorità del metodo, della
predizione, della certezza mentre rende precaria la vita stessa, instabile
l’esistenza concreta, in fondo l’unica che conti nella sua corporale unità
inscindibile di materia e di spirito. Così, si descrive il rifiuto, magari
ideologico, ma con i suoi perché, della scienza, del metodo, della tecnica,
della logica, colpevole, quando i suoi risultati non coincidono con un
l’ordine, con la ragione, con il “sistema”, di «deformare premeditamente la
verità». E tuttavia questa, preme rilevarlo, è solo una deformazione della
logica, astratto logicismo, «puro logicume», come anche Dostoevskij lo
etichetta, lo perimetra, lo circoscrive all’interno della trama della sua stessa
narrazione, fedelissima eppure proditoria. Per Eraclito la stragrande
maggioranza degli uomini vanno dietro la falsità delle cose, dormono davanti
allo spettacolo, meraviglioso quanto inquietante, della natura, incapaci di
cogliere la legge segreta delle cose, quell’armonia che sta dietro l’apparente
contraddizione di un fiume che scorre, di un tempo che vola via, di esistenze
concrete come gioco contrapposto di interessi concorrenti. E della vita si
colgono così solo le note negative, peccando due volte: in primo luogo, perché
non si colgono le cose nella loro complessità contestuale in virtù della quale
nulla è positivo o negativo di per sé; e, in secondo luogo, perché si comporta
come colui che non vuol sapere. Cos’è, allora, mai l’uomo? I filosofi sono
corsi a lungo dietro ad una definizione, la quale presenta sempre il proprio
profilo peggiore, quell’astrattezza che tanto aborre, e che tanto critica, la
Cavarero: l’universalità. Rispondere a tale domanda ci dice solo cosa sia l’uomo, non chi egli è. E tuttavia come tanti prima
di noi, e non solo filosofi, anche poeti, aedi, narratori, non possiamo che
rispondere in termini astratti, generali, frammentari, confusi,
irrimediabilmente vaghi: l’«uomo è sciocco», rivela, nel suo lungo monologo, il
protagonista del romanzo, l’autore stesso di tali memorie, che ancora rimangono
sussurrate ma non rivelate. Siamo sciocchi, la sciocchezza è la nostra natura,
la sciocchezza la nota costante dei nostri io, il filo conduttore dei
molteplici fili dispersi che sono le nostre azioni, i nostri pensieri, i nostri
moti, i nostri moventi … e da sciocchi agiamo, viviamo, omettiamo di fare. Uno
sciocco commette solo errori, vuole in modo erroneo «per un modo erroneo di
considerare i nostri vantaggi». Una banalità, a prima vista, un’enorme verità,
riguardata bene. Non è secondo ragione che viviamo, e pazienza per la tiritera
medievale sulla recto ratio, sull’uso
accorto della stessa, e pazienza anche per la concezione aristotelica di uomo, animale razionale, metafora che edulcora
le cose, che le deforma, le mistifica, ingannando gli ingenui, gli sciocchi,
ossia tutti noi. La ragione «è una bella cosa» ma è troppo aliena da noi,
troppo estranea dai bisogni concreti, immediati, materiali di essere incarnati
in unità di corpo e spirito, di materia e pensiero, di angeli e di animali. E
tutt’al più le è lontana anni luce la volontà, che è hic et nunc e che mal si lascia dirigere, guidare, aggiogare da una
facoltà estranea, che, al massimo, può bastare solo a sé stessa. Essa, in fondo,
«sa solamente quello che è riuscita a conoscere» ma la «natura umana» si
realizza ora senza piani prefissati, senza direzioni programmate,
istintivamente, immediatamente, con perché che esulano dalla conoscenza
razionale, con finalità eterogenee alla ragione, «magari dice il falso, ma
vive».
Ecco come
Dostoevskij articola qua uno degli argomenti principali sul finire del XIX
secolo contro lo strapotere della tecnica, della scienza, della ragione,
considerate tutte espressione di una teoria che mortifica gli slanci vitali
dell’esistenza. Quello stesso vitalismo che nel giro di pochi decenni avrebbe
consegnato l’umanità intera al’abisso di due tremende guerre dalle proporzioni
mai viste in precedenza, non disdegnando nemmeno di arricchire la faccia della
terra, pur sempre matrigna arcigna, di varie tirannie, pur di riguadagnare
l’unità perduta, le sicurezze affrante, le certezze ataviche, le concretezze
rassicuranti, pur di acquistare la libertà in nome della stessa libertà, tutta
moderna, dalla quale, invece, gli uomini cercavano, quasi disperatamente, di
fuggire. Questa colossale fuga dalla libertà trova nel borghesuccio di
Dostoevskij pieno prodromo, ancor insonne, ancor implicito, ancora in fieri, e non lascia, se non col senno
di poi, trasparire l’evoluzione successiva di un tipo umano e della sua specie.
Ma la
letteratura russa ci mostra a piene mani la consonanza di determinati temi,
come la “fede”, la ricerca di un Dio che ama nascondersi, di un socialismo che
dovrebbe avvicinare gli uomini nella lotta senza posa contro una matrigna che
acidamente dispone poco per tutti, di un anelito finale alla libertà che è un
po’ il sogno proibito dei russi e la promessa, annunciata e poi mancata,
dell’intera modernità. Quel che l’autore del monologo presenta fa è tessere le
lodi sperticate della libertà umana che si erge contro la tirannia della
natura, della cultura, dei signori, di quanti, dall’alto della loro splendida
condizione, si concedono il lusso di poter sindacare la vita altrui, di poter
giudicare la “povera gente”, quanti si trascinano disordinatamente per le vie
delle città, di quanti si lasciano travolgere dalle secche di città sporche,
sudice, immorali, polverose. E allora poter cambiare lo status quo, l’insopportabile stato vigente, poter ri – plasmare,
magari anche a proprio vantaggio, l’intera realtà diventa il sogno proibito
dell’uomo moderno, la massima aspirazione del moderno Prometeo. Non basta il
fuoco, ci vuole il nichilismo, fenomeno tutto russo che, forse, nulla a che
spartire con lo spettro che si aggira per l’Europa in quegli stessi anni, con
l’ospite inquietante di tanti giovani, secondo noti dotti nostrani. Annullare
il corso degli eventi, fermare il corso inarrestabile del tempo, rendere nulle
le posizioni di tutti, e ridiscutere tutto quanto, ridistribuendo ricchezze e
corsi delle esistenze singole, magari secondo giustizia. L’umanismo
dostoevskijano è anche questo: portare giustizia ove manca. Ma anche in questo
punto, la ragione latita e il pensiero si scandalizza. La libertà non è mera positività,
quello, almeno in parola, lo sarebbe solamente il Bene platonico, ma in questo
caso tutto è ambivalente, profondamente quanto immancabilmente, doppio: tanto
bene quanto male; tanta luce quanto tenebre; tanto angelico quanto demoniaco.
Nel pensiero ebraico la libertà comporta la responsabilità, verso di sé come
uomini e verso le generazioni posteriori in quanto futuro dell’umana specie.
Valga come esempio la biologia di Jonas. Ma in Dostoevskij le cose non stanno
così: il carattere delle conseguenze della libertà viene sistematicamente
ignorato. Libertà va cercando il protagonista, importandogliene molto poco del
male che, magari, involontariamente, inconsciamente direbbe Freud, provoca. Ma
in fondo, se lui stesso ha già sofferto, perché dovrebbe preoccuparsi degli
altri? S’è forse il mondo curato di lui? Dei suoi sogni traditi? Delle sue mire
bloccate? Le ali gli sono state recise, perché avere a cuore il destino di
altri? La libertà è totalitaria, vuole tutto, desidera tutto, e trasforma anche
il tutto in niente. Così l’uomo senza Dio, direbbe Pascal, approda all’esito
ultimo di Nietzsche: rivoltare l’essere, traducendolo in nulla. Ma l’uomo non è
Dio, e il suo eclissarlo, come direbbe Buber, non apre la strada ad una nuova
umanità, forte, padrona del suo destino, capace di tutto, ma allo spettro di
uomo, all’uomo nichilista, all’uomo talpa, per il quale poco cale se il mondo
resta com’è o muta.
Nevroticamente,
allora, si arrampica sugli specchi, racconta, ma mente, su di sé, sugli altri,
sul mondo. Come non potrebbe dato dove vive? In un buco, in una tana, sotto il
livello più infimo delle esistenze moderne. E ci prova gusto. Infatti, «è
meglio non far nulla!», meglio «l’inerzia cosciente», «evviva il sottosuolo!».
Egli invidia gli altri, così tanto deformati nella sua visione da averli
collocati nelle migliori delle esistenze possibili, soprattutto per contrasto
con la sua, che non lo soddisfa appieno, da preferire l’esilio,
l’autoconfinamento in un altrove ove continuare la propria meschinità, coltivando
non una nuova umanità, ma le menzogne cui tanto è abituato. Tanto egli si
annoia, non fa «mai nulla», e allora racconta con gusto le sue miserie. Termina
qui il lungo preludio alle memorie vere e proprie, alle miserie davvero
realizzate, alle colpe veramente raccolte.
Dopo essersela
presa con il mondo intero, finalmente l’oscuro e grigio borghesuccio russo di
fine XIX secolo comincia a narrare più in termini personali la sua esistenza
concreta. Ma si può dire che il registro non cambia: solamente adesso quanto
prima veniva attaccato in linea teorica trova critica in concreto. Così,
scopriamo che il disprezzo, con un tocco di superiorità, ovviamente solo
presunta, nei confronti degli altri, costringe il protagonista a condurre un’esistenza
«disordinata e solitaria», ficcandosi sempre «nel mio angolo», in un cantuccio,
dimentico di sé e degli altri. Lo squallore di tale vita è evidente sin dalle
prime battute, ma quel che colpisce è sicuramente il rifiuto, non sappiamo se
preconcetto o meno, degli altri. Semplicemente, il protagonista non considera i
suoi simili degni di considerazione, ne disconosce l’autorità, la somiglianza,
la personalità. Non vorremmo abusare qui di un certo registro psicologico ma
sarebbe certamente interessante valutare questo comportamento sulla base della
lezione di Palo Alto: cosa non è andato a buon fine nelle interazioni dinamiche
che ciascuno di noi intrattiene con gli altri? Cosa ha determinato un così
viscerale rifiuto degli altri? Questo totale rigetto dell’altrui posizione? Certo,
magari, la colpa non è solamente di questo inetto, sarà anche degli altri, ma
non solo di questi ultimi. E tuttavia, per via di una serie particolare, e qui
ignota, di ingiunzioni paradossali, il protagonista biascica fiele pur non potendo,
suo malgrado, fare a meno degli altri. Deve costruire, se così può dirsi, la
sua identità “negativa” – non è in fin dei conti egli un nichilista? – sulla base
dell’idolo polemico, costituito dagli altri, da quanti considera, o vorrebbe
considerare, i peggiori, i nemici, i suoi traditori. Ma egli non ha riposto
certo fiducia su di loro, eppure si sente tradito, osteggiato, vilipeso,
calunniato. È solo nevrosi di un soggetto perso nella complessità della
modernità? Potrebbe essere, anche, ma non ce la sentiamo di semplificare la
faccenda sino a questo punto, non ce la sentiamo di ridurre ad uno solo la
responsabilità – sempre che se ne possa parlare in tali termini – di un
comportamento bislacco quanto bizzarro. D’altra parte, nessuno di noi vive
solo, anche se lo vorrebbe, ciascuno di noi entra in una rete di relazioni,
peraltro già esistente prima che noi si metta piede sulla scena di questo
mondo, ragion per cui non si può che comunicare, e, comunicando, non ci si può
esimere dallo stipulare “legami”, “connessioni”, con gli altri, per “normali” o
“patologici” che questi stessi possano essere. Ebbene, il legame del
protagonista con gli altri è malato, negativo, nevrotico, narcisistico,
egoistico, fallocentrico direbbero i filosofi postmoderni, violento,
arbitrario. La solitudine è solamente la componente emotiva di tale stato d’animo,
di un’identità costruita per differenze, per contrasti, per opposizione, per scontro,
sulla negazione stessa di un rapporto di parità tra interlocutori. E siccome un
rapporto di tal genere non può certo appagare appieno, ecco che il
protagonista, immerso in una perversa girandola di legami nevrotici, prova «una
furiosa scontentezza», «disgusto». Ma piuttosto di modificare, per quanto
possibile, la sua modalità di relazione, egli concentra sul suo aspetto le
negatività che, invece, riversa all’esterno, quasi che fosse per colpa del suo
aspetto che non va d’accordo con il mondo, ricacciando dentro di sé la
percezione esatta che il problema risiede altrove, che il problema non è il suo
fisico, così normale, così ordinario, così piatto, ma nella personalità costruita,
mattone dopo mattone, sulla polemica interpersonale, sullo scontro, sulla
negazione del valore positivo che gli altri possono avere, e svolgere, per noi.
Allora, guardandosi allo specchio, egli non scorge ciò, o finge di non
accorgersene, ma vede il suo volto «ributtante», «vile», «orribile». La severità
con la quale giudica il suo aspetto è direttamente proporzionale all’asprezza
del suo rapporto di legame, se non di dipendenza, con gli altri. Tanto più
disprezza gli altri quanto più getta il medesimo disprezzo su di sé. Oppure,
quanto più disprezza sé stesso tanto più cerca di convincersi che gli altri
disprezzino lui. Ma, basterebbe appena un poco di buon senso, porsi una domanda
facile facile per spezzare l’incanto di questo cerchio magico, circolo vizioso
lo chiamerebbero i logici tanto disprezzati, questa: in fondo, perché gli altri
dovrebbero avercela con lui? Ma per poter fare questo il soggetto dovrebbe
avere la forza necessaria per ricostruirsi su altri presupposti, di mettersi in
gioco, di porsi in discussione, di far venire giù il vecchio mondo al fine di
lasciare lo spazio necessario al nuovo. Un soggetto meschino come il presente,
però, non può, non ne ha le forze, le possibilità. E allora vive come ha sempre
fatto, si lascia trasportare dall’inerzia della sua stessa esistenza, incarnata
sì ma a quale prezzo!
Sentendosi debole,
aspira alla forza, e con il disgusto nei confronti degli altri maschera la sua
fragilità, la sua incapacità di amare, la sua immaturità di fondo. Pertanto,
disprezza i romantici, il romanticismo, così poco virile, così querulo, e cerca
il «litigio», lo scontro, anche fisico, con gli altri. Questo atteggiamento di
carogna rimanda ancora una volta, quasi che ve ne fosse bisogno, a quanto detto
sull’inetto: un’errata modalità di relazione umana disegna solo alcuni passi
comunicativi possibili, in genere fisici o riproduttivi in parola di questi
ultimi. Questo perché vorrebbe essere preso in considerazione, essere
rispettato, essere riconosciuto come loro pari. Ma è esattamente quanto gli
altri già fanno senza, però, che lui lo capisca, lo comprenda, lo riconosca a
sua volta. E così il cane si morde la coda, e la pantomima va avanti,
stancamente, per inerzia, sul moto delle cose. Ne deriva un atteggiamento
paranoico consistente in pedinamenti, inseguimenti, spionaggi, attenzione alle
chiacchiere. Il nemico va braccato e, alla prima occasione, affrontato. Ma una
serie simile di comportamenti certo non passa inosservata, certo non viene
percepita per com’è: disordinata; folle; paranoica; nevrotica; confusa. Allora,
gli altri, pur non volendo, certamente confermano con il loro atteggiamento di
evitamento, di diffidenza, proprio la patologia del soggetto in questione. E il
circolo vizioso continua senza posa, lo strano anello che costituisce la dubbia
personalità del protagonista continua a funzionare ad alto livello. L’inetto,
incapace com’è di cogliere la profonda differenza delle cose, e delle persone,
vive d’assoluti, o tutto o niente, o «eroe o fango», senza via di mezzo. E l’onore,
non per forza quello reale, anche solo quello immaginato, è l’esatto contrario
del disonore, del fango. E va difeso, anche a costo della propria vita. Ma quando
i denari non sono sufficienti per il progetto di grandezza coltivato dentro di sé,
ecco che i sogni s’infrangono come onde sugli scogli affioranti. L’ansia e la
bile conducono, allora, il protagonista per i bassifondi di Pietroburgo, nel
quartiere delle prostitute. Qui incontra una giovane prostituta, Liza, ancora
inesperta, ancora piena di sogni e di speranze, e che la povertà costringe a
tanta bassezza. Il loro dialogo è un perfetto esempio di incapacità di entrare
davvero in relazione, e dove la noia e il disprezzo di sé portano avanti parole
vuote, anche se il comportamento conseguente viene comunque realizzato. Poi la
perfidia prende il sopravvento e il protagonista, da basso borghesuccio qual è,
comincia a descriverle la sua pessima condizione, straniera in terra straniera,
povera e bisognosa, non solo materialmente ma anche di affetti. Già, ma chi può
volerla? Farle balenare il rimpianto per una vita che è diversa d quella
sognata, e sperata, da bambina è il primo passo per renderla dipendente non dal
suo amore, quello è una cosa molto diversa, ma dal suo disprezzo. In fin dei
conti, meglio lui che gli altri, e nonostante tutto. E questo perché «era il
gioco che mi attirava». Rotte le sue difese, la sua ritrosia, le sue
convenienze, ora dipende dalla sua volontà, dalla sua perfidia, dalla sua cattiveria.
Il secondo passo è farle credere che v’è un barlume di speranza se s’unisce a
lui, che forse lui, nonostante tutto, potrebbe amarla, darle una nuova
possibilità, liberarla dalla sua condizione servile. E lei, ancora ingenua, gli
crede e cede. In questo modo, il protagonista, ancora una volta, nasconde il
ribrezzo che giustamente prova nei propri confronti, per le sue bassezze, per i
suoi comportamenti indelicati, cattivi, meschini. Al punto che il favore
guadagnato trasfigura la situazione, una compravendita di prestazioni sessuali,
con assenza di sentimenti, diviene una cosa nobile, un rapporto «dolce e
pudico». Ma una voce, comunque, continua a parlare, pur senza venir quasi mai
ascoltata, dentro il protagonista, instillando vergogna. E tuttavia un pensiero
maligno si prende definitivamente il controllo, facendo partire un lungo
discorso che, in preda al pathos,
mistifica le cose, i reali sentimenti, le vere intenzioni, illudendo la povera
sciagurata che un futuro migliore sia possibile anche per lei, che una
liberazione futura sia possibile, che vi sia un’alternativa, e che la felicità
è lecita anche per lei. La castellana apre le porte e lascia che il nemico
prenda la cittadella. Consumato il rapporto, però, dopo aver lasciato libere
geometrie senza sentimento, come meccanica riproduzione di corpi senz’anima,
restano le macerie del tradimento, e la fretta di dimenticare tutto. Ma Liza
adesso ha una speranza, sia pure malriposta, e vi si aggrappa, anche oltre ogni
ragionevole dubbio, mentre in cuor del protagonista balena già la «disgustosa
verità». Fuggito da quel luogo di amplessi senza amore, l’inetto torna alla sua
vita, dopo aver soffocato le sofferenze proprie nel ventre altrui, egli può
tornare ben bello alle sue faccende private, anche se il pensiero di Liza
talvolta fa capolino, in modo particolare il timore che possa irrompere nella
sua apparente tranquillità. Tuttavia fuggendo, ancora una volta, dalla realtà,
egli prende a fantasticare di potersi occupare di lei, del suo destino, di
plasmarla, di educarla, di mantenerla. Ma lo vuole davvero? Questa sarebbe la
domanda giusta che, però, nessuno, meno che mai il protagonista, si pone. Segue
il brusco richiamo alla realtà nella persona di Apollon, il suo servitore, che
egli disprezza, come tutti gli altri d'altronde. Eppure, in quest’ultimo caso,
la trama della relazione è ben diversa: l’inetto si rende perfettamente conto
di odiarlo perché lo considera migliore di lui, una persona migliore, superiore
alle sue bassezze e in possesso della giusta lucidità per poter esprimere una
valutazione corretta sul suo padrone, «non avete la testa a posto». Infine,
Liza si presenta a lui, gli fa visita, illusa dalle sue parole del giorno precedente,
che potrebbe esserci amore anche con una come lei, anche per una come lei. Il dialogo
successivo è emblematico della perfidia nella quale il protagonista sprofonda,
come nella neve bagnata. Lei comincia a rendersi conto di dove vive, del suo contesto,
pian piano il castello di menzogne comincia a crollare su sé stesso. Ma concentrato
esclusiva mentre su sé stesso, e sulla sua inferiorità rispetto ad Apollon, non
riesce a vederla per quella che è, come una persona, in fin dei conti lei
continua ad essere per lei un oggetto, di soddisfacimento corporale il giorno
prima, di soddisfacimento umorale il giorno seguente. Infatti, le chiede se lo
disprezza, una domanda fuori luogo, alla quale la povera Liza non può
rispondere, tacendo. Il suo silenzio è l’occasione che si aspettava, anche se
in fondo l’inetto è a conoscenza della verità, «ero stizzoso contro me stesso,
ma s’intende che doveva farne le spese lei». Inetto, ribaldo, meschino, ottuso,
vanitoso, egocentrico, le considerazioni negative possono solo sprecarsi e non
bastare a render conto di tutte le molteplici sfaccettature del soggetto in
questione. Con disprezzo rinnovato, lui ostenta superiorità, una superiorità
messa da parte il giorno prima, ma qui, nel suo luogo naturale, ostentata, a
marcare la distanza tra un signore par lui e una prostituta par lei … La
incalza, non è un posto per lei, e lei non fa per lui, sembra dirle. Malignamente,
le dice anche il motivo della sua visita, quasi ridendole in faccia, «perché allora
ti ho detto delle parole pietose», che oggi mancano, del cui servizio non ha
bisogno, non deve dimenticare le asprezze della vita, dimenticare le offese
della gente. Cosa crede Liza? Che lui fosse «venuto apposta per salvarti?». Oh ingenua!
Oh anima bella! Oh infelice! Eppure, nel feroce gioco malvagio che egli
inscena, in un nuovo monologo, dato che la poverina nulla può dire, e tace, in
fondo, ancora una volta un barlume di lucidità affiora nelle tenebre di una
psiche contorta: lui sa di averla ingannata così come sa benissimo che non può
offrirle nulla, non può darle nulla, non può aiutarla in alcun modo. E in un
moto sincero, stavolta sì, glielo dice, quasi a volersi smarcare da una
situazione che, per colpa sua, si era venuta a creare, di attese e di fantasie.
Perché non rivelarle anche cosa l’aveva spinto a cercarla la sera prima? Il «potere»,
il «divertimento», l’«umiliazione», l’«attacco isterico», di questo aveva
bisogno la carogna il giorno prima, non di entrare in relazione con l’intera
persona di Liza, alla quale vanno, ovviamente, le nostre simpatie. Le parole
vomitate sopra la poveretta hanno l’effetto previsto: una nuova ambivalenza
possiede l’inetto. Lei è inerme davanti alle sue sofisticherie, lei è debole
davanti alla complessità dei suoi pensieri, lei è impietosita da una persona
che considera superiore. Lui la disprezza ma la desidera, la considera
superiore a sé stesso, migliore di sé, ma deve possederla. E così accade,
ancora una volta. Stavolta, se possibile, in maniera peggiore del giorno prima,
con più animalesca voluttà. Dopo subentra l’inquietudine, l’ansia, la paura che
un gioco violento senza impegni potesse tramutarsi in svolte definitive. Lui desidera
solo che lei vada via, non la vuole più, non la desidera più, la disprezza, in
fondo è solo una prostituta, si concede senza peso a più uomini, non ha
sentimenti, non può amare. Alla fine lei se ne va, rifiutando la sua paga per
la prestazione, assecondando il suo desiderio di «rimaner solo nel sottosuolo».
L’abbandono di Liza risvegliano ancora le sue fantasie, immaginazioni malate di
un inetto incapace a vivere che preferisce rifugiarsi negli assoluti del
pensiero piuttosto che fare i conti con i chiaroscuri della vita.
Molto altro
ancora si potrebbe dire, ma l’essenziale crediamo di averlo messo in luce,
sperando in un giudizio benevole da parte di chi legge queste note.