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giovedì 6 settembre 2012

Filosofia e disabilità: spunti per una riflessione sull’umanità


(quanto segue ha costituito il nucleo centrale di un lavoro analogo risalente a qualche anno fa e mai pubblicato su QdB)


  1. Introduzione.
Cerchi lo sguardo di chi sta di fronte a te, e non lo trovi. Cerchi di comunicare con lui, ma non parla. Allora, cerchi di fare qualcosa che possa essere di gradimento ad entrambi, ma non ci riesci, non trovi nulla che faccia al caso. Poi ti fermi a riflettere per un attimo e fai forse la più grande scoperta della tua vita: sino a poco tempo prima credevi che ce l’avresti fatta, che saresti riuscito, e invece ti scopri incapace. Sembra che sia proprio questo il punto: con orrore, ti accorgi di una limitazione, ti accorgi con vergogna che la tua esistenza di persona capace è soltanto una finzione, che tu e chi ti sta di fronte, probabilmente con malavoglia, avete in comune molto più di quanto tu possa anche soltanto immaginare. Quando finalmente riesci ad incrociare il suo sguardo, ti perdi, ti senti perso, anneghi in quegli occhi ma non vedi te stesso, vedi un altro. Ne ricavi una disagevole sensazione di straniamento, ti senti a disagio, scopri che la tua efficienza è tale solo in apparenza e che la vita umana è molto più varia di quanto potevi anche solo pensare qualche tempo prima. Adesso che fai? Fuggi? Fai finta di niente? Cerchi di eliminare chi standoti di fronte ti sfida, pone in questione le tue sicurezze? Oppure ti poni un problema di non poco conto in merito al posto che occupano nell’esistenza quelli come lui? Che, poi, è come dire quale posto occupi ciascun essere umano. Solo adesso assumono senso quelle parole che avevi letto anni prima:

Se un bambino disabile viene immesso inaspettatamente in un gruppo di bambini, tutti lo guarderanno dapprima con curiosità o stupore o sgomento, secondo l’inesorabilità dei punti di vista. Gli unici che conserveranno un’attenzione concentrata, una partecipazione ambigua e un occhio torbido saranno quelli che cercano in lui uno specchio. Alcuni, avvinti quanto sopraffatti dalla paura di riconoscersi, reagiranno addirittura con la fuga o l’aggressività. Ma tornare è il loro destino vischioso, la loro sconfitta rassicurante[1]

Ecco la sfida posta in essere all’umanità dalla disabilità: fare i conti sino in fondo con la diversità, con l’alterità.


Specchiarsi negli occhi dei disabili, infatti, vuol dire fare esperienza della diversità. Vuol dire immaginare anche solo per un attimo come sarebbero potute andare le cose. Vuol dire cogliere intuitivamente quanto vi sia di bello e di beffardo nel mistero della vita.
In ogni caso, è come nascere una seconda volta.


2. La disabilità.


Intento del presente scritto è esplorare i confini dell’umano, riflettendo sul legame che vi è tra la concezione antropologica dei disabili, la tutela dei loro diritti e, infine, last but not least, giustificazione religiosa del loro essere al mondo.


Per prima cosa occorre definire cosa sia la disabilità, e , successivamente, stabilire “chi” sia disabile, in modo tale da prendere in considerazione tutti i suoi possibili effetti.


Si pone, pertanto, quasi spontaneamente, la questione di fondo: che cos’è la disabilità? Urge darne una definizione il più accurata possibile. Solo che, per poter parlare di qualcosa, però, è bene cominciare dall’esperienza comune. Così, quando si pronuncia la parola «disabili», più o meno, si possiede già una certa nozione in mente, e si associa tale parola, generalmente, a persone con limitata autonomia personale, con carenze cognitive, comunicative, etc. Dunque, in prima approssimazione, sembra di doversi intendere la «disabilità» come quella condizione, temporanea o definitiva, di limitate potenzialità e/o abilità. In merito, la nostra immaginazione può sbizzarrirsi, passando dai vegetativi in un letto d’ospedale ai «deficienti» che talvolta in colonna, e in abiti per nulla calzanti, attraversano le strade. Questa, ovviamente, l’impressione iniziale, quella attestata dal senso comune, buono sovente, ma non nel caso presente.


Invece, la gamma delle disabilità, specie quelle che interessano la sfera cognitiva, possono trovare una definizione rigorosamente diagnostica nel DSM-IV, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, il manuale diagnostico dei disordini mentali, codificato dalla North American Association of Psichiatry. In esso, ci si basa su una nozione comunemente accettata di sviluppo fisiologico delle competenze cognitive, per descrivere l’insieme dei possibili disturbi mentali, i quali, infatti, vengono qualificati, per l’appunto, nei termini di «disordini», ossia degli esiti patologici nell’evoluzione mentale dei soggetti. Globalmente, muovendosi all’interno di una prospettiva di natura medica, la disabilità è il risultato di deviazioni patologiche dal normale sviluppo del soggetto.


Tuttavia, per quanto utile, e certamente interessante sotto molteplici punti di vista, tale approccio non appare adeguato a render conto del fenomeno della disabilità, il quale mostra diverse sfaccettature. Inoltre, è concreto il rischio di ascriverlo ad un errato sviluppo cognitivo, il che non è del tutto corretto, oppure non esaurisce la questione. Infatti, sulla disabilità cognitiva possono incidere: (1) fattori ambientali; (2) fattori genetici; (3) fattori neonatali[2]. In effetti, sul normale sviluppo delle facoltà mentali incidono rischi ambientali inerenti alla produzione di possibili danni permanenti o ad un’errata alimentazione oppure ancora l’esposizione ad agenti velenosi. Nella stessa misura possono concorrere delezioni genetiche, apportatrici di danni cromosomici permanenti tali da impedire un normale sviluppo del soggetto. Ancora, una gravidanza portata avanti nel miglior modo possibile non è esente dal rischio di complicazioni poco prima, e durante, il parto, e tali da porre in serio rischio lo sviluppo fisiologico successivo delle competenze cognitive del nato. A tutto ciò, in qualche misura, decisamente collegato alla nascita dei soggetti, si dovrebbe aggiungere la possibilità di diventare disabili in un momento qualsiasi della propria esistenza. Circostanza questa che non può essere presa in considerazione da un manuale che fa proprio un approccio “medico” alle disabilità. Per intenderci, vero è che le conseguenze di determinate malattie mentali possono generare situazioni di, per così dire, limitazioni temporanee o definitive delle proprie facoltà mentali, ma la disabilità è un’altra cosa.


A questo punto, allora, si deve aggiungere che il manuale diagnostico in oggetto venne codificato nel 1952 come risposta all’International Statistical Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, presentato nel 1948 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization), e giunto sino alla decima versione. Esso non è altro che una classificazione dei principali disturbi che possono qualificarsi come nocumento al normale sviluppo della persona umana. In genere, la classificazione si basa sull’eziologia del problema, ossia sulla malattia o difetto che, a sua volta, comporta uno svantaggio del soggetto affetto rispetto agli altri. Essa, infatti, istituisce una tripartizione collegata tra (a) menomazione (Impairment); (b) disabilità (Disability); e, (c) handicap. Con «menomazione» s’intende una qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di una funzione, sul piano anatomico, fisiologico e psicologico. Con «disabilità» s’intende una limitazione o perdita della capacità di effettuare un’attività nel modo o nei limiti considerati normali per un essere umano. Con «handicap» s’intende una situazione di svantaggio sociale, conseguente a menomazione e/o disabilità, che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo normale per un dato individuo in funzione di età, sesso, fattori culturali e sociali.


Sembra, allora, che proprio non si riesca a dare una definizione “in positivo” della disabilità, dicendo cosa essa sia, e non soltanto cosa non sia. In questa accezione, infatti, essa viene sempre considerata come una patologia evolutiva del soggetto, un esito errato quanto indesiderabile nello sviluppo della persona umana.


Trattandosi di una tripartizione fortemente connotata dalla nozione di “malattia”, nel 1999 l’OMS l’ha sostituita con l’ICF, International Classification of Functioning, Disability and Health (http://www.who.int/classifications/icf/en/), una classificazione giustamente definita, e considerata, rivoluzionaria perché non guarda più soltanto all’eziologia medica, prendendo in considerazione soltanto i limiti nello sviluppo del soggetto, ma perché considera la condizione generale di vita del soggetto, puntando in tal modo su “quel che egli riesce a fare”, anziché prendere a metro di giudizio “quel che non riesce a fare”. Così la «disabilità» viene vista come il frutto dinamico, non statico, dell’interazione del soggetto con un ambiente. In questo modo, infatti, la disabilità giunge ad avvicinarsi al concetto inglese di «handicap», ossia di maggior peso, di origine ambientale e/o sociale, che grava sui soggetti, ostacolandone la vita regolare ed essendo di nocumento in tutte le attività quotidiane, cessando di essere un limite fisico in sé del soggetto. Ciò consente di distinguere finalmente tra la «disabilità» e il «disabile», tra la «malattia» e la «persona» portatrice.


3. Capacità, potenzialità, svantaggi.


Dunque, sembra di capire come la situazione di svantaggio sia frutto di un ambiente non in grado di accogliere la «diversità» di alcuni soggetti, di venire incontro ai loro bisogni speciali, colpevole di non fare nulla per rimuovere le cause materiali della differenza. Di conseguenza, il soggetto è in minor grado, rispetto agli altri, di esprimere appieno le proprie capacità, cognitive e sociali, denotando di conseguenza un minor numero di potenzialità. Esiste, pertanto, un’interazione dinamica tra le capacità del soggetto, in relazione ad un ambiente adatto ed ospitale, le sue potenzialità future, in genere di sviluppo ulteriore, e l’insieme degli svantaggi di cui soffre. In ogni caso, sembra che debba essere cura della società la presa in carico di tali soggetti in maniera tale che se ne possano ridurre gli svantaggi.


A questo punto, sembra di aver raggiunto una definizione soddisfacente. Pertanto, la «disabilità» è la condizione, temporanea, come nel caso di gravi malattie o di gravi incidenti, o definitiva, di maggior svantaggio di dati soggetti rispetto ad altri per via di un ambiente di vita che aumenta le difficoltà, anziché ridurle. Pertanto, quasi conseguentemente, il «disabile» è colui che non incontra un ambiente di vita favorevole al suo pieno sviluppo personale.


Tale definizione marca la differenza tra ICD e ICF: il primo considera definitiva, per quanti sforzi una società possa produrre, la condizione di svantaggio, indicando le vie che consentano di ridurre la condizione di minorità, mentre la seconda considera la condizione di possibile nocumento allo sviluppo personale come un frutto ambientale. La conseguenza è che l’handicap va considerato non come la malattia di alcuni, ma come una condizione di scarsa qualità della vita che interessa potenzialmente ciascuno di noi. Come chiaramente si è recentemente espresso il Comitato Nazionale di Bioetica:

la disabilità è una caratteristica appartenente a tutto il genere umano[3]

Così posta la questione, è del tutto naturale che si sviluppi la riflessione seguente: cosa accade se una società si chiude sempre più in sé stessa? La risposta, per quanto amara, è inevitabile: essa non terrà conto dei bisogni personali dei vari soggetti, diversi da caso a caso, e che vanno dalla “normalità” alla “specialità”. Cosa comporta questo? Che, ancora una volta, i più forti troveranno un ambiente a loro adatto, e i più deboli un ambiente ancor più sfavorevole. Invece, sostiene Trisciuzzi:

l’handicappato non è un fatto «esterno» alla società, ma nasce dall’esistenza di precisi modelli culturali e sociali, e non è la scienza che stabilisce il livello di gravità del danno, ma è sempre la società che ne definisce i limiti, come pure fissa il grado del ricupero e quindi dell’educabilità[4]



4. Una sfida per la cultura, un impegno per la civiltà, un costo per la giustizia.


La nascita di persone disabili, prima ancora, e più, di quelle che lo diventano nel corso degli anni, ha posto in essere anche la necessità di una teodicea che giustifichi la presenza dell’errore, se così può chiamarsi, e quindi del male, così come della sofferenza, nell’ordine della natura, un ordine che, per l’appunto, si ritiene razionale. I greci, infatti, cui si deve la filosofia, consideravano la natura sottoposta a ferree leggi di natura che ne descrivevano un corso rigido e regolato. Tuttavia, anche se oggi le cose non appaiono più negli stessi termini, resta forte l’impressione secondo la quale non sia possibile considerare la disabilità la condizione normale della vita umana. Essa deve, pertanto, apparire come un “errore” della natura che, di tanto in tanto, e per singoli notevolmente sfortunati, sbaglia nella generazione di nuovi individui e produce infelicità. Il problema, ad esempio, da un punto di vista teologico potrebbe essere quello di render conto della ragione per cui Dio permette che nascano soggetti disabili. Una questione, invero, affrontata in passato, senza tuttavia trovare ad oggi una formulazione del tutto soddisfacente. In genere, ma si tratta a ben vedere di un ragionamento che si potrebbe benissimo generalizzare al ben più vasto problema della presenza del male nel mondo (malum mundi), sono tre le possibili risposte al problema, partendo dall’assunto teista: (a) Dio non ha alcun ruolo; (b) Dio lo vuole; (c) Dio non lo vuole. In breve:

  1. Dio vuole che nascano bambini handicappati perché, mediante la loro nascita, vuole punire (o i loro genitori o gli stessi bambini a causa di colpe commesse in una vita precedente); 2. Dio vuole che nascano bambini handicappati, ma non per punire, bensì per qualcosa d’altro (insegnare, mettere alla prova, salvare); 3. Dio non vuole che nascano bambini handicappati, ma c’è una libertà della creazione che egli rispetta […] 4. Dio non vuole che nascano bambini handicappati, ma, a livello naturale, non può assolutamente nulla[5]


    D’altra parte, come non porsi il problema da un punto di vista teologico dato che Dio dice a Geremia:

Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato[6]

Dio consacra i soggetti disabili in quanto vuole che nascano così? Il problema, da un punto di vista razionale, infatti, è di difficile comprensione. Ed ancor più se si pensa che una tale conclusione debba essere accettata.
D’altra parte, sempre Dio fa dire all’evangelista:

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio […] tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste[7]

Il Verbo, ossia la seconda persona della Trinità, Gesù il Cristo, è il tramite tra Dio Padre e la Creazione. In quanto tale è Lógos, nella traduzione dei Settanta, Verbum nella vulgata latina, insieme principio e parola della Creazione. È evidente l’importanza del concetto greco adoperato, quello di lógos, principio, discorso, ragione, e che rende conto della difficoltà a tradurre in un linguaggio speculativo le verità di fede. Tuttavia, da sempre Dio parla agli uomini, a testimonianza del fatto che nonostante le intrinseche debolezze umane, anche nel dare una veste linguistica accettabile alla Rivelazione, la fede passa attraverso la comprensibilità umana, quella per l’appunto che trova espressione mediante il lógos, la ragionevolezza umana. Ma se la Creazione ha luogo attraverso il Lógos, dunque in qualche maniera, per così dire, «razionale», come possono avere luogo le generazioni di soggetti disabili? Forse che la «razionalità» creatrice talvolta fa errori? O che, per ragioni lontane dall’umana comprensione, la stessa sceglie di generare disabili? In questo si colloca il problema teologico dei soggetti disabili: perché Dio rende possibile una simile generazione? E come mai a maggior ragione se si pone mente al fatto che Dio cerca in tutti i modi di far partecipe l’uomo del Suo progetto salvifico per il tramite della comprensione umana, di per sé limitata? Ciò spinge, ad esempio, Mancuso a ri-tratteggiare in profondità lo statuto della ricerca teologica, cercando di venire incontro alle esigenze laiche:

l’interlocutore principale di questo libro è la coscienza laica, laica nel senso che ricerca la verità non per appartenere a un’istituzione, sia essa Chiesa, partito, movimento, centro sociale, ma per se stessa, la verità in sé e per sé, la necessitas rationis[8]

Come Mancuso riporta, alcune parole del famoso discorso tenuto da Benedetto XVI all’Università di Ratisbona suonano così:

Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”, “Agire contro la ragione è in contraddizione con la natura di Dio”[9]

Si sostiene, dunque, una teologia che cerca la ragione umana. Da questo punto di vista, pertanto, com’è possibile l’«errore» creativo dei soggetti disabili? Forse, allora, che Dio fa differenze tra i suoi figli? Se così fosse, non corrisponderebbe affatto all’immagine di Dio buono che dà suo Figlio per la salvezza dell’umanità, che si fa carne e muore come un uomo. Ma, forse, la risposta è molto più semplice, per quanto meno attraente da un punto di vista razionale: la presenza della disabilità dovrebbe mettere in grado di contemplare il, e di parteciparvi, mistero della vita.


D’altra parte, in merito, la coscienza ebraica è maggiormente esercitata di quella cristiana nel cercare un senso alla sofferenza umana, soprattutto quando essa sia la più ingiustificabile perché si abbatte sull’innocente. Infatti, così Giobbe conclude la sua odissea umana e teologica:

comprendo che tu puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. «Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu istruiscimi». Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su polvere e cenere[10]

Paradossalmente il popolo veterotestamentario appare più pronto ad affrontare, sulla base della propria cultura millenaria, le problematiche etiche. Tuttavia, un’interpretazione teologica cristiana è possibile ottenerla. Infatti, scrive Mancuso:

Cristo accetta la sofferenza non per piegarla all’incremento della propria vita, ma gratuitamente. È la sofferenza innocente, slegata cioè dal nesso vita-morte. Tutti gli innocenti che soffrono entrano in questa stessa dimensione, gli appartengono. Chi soffre di un dolore innocente entra in quella dimensione dove Cristo è entrato, va a toccare il nucleo del mistero che ci sovrasta e che ci contiene (e che ci definisce), quel legame tra vita e morte che necessariamente crea sofferenza, perché solo la sofferenza fa sì che dalla vita che diviene morte nasca altra vita[11]

Dunque, che risposta offre la teologia cristiana al problema dell’handicap? La risposta sembra essere la seguente:

agli uomini, alcuni dei loro figli nascono così perché essi sono liberi; ma liberi vuol dire fragili, esposti al nulla. L’handicap è il prezzo che si paga a una creazione libera, lo stesso prezzo pagato dal Padre con l’immolazione del Figlio ab origine mundi[12]

Così come l’assistenza alle persone disabili è

una delle supreme attività, forse la suprema in assoluto, che l’amore umano conosca. Qui si manifesta la completa gratuità, a volte non c’è neppure un sorriso in cambio, perché l’interessato neppure è in grado di sorridere […] Qui si serve la vita, senza per questo produrre morte o sofferenza altrui. E lo si può fare perché, personalmente, «ci si perde». Proprio come Dio nel suo rapporto col mondo. Con ciò si esce dal meccanismo governato dal «principe di questo mondo», perché, semplicemente, si esce da questo mondo[13]

Se Dio crea ogni creatura e ciascuna è imago dei, in visum dei, allora l’esperienza della diversità, offerta dal disabile, è contemplazione del Volto divino. Si tratta certamente di sentieri interessanti e stimolanti, ma che conducono troppo lontano dalla specificità del presente contributo.


Tornando al presente argomento, emerge come considerare i disabili delle persone abbia delle precise conseguenze, umane e sociali. Infatti, nella misura in cui una comunità esiste perché esiste un suo diritto (ibi ius, ibi societas), come corpus normativo, allora la società deve assumersi la responsabilità di tutelare, e difendere ove occorresse, i diritti di questa categoria sociale, e lo deve fare a maggior ragione in quanto essa è particolarmente esposta ai soprusi. Le società umane si caratterizzano per essere “imperi del diritto”, espressione di una civiltà umana basata sui valori universali, e condivisi, di «giustizia» e «rispetto».


La considerazione della presenza di «diritti», in altri termini, comporta che la società prenda sul serio tali diritti, e si regoli di conseguenza senza tentennamenti e/o ostruzionismi[14]. Nella misura in cui il disabile è colui che vive una esistenza limitata a causa di un ambiente non adatto ai suoi bisogni particolari, è gioco forza riconoscere, come proprio, compito di una società assicurargli il rispetto dei suoi diritti soggettivi, diritti, per definizione, non disponibili alla contrattazione, e che gli spettano in funzione del riconoscimento della sua particolare condizione, la quale, però, va considerata non la causa di una possibile discriminazione, quanto, piuttosto, l’illuminazione della presenza di ben precisi bisogni “speciali”. Se ciò viene fatto, allora è possibile riscattarne l’immagine e la considerazione in seno al medesimo consesso civile. Ci si lagna, però, generalmente, per via di un ben noto malcostume italico, che le tasse siano troppo alte, e che sarebbe bene ridurle. Ma ridurre la spesa vuol dire anche ridurre i servizi, proprio quel “terzo settore” di vitale esigenza per le persone disabili. Tale atteggiamento trova oggi il destro di una crisi economica la quale, ormai, serve a giustificare qualsivoglia decisione politica e/o governativa, presa all’insegna del “risparmio”. Tuttavia, in tutti questi casi si trascura un fatto semplice e conseguente: i diritti, a dispetto di quanto comunemente si possa pensare, non sono gratuiti, hanno un costo. Ecco, allora, una conseguenza alla quale è bene che ci abituiamo, vista la piega morale, nel senso di costume, assunta a livello continentale: “me ne frego dei bisogni altrui, m’interessano le mie tasche”. Infatti, nella misura in cui prevale l’egoismo contributivo ci saranno alla fine meno diritti per tutti. Solo che in questo caso il “tutti” vuol dire che i più deboli pagheranno il prezzo maggiore. Motivi di preoccupazione, al riguardo, suscita la recente politica federalista, ove l’erogazione dei servizi verrà agganciata alla risorse prodotte dal medesimo territorio. Molto brevemente, ciò significherà che le persone disabili, in certi casi, saranno doppiamente sfortunate: da un lato, nascono e vivono con ulteriori ostacoli al completo sviluppo della loro personalità, e, dall’altro lato, hanno anche la sfortuna di vivere in un territorio privo di risorse adeguate a garantire loro servizi essenziali. Ciò basta a criticare l’ottimismo di Bobbio: la tendenza attuale è contraria alla direzione di progressiva estensione dei diritti[15].


Trattare adeguatamente le persone disabili equivale a dare concreta realizzazione alla mission umanistica: dare corso a quel che sviluppa la personalità umana in tutti si suoi aspetti, anche in quelli che possono apparire poco nobili e/o degradanti ai nostri occhi.


Ciò vuol dire che, per quanto la persecuzione dei diritti abbia un costo economico, dare corso alla giustizia non ha prezzo in quanto essa è un bene non disponibile alla contrattazione, ossia al cosiddetto valore economico.


Altrimenti, cosa si potrebbe rispondere ad una madre che, sconsolata, chiede «cosa dovremmo fare allora con i nostri figli? Portarli nelle camere a gas?».


D’altra parte, il nesso tra la disabilità e la società è, come visto, molto marcato. Infatti, la prima è una conseguenza della seconda nei casi in cui quest’ultima non tiene conto della diversità, e non fa nulla per aiutare i più deboli.


È anche vero, comunque, e ciò a riprova degli esiti raggiunti nella presente ricognizione, che una società umana si caratterizza proprio per la sua vita culturale, la quale, per intenderci, ha una direzione diametralmente opposta al principio biologico della “lotta per la sopravvivenza”, detto anche del “gene egoista”, che fa primeggiare la mera forza fisica e che, altrettanto chiaramente, non ha nulla a che fare con i principi di giustizia.



(immagine tratta da: http://www.disabiliforum.com/prodotti/img/Misure_disabile.bmp)


Note


[1] Cfr. G. Pontiggia, Nati due volte, Blibliotex, Barcellona, 2002, pp. 35 – 6.
[2] Cfr. A. Canevaro, Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, Paravia Bruno Mondatori, Milano, 1999, p. 13 e sgg.
[3] Cfr. Comitato Nazionale di Bioetica, Bioetica e riabilitazione, Roma, 17 Marzo 2006, p. 7.
[4] Cfr. L. Trisciuzzi, Manuale di didattica per l’handicap, Laterza, Roma – Bari, 20045, p. 228.
[5] Cfr. V. Mancuso, Il dolore innocente. L’handicap, la natura, Dio, Mondadori, Milano, 2008, pp. 41 – 42.
[6] Ger 1, 5.
[7] Gv, 1, 1 – 3.
[8] Cfr. V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina, Milano, 2007, p. 9.
[9] Ivi, pp. 33 – 4.
[10] Gb, 42, 1 – 6.
[11] Cfr. V. Mancuso, Il dolore innocente…cit., p. 187.
[12] Ivi, p. 209.
[13] Ibidem.
[14] Cfr. R. Dworkin, Taking Rights Seriously, Duckworth, London, 1977, p. 205: «if the government does not take rights seriously, then it does not take law seriously either».
[15] Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1992.

mercoledì 5 settembre 2012

L'enigma dei numeri primi



Recensione a: M. Du Santoy, L’enigma dei numeri primi, Rizzoli, Milano, 2004



Come spesso accade, i libri migliori sono quelli che casualmente capitano tra le mani. Quel che è rilevante è che l’Enigma dei numeri primi è una lettura stimolante e in gran parte affascinante. Volendola definire in qualche modo, si potrebbe dire che si tratta di una storia romanzata della matematica occidentale. Oppure, si potrebbe non volerla definire, e considerarla soltanto quale una presentazione dell’avventurosa ricerca matematica compiuta dal genere umano. Forse così entrambe le esigenze sono fatte salve. Comunque, il testo scritto da Du Santoy è certamente una perla, divorata avidamente dal momento della scoperta, ma scoperta solo qualche anno dopo la pubblicazione italiana. Questo a ragione della provvida casualità che ha reso possibile l’incontro con una pubblicazione da tenere religiosamente presente assisa nella propria biblioteca.


È interessante per la filosofia una disamina della ricerca matematica? Per di più, intorno ad un argomento oltremodo settoriale e specialistico quale quello della natura dei numeri primi? Ai tempi dei primi filosofi certamente sì, oggi, quando, cioè, in molti asseriscono essersi separate le vie della prima e le vie della seconda, ugualmente sì. Infatti, sebbene si tratti di materie diverse, non altrettanto si può sostenere che siano due materie irrelate tra loro. Anzi, si farebbe un torto alla propria intelligenza pensandola così. Peraltro, la separazione succitata, tra scienze esatte e scienze umane, è sottoposta ad una continua critica e ad un biasimo crescente. Forse, dopo il tempo dell’enfasi posta sulla specializzazione, e conseguente divisione del lavoro, ci s’è accorti che, in realtà, la separazione porta non solo buoni frutti ma anche frutti avvelenati, tali da richiedere un parziale passo indietro, un parziale ritorno all’unità originaria. Infatti, matematica e filosofia promanano dall’unica e comune funzione universale dell’essere umano: l’intelligenza. Così, secondo il presente punto di vista, calcolare e pensare non possono venir considerate in abstracto come due funzioni separate, ma, al contrario, vanno intese intimamente relate.


È interessante per la filosofia l’argomento del libro, e per uno svariato numero di ragioni, succintamente: (1) vigente la succitata unità di matematica e filosofia, il problema dei numeri primi è importante per il pensiero; (2) la continua sfida posta all’intelligenza dall’enigma dei numeri primi necessita un ulteriore progresso dell’intelligenza e dei suoi relativi strumenti formali; (3) la continua sfida posta all’intelligenza dalla natura problematica dei numeri primi comporta un continuo tornare a pensare da parte della razionalità umana. Come si vede, la serie di ragioni addotte (1) – (3), alcune tra le tanti che si potrebbero indicare, impone che la filosofia si ponga il problema dei numeri primi, e come una questione di (filosofia della) matematica e come un problema attinente più strettamente ai limiti formali del pensiero umano.



Forse, capita di osservare come la nostra giornata sia regolata secondo un ritmo ben preciso: giorno e notte. Lo sapevano bene anche gli antichi, ma quando ce ne accorgiamo, uscendo dalla mera ripetitività quotidiana, ecco allora che si può fare esperienza dell’aristotelica meraviglia. Se si considera che questo ritmo si ripete per un intero anno, ossia per 365 volte, ecco che la bellezza assume un aspetto diverso da prima. Se poi si aggiunge che ciò accade per secoli, ossia per centinaia di altre volte, l’esperienza estetica assume connotazioni ulteriori. Se poi si riflette anche sul fatto che il singolo momento di tale ritmo, ad esempio il giorno, è calibrato su sottofasi, a loro volta secondo sequenze ben ordinate, ecco allora che il concetto stesso di ritmo deve essere riformulato. Un suo esempio certamente caratteristico è costituito dalla musica: esecuzione regolata di battiture in maniera armonica. Anche in questo caso, lo sapevano bene gli antichi, al punto che un tale Alcmeone di Crotone, certamente un adepta della setta pitagorica, formulò lo strano pensiero secondo il quale mediante la musica sarebbe possibile curare la gente. Infatti, l’armonia musicale avrebbe potuto ristabilire l’armonia perduta del corpo malato. Oggi, appare una scempiaggine, con l’evidente peccato dell’ingenuità. Tuttavia, è bene osservare come questo pensiero sia alla base della cosiddetta musicoterapia. Certo non si tratta più di ristabilire armonie perdute, ma solo di costituire delle comunità di relazioni. La bellezza di un’armonia è data da un ritmo, ossia da una sequenza precisa che si ripete nell’arco di un certo tempo. Questo in termini molto generali. Pensando alla matematica, si sa bene che i numeri assumono una sequenza precisa: 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, etc. Un divenire cumulativo frutto della successiva addizione di ciascun numero al numero uno. Per esempio, avendo 2 vi si somma 1 e si ottiene il numero successivo della serie: 3. E così via. Si sa anche che alla sinistra di 0 v’è una numerazione opposta, di natura negativa: -1, -2, -3, -4, -5, -6, -7, -8, -9, -10, etc. Questi ultimi prendono il nome di numeri negativi mentre i precedenti il nome di numeri positivi. Immaginando ora di disporre graficamente i numeri positivi e i numeri negativi, si ha la seguente retta dei numeri:


  • ∞ ... -8 | -7 | -6 | -5 | -4 | -3 | -2 | -1 | 0 | +1 | +2 | +3 | +4 | +5 | +6 | +7 | +8 … +∞


Stando così le cose, sembrerebbe che di nessuna importanza sia la questione dei numeri primi. Al contrario, «L’ipotesi di Riemann è un problema centrale per l’intera matematica» (p. 9). Infatti, con la suddetta ipotesi si tenta «di comprendere gli oggetti più fondamentali della matematica: i numeri primi» (p. 14). È tramite di essi che si costruisce l’intero edificio dell’aritmetica, essi «hanno il potere di costruire tutti gli altri numeri» (p. 15). Infatti, qualsiasi numero intero che non sia primo «può essere costruito moltiplicando questi elementi di base primari» (p. 15), «ogni numero è un prodotto di numeri primi» (p. 69). Ma nonostante la loro apparente semplicità, «i numeri primi restano gli oggetti più misteriosi studiati dai matematici» (p. 15). Oltre alla loro capacità di produrre l’intero spettro dei numeri, sinora non si è riuscito a formulare un modello completo che consenta di spiegarne l’origine numerica. Se, infatti, si pone mente per un attimo alla loro sequenza si avrà l’impressione di un ordine casuale, non matematicamente quantificabile:


2
3
5
7
11
13
17
19
23
29
31
37
41
43
47
53
59
61
67
71
73
79
83
89
97
101
103
107
109
113
127
131
137
139
149
151
157
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In Wikipedia, l’enciclopedia libera di internet, è presente una gif animata (reperibile all’indirizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Animation_Sieve_of_Eratosth-2.gif) che simula la ricerca dei numeri primi.



Fu Riemann il primo ad intravedere la presenza di una nascosta armonia dietro tale ordine. Un’intuizione sfortunatamente rimasta senza dimostrazione matematica e tale da affascinare nei secoli i matematici. Chi sarà in grado di dimostrarla «sarà in grado di spiegare perché i numeri primi danno un’impressione così convincente di casualità» (p. 23), in modo da trovare «una spiegazione all’apparente caos dei numeri primi» (p. 24), «una procedura molto rapida e assolutamente certa per individuare un numero primo» (p. 26). Prima di Riemann già i greci nel IV sec. a. C. compresero «che ogni numero primo poteva essere creato moltiplicando fra loro dei numeri primi» (p. 46). Ma restava loro occulta la ragione di ciò. In particolar modo, quale dovesse essere il numero seguente nella successione. Molti secoli dopo, lo stesso Gauss, nei suoi studi astronomici si scontrò con la medesima difficoltà dei numeri primi: «non riusciva a scorgere alcuna regola che gli dicesse di quanto avrebbe dovuto saltare per trovare il numero primo successivo» (p. 48). I matematici hanno, allora, cercato una procedura che consentisse di individuare l’ordine di successione dei numeri primi. In termini filosofici, ciò consiste anche nel rendere conto della natura stessa dei numeri primi. Si cercava un algoritmo, una funzione, una formula matematica adatta all’uopo. Un esempio è costituito dalla formula di Fibonacci: «si calcola ciascun numero sommando i due che lo precedono» (p. 52). In questo modo, avendo i numeri 2 e 3 il prossimo della lista sarà 5. Successivamente, avendo i numeri 3 e 5 il successivo sarà 8. E così via. Solo che i numeri di Fibonacci non corrispondono puntualmente ai numeri primi. In effetti, la «formula per generare i numeri di Fibonacci si basa su un numero speciale chiamato rapporto aureo, un numero che comincia con 1,618 03…» (p. 53). Una sorta di π per generare la sequenza numerica. La quasi ossessione dei matematici per la formulazione di una funzione in grado di spiegare l’ordine dei numeri primi si spiega con la necessità di dimostrare un’ipotesi che è colta intuitivamente. Infatti, fintantoché non viene dimostrata un’intuizione resta relegata nell’alveo dell’irrazionale, e non può in alcun modo entrare a far parte del regno della conoscenza. Sebbene esistano regole e metodi ben precisi per produrre dimostrazioni, la «matematica è un’arte creativa» (p. 67). Nello specifico, poi, i «numeri primi sono come le note di una scala musicale, e ciascuna cultura ha scelto di suonare queste note nel proprio modo specifico» (p. 67). Ora trovare una procedura certa di individuazione dei singoli numeri primi in un punto imprecisato della serie consente di «conoscere il modo per salire una scala infinita senza dover portare a termine fisicamente l’impresa» (p. 71). Da qui, dunque, l’importanza della sfida matematica: mettere a punto una procedura che spieghi la struttura dei numeri primi. Il primo a darle la caccia fu Euclide. Successivamente, vi provarono Hardy, Gauss, Fermat ed Eulero. Fu, tuttavia, Bernhard Riemann a cogliere l’essenza del problema, e lo fece interessandosi inizialmente ai numeri immaginari, via per ovviare allo scandalo pitagorico dei numeri irrazionali. Infatti, i «numeri irrazionali e i numeri negativi ci permettono di risolvere molte equazioni diverse» (p. 127). In più, arrischiscono la retta dei numeri. Ad esempio, √2 si colloca tra il numeri +1 e +2. Invece, ½ tra i numeri 0 e +1. Introdurre i numeri immaginari, a dispetto dell’iniziale impressione fantastica, consente di risolvere un maggior numero di equazioni, ossia di combinazioni numeriche, finendo con l’arricchire l’insieme dei numeri. Infatti, a seguito della loro scoperta, si è etichettato l’insieme complessivo dei numeri con il nome di numeri reali, comprendendo in essi, quelli positivi, negativi e irrazionali. Così, il problema dei numeri irrazionali veniva superato. Infatti, ogni «equazione aveva una soluzione che consisteva in una combinazione di ordinari numeri reali (cioè le frazioni e i numeri irrazionali) e di questo nuovo numero, i» (p. 129). Così, l’importanza di Riemann è presto detta: «aveva scovato un passaggio che conduceva dal mondo familiare dei numeri a una matematica che sarebbe parsa assolutamente aliena ai matematici greci che avevano studiato i numeri primi duemila anni prima di lui» (p. 155). In altri termini, era come passare attraverso lo specchio, per dirla elegantemente con Lewis Carroll, non a caso ingegno logico. I matematici «hanno usato il linguaggio della matematica per allenare le loro capacità di visualizzazione mentale, in modo che li aiuti a «vedere» simili strutture» (p. 157). D’altra parte, la matematica, come qualsiasi altra scienza rigorosa, è un linguaggio formale che mediante un lessico adeguato sia in grado di render conto delle ragioni dei numeri. Il problema, semmai, è stato quello di costruire di volta in volta, passo per passo, tale linguaggio.


Il contributo di Riemann è stato quello di spostare il discorso dai numeri primi «situati a livello del mare» (p. 179) ai numeri primi collocati «sulla mappa del mondo immaginario» (p. 179). Ciascun punto consisteva in un’onda, «una nota emessa da un qualche strumento matematico» (p. 179). Il segreto dell’armonia nascosta dei numeri primi, «Riemann aveva finalmente individuato la misteriosa struttura che per secoli e secoli i matematici avevano desiderato ardentemente di scorgere mentre osservavano i numeri primi» (p. 182), di colpo «l’enigma della casualità dei numeri primi nel mondo reale è stato sostituito dal tentativo di comprendere l’armonia di questo paesaggio immaginario oltre lo specchio» (p. 183). In altri termini, «Riemann aveva capito che cercare di comprendere le strutture e gli schemi alla base del mondo matematico era più proficuo che concentrarsi su formule e calcoli noiosi» (p. 196). Prima di Riemann, comunque, fu Hilbert ad indirizzare la scienza matematica verso le equazioni e le formule non esplicite. Egli, infatti, «considerava irrilevante la realtà fisica degli oggetti» (p. 201), indirizzandosi a «studiare le connessioni e le strutture astratte» (p. 201). Un aiuto gli venne dalla precedente scoperta delle cosiddette geometrie non euclidee. Infatti, Hilbert «capì che un forte nesso logico legava geometria non euclidea e geometria euclidea» (p. 204): le geometrie non euclideee potevano contenere delle contraddizioni nel caso in cui «anche la geometria euclidea ne conteneva» (p. 204). In altri termini, la modifica dell’assiomatica euclidea, in particolar modo quello relativo «all’esistenza di rette parallele» (p. 201), non comportava l’incoerenza della conoscenza matematica, ma il suo potenziamento. Infatti, «la scoperta di Hilbert significava che quei modelli non euclidei dovevano poggiare sulle stesse fondamenta logiche» (p. 204) dei modelli euclidei. Le sue considerazioni «sui fondamenti stessi della disciplina gli fornirono la piattaforma da cui lanciare questa nuova pratica di una matematica astratta» (p. 206). Partecipando, poi, al Congresso Internazionale di Matematica del 1900 egli indicò nella soluzione del problema dei numeri primi una delle principali sfide della matematica. Una sfida, però, tutt’oggi non vinta. Una possibile strategia vincente è stata intuita da Riemann, ma senza che si sia tradotta in una accettabile dimostrazione matematica.


Nel XX sec. la ricerca continuò, ma senza quell’ingegno che la prematura scomparsa di Riemann privò per sempre la matematica. Su questa linea si collocano i tentativi di Ramanujan, Siegel e Selberg. Poi, come spesso accade, il vento di guerra interruppe bruscamente l’evoluzione della matematica europea, spostando negli USA la ricerca vera e propria, anche per venire incontro ad esigenze di sostentamento assai più impellenti di quelle della conoscenza.


Un’ultima eccezione è costituita dall’estro di Turing, genio a disposizione della causa alleata contro il nazismo, e si suoi codici militari di comunicazione. Il suo nome, infatti, «sarà sempre associato alla decifrazione di Enigma, il codice segreto usato dai tedeschi durante la Seconda Guerra mondiale» (p. 321). Perché Turing nell’attuale problematica? Perché il «suo sogno era che quel marchingegno meccanico potesse avere il potere di dimostrare l’infondatezza del problema che, fra i suoi ventitré problemi, Hilbert preferiva: l’ipotesi di Riemann» (p. 322). L’idea di Turing era di trasferire in una macchina l’idea formulata anni prima da Hilbert: «una procedura meccanica che potesse essere applicata all’equazione e rispondere «sì» oppure «no» alla domanda «questa equazione ha soluzioni?» senza bisogno di alcun intervento da parte di un operatore» (p. 335). In altri termini, Hilbert aveva concepito un software in assenza dell’hardware, ossia della macchina in grado di mandarlo in esecuzione. Turing, invece, si rivolse alla progettazione del modello di una macchina universale in grado di computare, ossia di calcolare in maniera analoga al pensiero umano, «una macchina calcolatrice universale che potesse essere programmata per eseguire una gran varietà di compiti» (p. 352). Un passo importante nella storia dell’informatica, un momento della ricerca attorno ai numeri primi. Infatti, il «successo di Turing nella progettazione delle macchine per decrittare Enigma deve qualcosa al suo apprendistato nel calcolo degli zeri della funzione zeta di Riemann» (p. 351). Il retroterra culturale sul quale si muoveva Turing comunque era quello introdotto da Gödel, secondo cui «la matematica non era stata in grado di dimostrare l’ipotesi di Riemann perché i suoi assiomi non erano sufficienti a farlo» (p. 333). L’idea di Turing avrebbe aiutato in ciò? Sicuramente sì, visto che dato «un insieme di assiomi e alcune regole di deduzione, è possibile istruire un computer in modo che sforni teoremi matematici a bizzeffe» (p. 387). E non è un caso, infatti, che i principali avanzamenti nella ricerca sui numeri primi siano provenuti dai laboratori di ricerca dei colossi informatici, l’AT&T in primis: è mediante la potenza di calcolo degli apparati informatici che il lavoro creativo del matematico può essere potenziato. La decrittografia di Turing prima, la crittografia oggi al tempo di Internet, richiede potenza di calcolo che solo le macchine sono in grado di fornire. Ma la struttura di calcolo alla base dei procedimenti di decrittazione dei codici e di crittografia è il medesimo algoritmo fondamento della trasmissione delle informazioni, in poche parole: dell’informatica. E gli stati elettrici alla base del trattamento informatico delle informazioni si realizzano in termini matematici. E qui si torna al problema di partenza: qual è la struttura dei numeri primi?


Stranamente, un aiuto provenne alla teoria dagli straordinari progressi della fisica. Infatti, un avanzamento nella ricerca sui numeri primi fu reso possibile dalla teoria del caos quantistico. In altri termini, la frequenza dei numeri primi poteva essere considerata alla stregua di altrettanti quanti di energia. Un ritmo musicale che si colloca al punto di congiunzione tra i livelli energetici e gli elettroni di un atomo. Alla stessa maniera, la progressione matematica mostrava un’evidente analogia statistica, secondo la visione di Diaconis. Tuttavia, l’incontro di matematica e fisica quantistica condusse ad interpretare in termini fisici l’ipotesi di Riemann: «l’esistenza di una musica insita nei numeri primi» (p. 517). Infatti, «Riemann aveva trasformato i numeri primi in funzioni d’onda» (p. 517), mentre Berry, da fisico, tradusse queste onde in suoni reali. Era, forse, la dimostrazione principale «del fatto che l’ipotesi di Riemann ha qualcosa a che fare con il caos quantistico» (p. 523)? Probabilmente sì.


Ad ogni modo, è certo che «nel corso degli ultimi cinquant’anni, lo stesso linguaggio della matematica è andato incontro ad una profonda evoluzione che è tuttora in corso, e molti ricercatori sono convinti che fino a quando questo processo non sarà completato, non avremo a disposizione un linguaggio sufficientemente avanzato per articolare una spiegazione del perché i numeri primi si comportano secondo quanto predetto dall’ipotesi di Riemann» (p. 538).


Per concludere, Riemann ha sollevato parzialmente il velo d’ignoranza sui numeri primi, ma ha lasciato ai posteri il compito, tutt’ora inevaso, di fornire una dimostrazione matematica della sua ipotesi sulla loro natura. Un impegno che non manca di affascinare l’umana intelligenza.




(immagine tratta da: http://img3.libreriauniversitaria.it/BIT/240/843/9788817008433.jpg)

domenica 2 settembre 2012

Obnubilamento da mass – media … ovvero, sull'omologazione (di comodo)


(immagine tratta da: http://m2.paperblog.com/i/99/996459/il-cardinale-martini-il-valore-di-un-legame-t-L-cKoYLr.jpeg)



Il Card. Martini è morto. Questa la notizia in sé. Ma qual è il significato che, socialmente, vi si è costruito sopra? Ecco, a mio modesto modo di vedere, il punto cruciale. Da ogni parte si è registrata un'ovazione postuma, meritata sì ma “strana” per quanto concerne tempi e modalità. “L'uomo del dialogo”, l'uomo “del rispetto”, l'uomo “vigile sino alla fine”, un uomo “cosciente sino alla fine”. E poi “ha rifiutato l'accanimento terapeutico”. Strano. È tutto molto strano. E per (almeno) due motivi, diversi ma, forse, in qualche modo occulto, connessi: (1) un uomo di fede è di per sé (e se non lo è, dovrebbe farsi un sano e accurato esame di coscienza) un “uomo del dialogo”; (2) un uomo di fede è chiamato a scelte coerenti, specie davanti all'orizzonte ultimo e definitivo della morte. Perché questi due motivi rendono strana la vulgata mediatica attuale? Perché nascondono l'uomo di fede, nel binomio indissolubile di una scelta radicale e irrevocabile, il vivere per Dio, dietro etichette “di comodo”: il dialogo; la sapienza; gli studi; l'arguzia; l'eloquenza; la sagacia; l'operosità; etc. etc. E cosa resta senza? Solo un uomo, appunto. Il soggetto del quale poi poter declinare la qualità che più fa piacere. Ma così facendo si fa solo torto al Card. Martini il quale vorrebbe essere ricordato per quello che era: un uomo sì, ma di fede. In che cosa? Nel Dio rivelato e tramandato dalla Madre Chiesa. E forse questo sì risulta “strano”, “disturbante”, “equivoco”, “inutile”, “superfluo”, nel senso che nel Paese, forse, al mondo più ipocrita, disturba che un uomo così potesse far parte integrante e coerente della Chiesa Apostolica Romana. Può un uomo così grande essere parte di Santa Romana Ecclesia? Questo il pensiero di tanti, l'uomo del dialogo per tutti … etichetta di comodo e retropensiero rimosso. E dovrebbe far riflettere questa curiosa scissione tra la dimensione pubblica dell'uomo (del dialogo) Martini e la dimensione interiore dell'uomo (di fede) Martini. Ma presentarlo nella sua veste edulcorata di uomo del (solo) dialogo, lo rende simpatico a (quasi) tutti, non imbarazzando, di conseguenza, la sua radicale e completa adesione alla tavola dei valori di Madre Chiesa. Eh sì, perché o Martini lo si apprezza integralmente, uomo del dialogo perché uomo di fede, o Martini lo si apprezza parzialmente, lodando l'uomo del dialogo che fu (anche ignorando però le ragioni di fede che lo spinsero sulla difficile strada del confronto, con atei, con altre religioni, e così via … d'altra parte non diceva questo anche il Concilio Vaticano II? Ah, questo sconosciuto!)

Ma il preferire una versione “laica” del Card. Martini oltre ad essere più facile da mandar giù, consente anche di porre in questione la sua stessa coerenza davanti alla morte, magari anche lasciando intravedere delle crepe tra la dottrina ufficiale della Chiesa e la condotta singola di suoi esponenti. Incoerenza, però, assente, nonostante l'erroneità, e la profonda confusione generale che vi regna sopra, della notizia acclusa “ha rifiutato l'accanimento terapeutico”. Si crede infatti che l'etichetta presente “accanimento terapeutico” comprenda molte cose, dall'eutanasia attiva (operare concretamente per anticipare la morte di un soggetto) a quella passiva (omettere di operare concretamente per curare qualche malattia grave e debilitante di un soggetto), dal rifiuto delle cure in sé stesse alla dignità del malato. L'opinione pubblica italiana al riguardo è mal informata: accanimento terapeutico vuol dire solamente prolungare arbitrariamente una vita umana nel momento in cui, invece, il naturale decorso della stessa si è ormai concluso. Tutto qui. Il Card. Martini non ha chiesto l'eutanasia né tantomeno ha chiesto di essere lasciato morire. Al riguardo, si percepisce una sorta di deja vù. Infatti, quando morì il Pontefice Giovanni Paolo II si disse tempo dopo che chiese insistentemente di essere lasciato andare e che gli furono somministrati antidolorifici. Qual è l'intento neanche tanto velato di una simile strategia comunicativa? Mettere in luce (presunte) incoerenze nel Magistero della Chiesa la quale da un lato proibisce tali metodiche (eutanasia; accanimento terapeutico; etc.) e dall'altro le tollera per alcuni suoi “alti” esponenti. Ma la confusione al riguardo è massima: rifiutare delle cure che non hanno alcun beneficio per l'ammalato, prolungandone artificialmente l'esistenza, non sono uguali al far di tutto perché l'ammalato cessi di soffrire morendo oppure astenersi da cure, che potrebbero essere efficaci, lasciando che il malato muoia simpliciter. La memoria può facilmente riandare a due episodi della recente cronaca che hanno fatto, diciamo, “giurisprudenza” in merito.
Poteva il Card. Martini rifiutare l'accanimento terapeutico senza venir meno alla coerenza di vita con la dottrina della Chiesa? Sì. Poteva il Card. Martini rifiutare l'accanimento terapeutico, chiedendo anche di accelerare l'avvento della morte, senza venir meno alla coerenza di vita con la dottrina della Chiesa? No. Ma questa è solo Accademia perché questa fattispecie non s'è verificata.
Allora, smettiamola di guardare a singole parti dell'uomo Martini, e cominciamo a guardarlo nella sua integrità di uomo di fede. Altrimenti, non si comprenderebbero né la sua incredibile fama né tantomeno il fascino che la sua figura, coscientemente o meno, ha esercitato su tanti (credenti o meno, pensanti o meno, come direbbe lui stesso). Condizione questa sulla quale parrebbe opportuno quantomeno meditare, in un senso che almeno pallidamente si avvicini a quello da lui propugnato e difeso in vita (stare in comunione con Dio).
Ma le strade degli uomini sovente sono diverse da quelle di Dio.