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venerdì 9 maggio 2014

Il labirinto della trattativa … parte giuridica



Se storicamente è impresa davvero difficile poter inquadrare gli eventi e i soggetti che si resero protagonisti ed effettori della trama complottista, ancora più ardua risulta l’impresa se assunta a partire dallo sguardo del giurista. Difatti, non esiste alcun reato che possa inquadrare in maniera netta eventuali responsabilità ambiguamente chiamate in causa dalla nozione stessa di “trattativa”.


Giovanni Fiandaca è netto nell’esprimere questa sua opinione di carattere generale, ma anche nel criticare l’atteggiamento complessivo della Procura palermitana nell’affidamento completo all’art. 338 c.p., capo d’accusa del medesimo procedimento.


Il giurista risulta molto interessato all’argomento in questione, ma individua subito un preciso limite all’interpretazione dei giuristi a tal proposito: «per punire un reato non basta disapprovarlo, ma occorre individuare una legge che lo configuri espressamente come reato» (p. 71).  Detto altrimenti, precisato che i giudici cercano di fare onestamente il loro lavoro, è comunque impresa farraginosa cercare di inquadrare gli eventi in questione all’interno di ben precisate ipotesi di reato, anche in considerazione della distanza temporale naturalmente intercorsa nel frattempo.  V’è poi insito, e concreto, il rischio che il magistrato travalichi in certo qual modo il suo stesso ruolo, andando a «dare voce all’indignazione collettiva e al diffuso bisogno di risarcimento morale provocati dagli eventi sfragistici del biennio ’92 – ‘93» (p. 71). Così, rendendosi interpreti di un diffuso sentimento popolare, non consolato per altra via, i magistrati che perseguono i turpi protagonisti della (presunta) trattativa tra mafia e Stato, essi finiscono con il fondere il procedimento inquisitivo, per sua natura intransigente, e l’umore popolare, per sua natura abbastanza schematico e sedotto dalla retorica massimalista, passando da funzionari, di quello stesso Stato che chiamano a processo, a tribuni del popolo.


Secondo Fiandaca, essendo tutti i magistrati della procura palermitana interessati al procedimento in questione di comune affiliazione antimafia, essi, cercando visibilità ed interpretando la propria funzione anche in chiave pedagogica, andando nelle scuole, nelle università, nelle piazze, ad incontrare la gente e a insegnare loro cosa sia il diritto, anche al fine di non rimanere “isolati” all’interno dei corpi statuali, anche come effetto dell’insegnamento di Falcone, corrono davvero il rischio di tramutarsi in meri esecutori della volontà popolare, sovrapponendo alla conoscenza giuridica dei fatti in questione una preventiva, e presuntiva, valutazione morale, popolare quanto preconcetta.


Che il rischio sia forte lo dimostra l’atteggiamento di varie componenti dell’anima popolare dell’antimafia la quale mette in campo «una accesa e fideistica tifoseria a sostegno dei magistrati dell’accusa» (p. 72), dimenticando che la normale cultura giuridica contempla anche l’istituto della difesa, per non parlare dell’intero processo penale, e che una giustizia delle emozioni è cosa ben distante dalla stessa giustizia che, a parole, viene invocata.


La magistratura non è solo inquirente, è anche giudicante, e per giudicare qualcuno colpevole di qualcosa lo si deve dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio. Cosa che, invece, la pubblica accusa nel caso delle trame inerenti alla trattativa non fa. Per Fiandaca è persino «fuorviante» (p. 73)denominare l’attuale procedimento penale in corso come «processo sulla trattativa».  Piuttosto, qualificare in termini giuridici l’insieme delle condotte messe in atto durante la trattativa in questione richiede uno sforzo cognitivo e metodologico superiore agli umori della piazza. Se la parola ‘trattativa’ risulta già di suo estremamente ambigua e poco chiara, lo è ancora di più in dottrina ove trattare rimanda ad una serie di operazioni preliminari al raggiungimento di un vero e proprio accordo. È, infatti, significativo che la vulgata mediatica parli di processo su una trattativa, equiparando indegno a reo, senza, però, specificare né i termini esatti dell’accorso né specificare se un accordo seguì davvero. In questo senso, l’azione dei magistrati configura piuttosto l’espressione di una congettura investigativa, la quale sarebbe precursore di eventuali e successive ipotesi di reato, che non un rigoroso onere probatorio a carico di terzi. Come a dire che non esiste nel nostro ordinamento il reato di ‘trattativa’. Anche perché risulta davvero difficile inquadrare le responsabilità personali dei singoli. Mentre risulta più facile, e schematico, addossare allo Stato la colpa di aver trattato, più difficile è stabilire chi nello Stato s’è reso responsabile personalmente della suddetta trattativa.


Ammesso e non concesso che qualche accenno di trattativa in quegli anni terribili vi fu, il livello di attività statuale messo in azione non sarebbe stato, giunge a chiedersi Fiandaca, lecito se finalizzato a un «obiettivo anti – stragistico» (p. 82)? Peraltro, le strane vicissitudini processuali del generale Mori mostrano una non uniformità di opinioni in seno alla procura di Palermo la quale, da ultimo, sembra orientata a considerare più verosimile l’ipotesi che obiettivo dei contatti informali con Ciancimino jr «non fosse di intavolare un vero e proprio negoziato con Cosa Nostra» (p. 83), ma «far apparire l’esistenza di un negoziato al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a Cosa Nostra» (p. 83), e questo anche «in vista della cattura dei boss ancora latitanti» (p. 83). Sembrerebbe, dunque, che l’operato degli organi inquirenti sia stato piuttosto quello di fare il doppio gioco che di cedere davvero ai desiderata di Cosa Nostra. Ma questo comportamento non integra in sé alcuna ipotesi di reato né tantomeno prefigura un illecito a carico di singoli. Allora, com’è possibile che venga istruito un processo penale sulla trattativa?



Per accertare l’esistenza di una reale accordo tra mafia e Stato, sarebbe bene che i magistrati dicessero anche quale sia stato, in tal caso, «l’insieme dei vantaggi ricevuti da Cosa Nostra» (p. 95). Infatti, grande assente in tutte le ricostruzioni, più o meno faziose, della tematica in questione, è l’aspetto relativo ai risultati tangibili della trattativa, ovvero l’oggetto ignobile del negoziato, il frutto proibito della commistione di mafia e Stato. La retorica pubblica, al riguardo, sostiene che i mafiosi ottennero un alleggerimento del trattamento penitenziale, circostanza vera solo in alcuni casi, ma del tutto falsa se si pone mente al generale inasprimento della legislazione criminale, mentre lo Stato ottenne una sospensione della strategia sfragistica. Tuttavia, Fiandaca ritiene come non sembrano «esservi ragioni oggettivamente forti per supporre che il ricorso a una strategia di tipo stragista fosse una condizione storicamente necessaria del passaggio dal vecchio sistema di potere incentrato sulla Dc al nuovo regime impersonato da Berlusconi» (p. 88). Solo nelle chiacchiere “da bar” o da quattro soldi si può cogliere tale nesso mentre in sedi istituzionali tale ragionamento non regge, nel senso che non si sostiene su solide ragioni.



L’intera ricostruzione inquirente «desta riserve» (p. 97). Non basta una generica, e preconcetta, cornice storica per inquadrare i comportamenti e individuare responsabilità così come ipotesi di reato a carico di terzi. Peraltro, data la situazione di estremo pericolo per l’incolumità dei cittadini, Fiandaca prospetta una situazione di extra legem in forza della quale, ammesso e non concesso, che quadri e settori dello Stato abbiamo cercato di dialogare con la mafia offrendo concessioni «in cambio della cessazione delle stragi» (p. 104), l’intera strategia come tutta l’iniziativa sarebbe legittima perché «giustificata […] dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini» (p. 104). In questo stato di cose, appare pertanto risibile la medesima ipotesi processuale, tanto più se si pone mente all’assenza nel nostro ordinamento giuridico del reato di trattativa.



Tuttavia, ne emerge abbastanza chiaramente una versione “forte” di legalità nel procedimento in corso ad opera dei magistrati palermitani e secondo la quale essa «non può che essere ritagliata sul modello di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente quella giudiziaria» (p. 109). Pertanto, qualsiasi iniziativa da parte di altri organi, ancorché statali, deve essere stigmatizzata come «interferenza illecita o inopportuna» (p. 109).



Il procedimento si basa sullart. 388 c.p., minaccia ad un corpo politico. Ma Fiandaca ravvisa tutte le difficoltà di una simile fonte dal momento che taluni soggetti avrebbero un doppio ruolo, di persecutori di sé stessi, e come risulti davvero difficile distinguere le responsabilità di singoli ufficiali appartenenti ad organi diversi dello Stato. Piuttosto, ravvisa ancora, sarebbe stato più saggio procedere ex art. 289, attentato contro organi costituzionali e contro assemblee regionali. Non basta trattare perché si verifichi la fattispecie prevista all’art. 388, «bisognerebbe provare che politici e ufficiali dei carabinieri avessero l’ulteriore volontà di supportare Cose Nostra anche nella realizzazione dei singoli attacchi criminali volti a imporre la trattativa» (p. 123).



Secondo Fiandaca, peraltro, le recenti vicissitudini politico – magistrali, hanno avuto come effetto l’«attivarsi di uno specifico circuito politico-mediatico-giudiziario interessato a strumentalizzare tutta la vicenda in vista di contingenti obiettivi politici più generali» (p. 126). Così facendo, però, la ricerca «della verità fattuale rischia di incamminarsi per scorciatoie che assumono impropriamente il sapere storico-sociologico […] a fonte di verità inoppugnabili, così trascurandosi che la stessa storia e la stessa sociologia […] sono ben lungi dal fornire conoscenze sicure e univoche» (p. 130).



Se desideriamo davvero fare chiarezza e cercare la verità di fatti comunque verificatisi molti anni fa e sui quali si è realizzato un proliferare di vari processi, con una loro storia ed una loro evoluzione, Fiandaca suggerisce la via della Commissione parlamentare. Tuttavia, al di là delle non rosee precedenti esperienza di tale strumento, «difficilmente dai suoi lavori potrebbero emergere novità tali da sconvolgere il senso complessivo delle considerazioni sin qui svolte» (p. 135).

(per la parte storica, qui il link al post apposito)



venerdì 2 maggio 2014

Il labirinto della trattativa … parte storica



(url immagine: http://www.laterza.it/immagini/copertine/9788858110461.jpg)

L’agile pamphlet di Salvatore Lupo ha un grande merito congiunto ad un pari grande difetto, smonta l’oppressiva retorica attuale della trattativa ma, contemporaneamente, non fornisce alcuna informazione su quest’ultima, su cosa sia davvero e quali ne siano le fonti.

Detto altrimenti, Lupo si concentra esclusivamente su una considerazione storica dell’argomento in questione, leggendolo non alla luce delle vicissitudini politiche della (mai nata) Seconda Repubblica, come al contrario fan (quasi) tutti, ma alla luce dei rapporti tradizionali tra mafia e Stato, così pure tra Stato e Istituzioni (dello Stesso).

Si comprende allora come mai poca simpatia incontri la tesi forte del presente scritto (di quale trattativa stiamo parlando se nessuna delle richieste mafiose è stata soddisfatta?) e come, al contrario, l’opinione pubblica senta il bisogno, quasi inconscio, ma di certo paranoico, di perpetuare il classico adagio secondo il quale la mafia ha vinto?

L’analisi compiuta da Lupo, con il suo procedere schietto e affabulatorio (ricordo ancora le sue lezioni alla SISS e i sonori mal di testa che mi provocavano) e con un gusto indescrivibile nello sciogliere il gioco linguistico delle retoriche pubbliche, mostra come, in netto contrasto con l’ingiustificata ed umorale sensazione da parte dell’opinione pubblica, la mafia sia stata in genere (almeno finora) incapace di «calcolare gli effetti» (p. 22) delle sue iniziative, ivi comprese naturalmente anche quelle stragiste, forse perché «in preda ad una sorta di coazione a ripetere che prevedeva un’unica tattica: colpire e poi colpire ancora» (p. 22). Questo già basta a sminuire l’impressione collettiva, ed angosciosa, di una mafia che agisce (e colpisce) con saggezza tattica, con consumata genialità militare. Così non è, così non è stato, e può esserlo solo se all’oggettività della conoscenza fattuale sostituiamo la soggettività, ed arbitrarietà, delle valutazioni morali. Chi fa ciò, non opera da storico, ma rende anche un cattivo lavoro alla conoscenza generale, dal momento che fa derivare la conoscenza storica da (pre)-valutazioni soggettive (del corso storico). Solo dopo aver conosciuto i fatti, è possibile condurre una loro valutazione etica. Nel caso, della lotta alla mafia, a cavallo degli anni ’90, le cose sono andate alla rovescia, prima la valutazione etica e solo dopo la conoscenza storica.

Lupo se la prende molto con questo arbitrario modo di procedere, che finisce con mistificare le cose, volutamente o colpevolmente.

Peraltro, è indicativo, ai suoi occhi, come la paternità di gran parte della retorica presente, inerente alla trattativa, sia da collocare non dalla parte della mafia, come pure sarebbe lecito attendersi, ma dalla parte della stessa antimafia, tra i vari attori delle medesima opera collettiva. Ciò suggerisce come, al contrario di quel che comunemente si crede, l’apparente farraginosità di suddetta lotta non vada ascritta all’esistenza di “patti scellerati” tra la mafia e lo Stato, ma alla competizione tra organi paralleli, ed indipendenti, del medesimo Stato. Ciò vale sia nel caso della mancata perquisizione dell’abitazione di Riina sia nel caso di clamorosi indagini a metà. È poi emblematico come la memoria di figure di primo piano nella lotta alla mafia si siano colorati a seconda di questa (ideologica) lettura della storia patria. Lo stesso Mori è assurto a simbolo negativo dei trattativisti. In realtà, a chi si presta a leggere in bona fide le carte dei suoi interrogatori, così come delle sue (auto-)difese, emerge un interesse ben diverso da quello a suo modo denunciato dai sostenitori del “grande complotto” (della trattativa tra mafia e Stato). Un corpo inquirente pensò piuttosto di lasciare «integri alcuni fili per ricollegarvi indagini future» (p. 35). Una strategia certo atipica, per non dire anche eterodossa, di modalità investigativa, ma molto utile, per non dire anche saggia.

Ma rientrava anche nella natura propria dei ROS, un corpo investigativo, inserito all’interno dell’Arma, e, dunque, Stato come tante altre sue parti, ma con una logica (di corpo) autonoma. Mori agiva da solo, come la sua  stessa passata esperienza gli consigliava: acquisire informazioni che potessero risultare utili. Probabilmente, con questo obiettivo, e senza che nulla faccia pensare a comandi “dall’alto” decise di intavolare colloqui con Ciancimino figlio. Né più né meno di quel che fanno gli agenti segreti, cercare di dialogare con il nemico, magari bluffando su quel che quest’ultimo potrebbe ottenere in cambio …

Ma qui veniamo, ora, alla parte più complessa, ed interessante, della questione, se non anche una delle principali fonti della tematica in questione. È Ciancimino jr a rivelare l’esistenza di una (passata) trattativa tra mafia e Stato la quale avrebbe portato all’estromissione della parte estremista di Cosa nostra (arresto di Riina) e al successo della parte moderata (Provenzano). La stessa sentenza del ’98, che giudicava la stagione fiorentina delle bombe del ’93, faceva accenno a questa (presunta) trattativa. La cosa strana è che il famoso papello non fa altro che ripresentare le rivendicazioni storiche della mafia, nulla di nuovo, eccezion fatta per l’ultimo comma (abolizione in Sicilia delle tasse sui carburanti) che appare più «un goffo tentativo dell’estensore di confondere le acque sfruttando la popolarità di uno slogan» (pp. 53 – 4). Peraltro, appare strano che Ciancimino jr. presentasse la sua parte come moderata visto che Ciancimino sr. «non era moderato» (p. 38). Allora, queste evidenti contraddizioni come si superano? A me pare semplice, Ciancimino non ha alcuna attendibilità, nemmeno in qualità di fonte inconsapevole. Quel che porta a prova della fu trattativa è solo fumo negli occhi, mera e classicissima opera mafiosa di mistificazione della realtà, oltre che della nostra storia recente.

Inoltre, appare strano come la medesima retorica della trattativa non colga un aspetto importante: se in suddetta trattativa lo Stato ha ceduto, e la mafia ha vinto, cosa o come si sarebbe realizzata siffatta resa? Detto altrimenti, cui prodest? Se due attori intavolano una trattativa, qualcosa si dovrebbe reciprocamente ottenere. Ecco il problema, relativo alla verifica empirica del teorema del “grande complotto” qui presente: cosa ha guadagnato la mafia? E, per conversa, cosa avrebbe guadagnato lo Stato? I sostenitori, o anche solo semplici simpatizzanti, del MoVimento della trattativa non lo dicono. Mi chiedo: potrebbero forse dirlo? La risposta è chiara quanto netta: no. Perché una teoria di questo genere non ha molta attinenza con la realtà. Dico: è fatta e si sostanzia di nozioni etiche, come potrebbe riscontrarne le movenze nel tessuto materiale degli eventi? Non può! È come nel caso dei teoremi della geometria: si tratta di tautologie, ovvero di proposizioni sempre vere, ma che poco o nulla hanno a che fare con la geometria fisica della natura. Ovviamente, non intendo mica mischiare troppo le carte, ma solo precisare che ad un articolo di fede non viene richiesta prova o dimostrazione. Ebbene, la retorica della trattativa appare appunto un dogma che non mostra il divenire concreto delle cose e che non necessita nemmeno di dimostrazione.

Dunque, la trattativa vi fu, a prescindere dall’oggetto reale del contendere e degli effetti della stessa.

Ma torniamo adesso allo Stato, attualmente tanto in crisi di legittimazione popolare quanto in crisi di governante. Lo Stato moderno è, sotto ogni punto di vista, un sistema complesso, con tanti corpi interni, autonomi e sovente in competizione tra loro. La polemica giudiziaria ne è un elemento caratteristico e che «rischia di far risultare fuorviante l’idea della trattativa tra lo Stato e la mafia» (p. 45). Infatti, cosa dovremmo pensare di un organo dello Stato, la magistratura inquirente, che ne accusa un altro, il Governo? La fortuna di Ingroia poggia su questo triste ed angosciante conflitto tra organi in concorrenza del medesimo Stato. Conflitti già noti nel passato storico e che «non possono essere sciolti dal plauso o dal dissenso popolare» (p. 45). Una condizione che amaramente Lupo stesso estende all’organizzazione antimafia Agende rosse.

E qui s’appunta il procedimento prima ravvisato di costruzione ideologica del passato storico per previo investimento assiologico. Infatti, «gli inquirenti pensano i governi del ’92 – ’93 come un campo aperto per pressioni illecite, indicando le loro decisioni come legittime se (con Scotti e Martelli) mostrarono inflessibilità, illegittime quando (con Mancino e Conso) mostrarono flessibilità» (p. 48), prestando il fianco alla coscienza popolare che “legge” tali decisioni come il frutto dell’illecita trattativa di cui sopra. Ma ciò contraddice con le evidenze storiche del caso. In realtà, ad esempio, Martelli lasciò il Ministero solo perché travolto dal medesimo scandalo che travolse il PSI (e con esso Craxi e il suo stesso sistema di potere). Mentre Conso agì «nell’ambito delle sue competenze, scegliendo tra due alternative per cui militavano buoni argomenti, facendo valere un criterio di opportunità politica» (p. 49). E Scalfaro, in vario modo, tirato in ballo, difficilmente, per la sua stessa storia personale, oltre che per il contegno massimo assunto durante e dopo il settenato, è difficile «immaginarlo nella veste del favoreggiatore (consapevole e astuto? Inconsapevole e stupido?) di Cosa Nostra.

Resta il dubbio di fondo: cosa ci guadagnò la mafia? E, ancor più importante, cosa si guadagnò lo Stato?

Secondo Lupo, piuttosto, va colto il nesso ineludibile tra la retorica presente e la storia recente, come l’azione costante del filtro della trattativa nell’interpretazione dei fatti inerenti alla Seconda Repubblica. La scomparsa della DC, assieme al tramonto di una sostanziale impunità per i mafiosi, avrebbe portato al riflusso di voti verso la neonata FI, ma non come esito, o effetto, della presunta trattativa. Al contrario, a creare lo stesso «non furono le lobby mafiose sotto attacco» (p. 57), ma «la convinzione diffusa all’interno di Cosa Nostra» (p. 58) secondo la quale il nuovo attore politico fosse nelle loro mani, fosse cioè cosa loro, e che, di conseguenza, avrebbe realizzato i loro desideri, gli stessi presenti nel famoso papello. Le cose, però, non sono andate come si auguravano, come speravano. Allora, che ne sarebbe stata della trattativa medesima?

Lupo è netto quanto asciutto nelle sue lucide conclusioni: i due Ciancimino sono «due ottimi rappresentanti di una lobby mafiosa che tenta di salvarsi rinnegando la propria appartenenza, sebbene con incerto successo» (p. 59). Quindi, manco è detto che Ciancimino trattò con lo Stato in favore della mafia (quale? Moderata? Intransigente? Rurale? Moderna? Radicale?) e nulla garantisce che avesse il mandato per farlo. Lo stesso problema si presenta nello schieramento opposto: chi inviò Mori et alii? E con quale mandato?

In realtà, la genesi del fenomeno della trattativa va vista nel tam-tam mediatico che mal comprende la storica natura dei rapporti, e favori reciproci, tra politica locale, siciliana, e gruppi territoriali di potere, e di voto, a vario titolo e in vario modo affiliati a quella o questa cosca. Non si comprende all’esterno la natura di questo rapporto, eminentemente di gestione del potere, qualunque esso sia. Per cui, i boss devono rendere conto alla base e davanti ai mancati successi a fronte dei successi dello Stato, non possono che mercanteggiare il loro stesso potere, asserendo «ai gregari che la trattativa c’è stata, solo che purtroppo qualcuno si è rimangiato la parola, perché non tutti sono corretti come loro» (p. 60). La lotta alla mafia è così diventata, e tristemente, merce di scambio, e paradossalmente per la mafia stessa.

Però, da comunicazione interna alla logica delle cosche, la malnata idea della trattativa è passata alla vulgata mediatica, travisata e mal compresa ed atta a far credere, erroneamente, che l’intera storia recente, degli ultimi vent’anni sia stata frutto di un patto scellerato tra i boss e parti proditorie dello Stato. È, però, anche uno strumento potente per operare un (altrimenti improbabile) recupero di verginità tanto per i boss, traditi dallo Stato, quanto per la società civile, che non riesce ad aver fiducia o a riconoscersi nello Stato.

Così, nello stesso periodo non ci sono più state uccisioni eccellenti né stragi dinamitarde e ciò è stato interpretato, oltre che spacciato pubblicamente, come un raggiunto nuovo equilibrio, o compromesso, tra mafia e Stato. Ma per far ciò, si dimentica però che la mafia non è oggi affatto nel massimo dello splendore. Anzi! E questo a differenza di ulteriori realtà criminali. 


Tuttavia, una mafia disarticolata e in sofferenza, lascia un territorio «pesantemente inquinato» (p. 64). Certo l’attesa messianica del ’92 è stata sostanzialmente tradita, il ventennio della Seconda Repubblica «non ha comportato alcuna palingenesi» (p. 65), ma è avvertibile un distinto «spirito negazionista» (p. 65), interno alla stessa antimafia, e che si lega a due opposti versanti, quello istituzionale e quello di opinione. Il primo è ligio alle medesima logiche di potere e di contesa interna all’organo istituzionale, il secondo è mosso dal vento.

Per dirla altrimenti, «una parte di Italia ha quasi bisogno di convincersi che nel passaggio cruciale del ’92 – ’93 ci siano state non solo trattative tra apparati di sicurezza, gruppi politici, fazioni o esponenti mafiosi, ma ci sia stata la Trattativa tra Stato e mafia, in forza della quale il primo ha salvato la seconda» (p. 66).


Per concludere, se non può davvero dirsi che vi fu, qual è il fine realistico della medesima retorica? Forse, inverare il classico adagio siculo secondo il quale la mafia è invincibile?

(per la parte giuridica, qui il link apposito)

domenica 2 marzo 2014

La mafia (non) ha vinto ...

Da leggere, ed eventualmente, controbattere ...


(tratto da: http://www.laterza.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1338&Itemid=101)

La trattativa fu legittima? 
La sorprendente tesi giuridica e storica 
di Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo

La mafia non ha vinto
Un libro destinato a far discutere quello di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca. La mafia non ha vinto contiene infatti una sorprendente critica del processo sulla trattativa stato-mafia, sostenendo che si tratti di un processo ‘illegittimo’, che la trattativa fu invece ‘legittima’ e che servì a salvare la vita dei cittadini italiani, oltre a quella di alcuni esponenti politici.
Nell'esporre questa tesi, lo storico e il giurista ricostruiscono i fatti di quei convulsi primi anni novanta, spiegando come la mafia si fosse pericolosamente avviata su una china 'terroristica' e che la tattica stragista (in cui si iscrivono l'omicidio Lima, le stragi di Capaci e di Via d'Amelio), se non fosse stata fermata, avrebbe portato ad uno spargimento di sangue inarrestabile. 
In quel periodo lo stato, secondo gli autori, non aveva altra scelta se non quella di 'trattare', se così si può chiamare lo scambio intrattenuto con i mafiosi, le cui prove per ora si limitano a quelle 334 revoche del 41bis. Si può quindi, scrivono Lupo e Fiandaca, fare appello ad uno «stato di necessità» che giustifichi una trattativa fatta per il bene dei cittadini e che, in ogni caso, non costituisce un 'reato' secondo la legge. 
È sui capi d'accusa (violenza o minaccia a un corpo politico) del processo sulla trattativa che si concentra Fiandaca, il quale li definisce un «espediente giuridico» con l'obiettivo di «colorare indirettamente di criminosità la stessa trattativa». Sarebbero quindi i pm palermitani a capo del processo ad essere tacciabili di un «pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore» e di un erronea convinzione che la mafia vinca sempre ed abbia vinto anche stavolta, nonostante l'incarcerazione di Riina e la fine delle stragi- una convinzione contraria alla loro opinione ma che gli autori sono pronti a scommettere, continuerà a prevalere ancora a lungo. 


Il paradigma dello «stato di necessità» è legittimamente applicabile anche in situazioni siffatte e il ricorso ad esso è idoneo a giustificare eventuali interventi o decisioni extra legem dello stesso potere esecutivo; ma, beninteso, ad una condizione: cioè che i bilanciamenti e le scelte di valore sottostanti a tali interventi o decisioni si uniformino, comunque, al criterio della salvaguardia del bene di rango prevalente. In questi termini e limiti, l’eventuale scelta politico-governativa di fare ‘concessioni’ ai mafiosi, in cambio della cessazione delle stragi, risulterebbe legittima perché giustificata – appunto – dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini: scegliendo, sotto la loro responsabilità politico-istituzionale, i mezzi in concreto di volta in volta più adeguati a questo scopo.

Ed è, forse, superfluo precisare che parlare di stato di necessità nel senso qui proposto non equivale per nulla a evocare la obsoleta categoria della «ragion di Stato»: nel nostro caso, eventuali deroghe alla legalità formale, decise a livello governativo, avrebbero infatti come motivazione non già la tutela di interessi statali da mantenere segreti in obbedienza a una logica di potere (o di potenza), secondo la tradizione degli arcana imperii; bensì il perseguimento di un fine salvifico secondo la prospettiva tipica di un istituto come lo stato di necessità, che considera per l’appunto comunque non punibili le azioni proporzionalmente finalizzate a contrastare il pericolo incombente di danni gravi alle persone in carne ed ossa.
Si ha l’impressione che un pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore, motivato da una sorta di incondizionata avversione morale nei confronti di ogni ipotesi di calcolo costi-benefici, abbia invece precluso ai pm palermitani di lumeggiare adeguatamente la dimensione prospettica della divisione dei poteri, con le implicazioni che ne derivano rispetto agli spazi di liceità giuridica (il giudizio etico-politico è altra cosa) da riconoscere ad eventuali scelte politiche lato sensu trattativiste.
[...]
Ma ipotizziamo pure che il presidente Scalfaro, nel perseguire per i motivi già detti un ammorbidimento del 41 bis, fosse stato davvero al centro di un informale circuito costituito a vario titolo da Conso, Capriotti, Di Maggio, Parisi, lo stesso Mori, ecc. – soggetti tutti favorevoli a dare segnali di distensione allo scopo di arrestare l’escalation stragistica. Ebbene, anche se così fossero andate le cose, il giudizio sulla liceità dell’operazione rimarrebbe immutato: se una decisione è infine presa da un ministro competente, essa è penalmente insindacabile perché rientra – come in questo caso – in uno spazio di discrezionalità politica. L’assumerla in piena solitudine, o sulla base di un informale concerto con altri esponenti delle istituzioni, non cambia molto: la decisione rimane giuridicamente legittima in entrambi i casi. Altra cosa sono le valutazioni politiche o di opportunità.
Se si riconsidera a questo punto l’orientamento di fondo privilegiato anche implicitamente dai pubblici ministeri – che li porta a guardare con sospettosa diffidenza ad ogni iniziativa extragiudiziaria tendente allo scopo di bloccare le stragi, e ciò pure a costo di rimuovere il principio della divisione dei poteri –, l’impressione che in definitiva si trae è questa: per la magistratura inquirente la vera legalità o legittimità non può che essere ritagliata sul modello di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente quella giudiziaria; per cui è da stigmatizzare come interferenza illecita o inopportuna ogni intervento autonomo di altri poteri istituzionali. (Giovanni Fiandaca)


Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo, La mafia non ha vinto

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Giovanni Fiandaca insegna Diritto penale, di cui è uno dei maggiori studiosi, presso l'Università di Palermo. Autore di un noto manuale di diritto penale edito da Zanichelli, per i nostri tipi ha curato La mafia, le mafie. Tra vecchi e nuovi paradigmi (con S. Constantino, 1994).
Salvatore Lupo è professore di Storia contemporanea presso l'Università di Palermo. Autore di numerosi studi sulla storia della società meridionale tra Otto e Novecento, per i nostri tipi ha pubblicato Potere criminale. Intervista sulla storia della mafia (a cura di G. Savatteri, 2010).