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venerdì 2 maggio 2014

Il labirinto della trattativa … parte storica



(url immagine: http://www.laterza.it/immagini/copertine/9788858110461.jpg)

L’agile pamphlet di Salvatore Lupo ha un grande merito congiunto ad un pari grande difetto, smonta l’oppressiva retorica attuale della trattativa ma, contemporaneamente, non fornisce alcuna informazione su quest’ultima, su cosa sia davvero e quali ne siano le fonti.

Detto altrimenti, Lupo si concentra esclusivamente su una considerazione storica dell’argomento in questione, leggendolo non alla luce delle vicissitudini politiche della (mai nata) Seconda Repubblica, come al contrario fan (quasi) tutti, ma alla luce dei rapporti tradizionali tra mafia e Stato, così pure tra Stato e Istituzioni (dello Stesso).

Si comprende allora come mai poca simpatia incontri la tesi forte del presente scritto (di quale trattativa stiamo parlando se nessuna delle richieste mafiose è stata soddisfatta?) e come, al contrario, l’opinione pubblica senta il bisogno, quasi inconscio, ma di certo paranoico, di perpetuare il classico adagio secondo il quale la mafia ha vinto?

L’analisi compiuta da Lupo, con il suo procedere schietto e affabulatorio (ricordo ancora le sue lezioni alla SISS e i sonori mal di testa che mi provocavano) e con un gusto indescrivibile nello sciogliere il gioco linguistico delle retoriche pubbliche, mostra come, in netto contrasto con l’ingiustificata ed umorale sensazione da parte dell’opinione pubblica, la mafia sia stata in genere (almeno finora) incapace di «calcolare gli effetti» (p. 22) delle sue iniziative, ivi comprese naturalmente anche quelle stragiste, forse perché «in preda ad una sorta di coazione a ripetere che prevedeva un’unica tattica: colpire e poi colpire ancora» (p. 22). Questo già basta a sminuire l’impressione collettiva, ed angosciosa, di una mafia che agisce (e colpisce) con saggezza tattica, con consumata genialità militare. Così non è, così non è stato, e può esserlo solo se all’oggettività della conoscenza fattuale sostituiamo la soggettività, ed arbitrarietà, delle valutazioni morali. Chi fa ciò, non opera da storico, ma rende anche un cattivo lavoro alla conoscenza generale, dal momento che fa derivare la conoscenza storica da (pre)-valutazioni soggettive (del corso storico). Solo dopo aver conosciuto i fatti, è possibile condurre una loro valutazione etica. Nel caso, della lotta alla mafia, a cavallo degli anni ’90, le cose sono andate alla rovescia, prima la valutazione etica e solo dopo la conoscenza storica.

Lupo se la prende molto con questo arbitrario modo di procedere, che finisce con mistificare le cose, volutamente o colpevolmente.

Peraltro, è indicativo, ai suoi occhi, come la paternità di gran parte della retorica presente, inerente alla trattativa, sia da collocare non dalla parte della mafia, come pure sarebbe lecito attendersi, ma dalla parte della stessa antimafia, tra i vari attori delle medesima opera collettiva. Ciò suggerisce come, al contrario di quel che comunemente si crede, l’apparente farraginosità di suddetta lotta non vada ascritta all’esistenza di “patti scellerati” tra la mafia e lo Stato, ma alla competizione tra organi paralleli, ed indipendenti, del medesimo Stato. Ciò vale sia nel caso della mancata perquisizione dell’abitazione di Riina sia nel caso di clamorosi indagini a metà. È poi emblematico come la memoria di figure di primo piano nella lotta alla mafia si siano colorati a seconda di questa (ideologica) lettura della storia patria. Lo stesso Mori è assurto a simbolo negativo dei trattativisti. In realtà, a chi si presta a leggere in bona fide le carte dei suoi interrogatori, così come delle sue (auto-)difese, emerge un interesse ben diverso da quello a suo modo denunciato dai sostenitori del “grande complotto” (della trattativa tra mafia e Stato). Un corpo inquirente pensò piuttosto di lasciare «integri alcuni fili per ricollegarvi indagini future» (p. 35). Una strategia certo atipica, per non dire anche eterodossa, di modalità investigativa, ma molto utile, per non dire anche saggia.

Ma rientrava anche nella natura propria dei ROS, un corpo investigativo, inserito all’interno dell’Arma, e, dunque, Stato come tante altre sue parti, ma con una logica (di corpo) autonoma. Mori agiva da solo, come la sua  stessa passata esperienza gli consigliava: acquisire informazioni che potessero risultare utili. Probabilmente, con questo obiettivo, e senza che nulla faccia pensare a comandi “dall’alto” decise di intavolare colloqui con Ciancimino figlio. Né più né meno di quel che fanno gli agenti segreti, cercare di dialogare con il nemico, magari bluffando su quel che quest’ultimo potrebbe ottenere in cambio …

Ma qui veniamo, ora, alla parte più complessa, ed interessante, della questione, se non anche una delle principali fonti della tematica in questione. È Ciancimino jr a rivelare l’esistenza di una (passata) trattativa tra mafia e Stato la quale avrebbe portato all’estromissione della parte estremista di Cosa nostra (arresto di Riina) e al successo della parte moderata (Provenzano). La stessa sentenza del ’98, che giudicava la stagione fiorentina delle bombe del ’93, faceva accenno a questa (presunta) trattativa. La cosa strana è che il famoso papello non fa altro che ripresentare le rivendicazioni storiche della mafia, nulla di nuovo, eccezion fatta per l’ultimo comma (abolizione in Sicilia delle tasse sui carburanti) che appare più «un goffo tentativo dell’estensore di confondere le acque sfruttando la popolarità di uno slogan» (pp. 53 – 4). Peraltro, appare strano che Ciancimino jr. presentasse la sua parte come moderata visto che Ciancimino sr. «non era moderato» (p. 38). Allora, queste evidenti contraddizioni come si superano? A me pare semplice, Ciancimino non ha alcuna attendibilità, nemmeno in qualità di fonte inconsapevole. Quel che porta a prova della fu trattativa è solo fumo negli occhi, mera e classicissima opera mafiosa di mistificazione della realtà, oltre che della nostra storia recente.

Inoltre, appare strano come la medesima retorica della trattativa non colga un aspetto importante: se in suddetta trattativa lo Stato ha ceduto, e la mafia ha vinto, cosa o come si sarebbe realizzata siffatta resa? Detto altrimenti, cui prodest? Se due attori intavolano una trattativa, qualcosa si dovrebbe reciprocamente ottenere. Ecco il problema, relativo alla verifica empirica del teorema del “grande complotto” qui presente: cosa ha guadagnato la mafia? E, per conversa, cosa avrebbe guadagnato lo Stato? I sostenitori, o anche solo semplici simpatizzanti, del MoVimento della trattativa non lo dicono. Mi chiedo: potrebbero forse dirlo? La risposta è chiara quanto netta: no. Perché una teoria di questo genere non ha molta attinenza con la realtà. Dico: è fatta e si sostanzia di nozioni etiche, come potrebbe riscontrarne le movenze nel tessuto materiale degli eventi? Non può! È come nel caso dei teoremi della geometria: si tratta di tautologie, ovvero di proposizioni sempre vere, ma che poco o nulla hanno a che fare con la geometria fisica della natura. Ovviamente, non intendo mica mischiare troppo le carte, ma solo precisare che ad un articolo di fede non viene richiesta prova o dimostrazione. Ebbene, la retorica della trattativa appare appunto un dogma che non mostra il divenire concreto delle cose e che non necessita nemmeno di dimostrazione.

Dunque, la trattativa vi fu, a prescindere dall’oggetto reale del contendere e degli effetti della stessa.

Ma torniamo adesso allo Stato, attualmente tanto in crisi di legittimazione popolare quanto in crisi di governante. Lo Stato moderno è, sotto ogni punto di vista, un sistema complesso, con tanti corpi interni, autonomi e sovente in competizione tra loro. La polemica giudiziaria ne è un elemento caratteristico e che «rischia di far risultare fuorviante l’idea della trattativa tra lo Stato e la mafia» (p. 45). Infatti, cosa dovremmo pensare di un organo dello Stato, la magistratura inquirente, che ne accusa un altro, il Governo? La fortuna di Ingroia poggia su questo triste ed angosciante conflitto tra organi in concorrenza del medesimo Stato. Conflitti già noti nel passato storico e che «non possono essere sciolti dal plauso o dal dissenso popolare» (p. 45). Una condizione che amaramente Lupo stesso estende all’organizzazione antimafia Agende rosse.

E qui s’appunta il procedimento prima ravvisato di costruzione ideologica del passato storico per previo investimento assiologico. Infatti, «gli inquirenti pensano i governi del ’92 – ’93 come un campo aperto per pressioni illecite, indicando le loro decisioni come legittime se (con Scotti e Martelli) mostrarono inflessibilità, illegittime quando (con Mancino e Conso) mostrarono flessibilità» (p. 48), prestando il fianco alla coscienza popolare che “legge” tali decisioni come il frutto dell’illecita trattativa di cui sopra. Ma ciò contraddice con le evidenze storiche del caso. In realtà, ad esempio, Martelli lasciò il Ministero solo perché travolto dal medesimo scandalo che travolse il PSI (e con esso Craxi e il suo stesso sistema di potere). Mentre Conso agì «nell’ambito delle sue competenze, scegliendo tra due alternative per cui militavano buoni argomenti, facendo valere un criterio di opportunità politica» (p. 49). E Scalfaro, in vario modo, tirato in ballo, difficilmente, per la sua stessa storia personale, oltre che per il contegno massimo assunto durante e dopo il settenato, è difficile «immaginarlo nella veste del favoreggiatore (consapevole e astuto? Inconsapevole e stupido?) di Cosa Nostra.

Resta il dubbio di fondo: cosa ci guadagnò la mafia? E, ancor più importante, cosa si guadagnò lo Stato?

Secondo Lupo, piuttosto, va colto il nesso ineludibile tra la retorica presente e la storia recente, come l’azione costante del filtro della trattativa nell’interpretazione dei fatti inerenti alla Seconda Repubblica. La scomparsa della DC, assieme al tramonto di una sostanziale impunità per i mafiosi, avrebbe portato al riflusso di voti verso la neonata FI, ma non come esito, o effetto, della presunta trattativa. Al contrario, a creare lo stesso «non furono le lobby mafiose sotto attacco» (p. 57), ma «la convinzione diffusa all’interno di Cosa Nostra» (p. 58) secondo la quale il nuovo attore politico fosse nelle loro mani, fosse cioè cosa loro, e che, di conseguenza, avrebbe realizzato i loro desideri, gli stessi presenti nel famoso papello. Le cose, però, non sono andate come si auguravano, come speravano. Allora, che ne sarebbe stata della trattativa medesima?

Lupo è netto quanto asciutto nelle sue lucide conclusioni: i due Ciancimino sono «due ottimi rappresentanti di una lobby mafiosa che tenta di salvarsi rinnegando la propria appartenenza, sebbene con incerto successo» (p. 59). Quindi, manco è detto che Ciancimino trattò con lo Stato in favore della mafia (quale? Moderata? Intransigente? Rurale? Moderna? Radicale?) e nulla garantisce che avesse il mandato per farlo. Lo stesso problema si presenta nello schieramento opposto: chi inviò Mori et alii? E con quale mandato?

In realtà, la genesi del fenomeno della trattativa va vista nel tam-tam mediatico che mal comprende la storica natura dei rapporti, e favori reciproci, tra politica locale, siciliana, e gruppi territoriali di potere, e di voto, a vario titolo e in vario modo affiliati a quella o questa cosca. Non si comprende all’esterno la natura di questo rapporto, eminentemente di gestione del potere, qualunque esso sia. Per cui, i boss devono rendere conto alla base e davanti ai mancati successi a fronte dei successi dello Stato, non possono che mercanteggiare il loro stesso potere, asserendo «ai gregari che la trattativa c’è stata, solo che purtroppo qualcuno si è rimangiato la parola, perché non tutti sono corretti come loro» (p. 60). La lotta alla mafia è così diventata, e tristemente, merce di scambio, e paradossalmente per la mafia stessa.

Però, da comunicazione interna alla logica delle cosche, la malnata idea della trattativa è passata alla vulgata mediatica, travisata e mal compresa ed atta a far credere, erroneamente, che l’intera storia recente, degli ultimi vent’anni sia stata frutto di un patto scellerato tra i boss e parti proditorie dello Stato. È, però, anche uno strumento potente per operare un (altrimenti improbabile) recupero di verginità tanto per i boss, traditi dallo Stato, quanto per la società civile, che non riesce ad aver fiducia o a riconoscersi nello Stato.

Così, nello stesso periodo non ci sono più state uccisioni eccellenti né stragi dinamitarde e ciò è stato interpretato, oltre che spacciato pubblicamente, come un raggiunto nuovo equilibrio, o compromesso, tra mafia e Stato. Ma per far ciò, si dimentica però che la mafia non è oggi affatto nel massimo dello splendore. Anzi! E questo a differenza di ulteriori realtà criminali. 


Tuttavia, una mafia disarticolata e in sofferenza, lascia un territorio «pesantemente inquinato» (p. 64). Certo l’attesa messianica del ’92 è stata sostanzialmente tradita, il ventennio della Seconda Repubblica «non ha comportato alcuna palingenesi» (p. 65), ma è avvertibile un distinto «spirito negazionista» (p. 65), interno alla stessa antimafia, e che si lega a due opposti versanti, quello istituzionale e quello di opinione. Il primo è ligio alle medesima logiche di potere e di contesa interna all’organo istituzionale, il secondo è mosso dal vento.

Per dirla altrimenti, «una parte di Italia ha quasi bisogno di convincersi che nel passaggio cruciale del ’92 – ’93 ci siano state non solo trattative tra apparati di sicurezza, gruppi politici, fazioni o esponenti mafiosi, ma ci sia stata la Trattativa tra Stato e mafia, in forza della quale il primo ha salvato la seconda» (p. 66).


Per concludere, se non può davvero dirsi che vi fu, qual è il fine realistico della medesima retorica? Forse, inverare il classico adagio siculo secondo il quale la mafia è invincibile?

(per la parte giuridica, qui il link apposito)

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