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Il
Card. Martini è morto. Questa la notizia in sé. Ma qual è il
significato che, socialmente, vi si è costruito sopra? Ecco, a mio
modesto modo di vedere, il punto cruciale. Da ogni parte si è
registrata un'ovazione postuma, meritata sì ma “strana” per
quanto concerne tempi e modalità. “L'uomo del dialogo”, l'uomo
“del rispetto”, l'uomo “vigile sino alla fine”, un uomo
“cosciente sino alla fine”. E poi “ha rifiutato l'accanimento
terapeutico”. Strano. È tutto molto strano. E per (almeno) due
motivi, diversi ma, forse, in qualche modo occulto, connessi: (1) un
uomo di fede è di per sé (e se non lo è, dovrebbe farsi un sano e
accurato esame di coscienza) un “uomo del dialogo”; (2) un uomo
di fede è chiamato a scelte coerenti, specie davanti all'orizzonte
ultimo e definitivo della morte. Perché questi due motivi rendono
strana la vulgata
mediatica attuale? Perché nascondono l'uomo di fede, nel binomio
indissolubile di una scelta radicale e irrevocabile, il vivere per
Dio, dietro etichette “di comodo”: il dialogo;
la sapienza; gli
studi; l'arguzia;
l'eloquenza; la
sagacia; l'operosità;
etc. etc. E cosa resta senza? Solo un
uomo, appunto. Il soggetto
del quale poi poter declinare la qualità
che più fa piacere. Ma così facendo si fa solo torto al Card.
Martini il quale vorrebbe essere ricordato per quello che era: un
uomo sì, ma di fede.
In che cosa? Nel Dio rivelato e tramandato dalla Madre Chiesa. E
forse questo sì risulta “strano”, “disturbante”, “equivoco”,
“inutile”, “superfluo”, nel senso che nel Paese, forse, al
mondo più ipocrita, disturba che un uomo così potesse far parte
integrante e coerente della Chiesa Apostolica Romana. Può un uomo
così grande essere parte di Santa Romana Ecclesia? Questo il
pensiero di tanti, l'uomo del dialogo per tutti … etichetta di
comodo e retropensiero rimosso. E dovrebbe far riflettere questa
curiosa scissione tra la dimensione
pubblica dell'uomo
(del dialogo) Martini e la dimensione
interiore dell'uomo
(di fede) Martini. Ma presentarlo nella sua veste edulcorata di uomo
del (solo) dialogo, lo
rende simpatico a (quasi) tutti, non imbarazzando, di conseguenza, la
sua radicale e completa adesione alla tavola dei valori di Madre
Chiesa. Eh sì, perché o Martini lo si apprezza integralmente,
uomo del dialogo perché
uomo di fede, o Martini lo si apprezza parzialmente,
lodando l'uomo del dialogo che fu (anche ignorando però le ragioni
di fede che lo spinsero sulla difficile strada del confronto, con
atei, con altre religioni, e così via … d'altra parte non diceva
questo anche il Concilio Vaticano II? Ah, questo sconosciuto!)
Ma
il preferire una versione “laica” del Card. Martini oltre ad
essere più facile da mandar giù, consente anche di porre in
questione la sua stessa coerenza
davanti alla morte, magari anche lasciando intravedere delle crepe
tra la dottrina
ufficiale della Chiesa
e la condotta singola
di suoi esponenti. Incoerenza,
però, assente, nonostante l'erroneità, e la profonda confusione
generale che vi regna sopra, della notizia acclusa “ha rifiutato
l'accanimento terapeutico”. Si crede infatti che l'etichetta
presente “accanimento terapeutico” comprenda molte cose,
dall'eutanasia attiva (operare concretamente per anticipare la morte
di un soggetto) a quella passiva (omettere di operare concretamente
per curare qualche malattia grave e debilitante di un soggetto), dal
rifiuto delle cure in sé stesse alla dignità del malato. L'opinione
pubblica italiana al riguardo è mal informata: accanimento
terapeutico vuol dire
solamente prolungare arbitrariamente una vita umana nel momento in
cui, invece, il naturale decorso della stessa si è ormai concluso.
Tutto qui. Il Card. Martini non ha chiesto l'eutanasia
né tantomeno ha chiesto di essere lasciato morire.
Al riguardo, si percepisce una sorta di deja vù.
Infatti, quando morì il Pontefice Giovanni Paolo II si disse tempo
dopo che chiese insistentemente di essere lasciato andare e che gli
furono somministrati antidolorifici. Qual è l'intento neanche tanto
velato di una simile strategia comunicativa? Mettere in luce
(presunte) incoerenze nel Magistero della Chiesa la quale da un lato
proibisce tali
metodiche (eutanasia; accanimento terapeutico; etc.) e dall'altro le
tollera per alcuni
suoi “alti” esponenti. Ma la confusione al riguardo è massima:
rifiutare delle cure che non hanno alcun beneficio per l'ammalato,
prolungandone artificialmente l'esistenza, non sono uguali al far di
tutto perché l'ammalato cessi di soffrire morendo oppure astenersi
da cure, che potrebbero essere efficaci, lasciando che il malato
muoia simpliciter. La
memoria può facilmente riandare a due episodi della recente cronaca
che hanno fatto, diciamo, “giurisprudenza” in merito.
Poteva
il Card. Martini rifiutare l'accanimento terapeutico senza venir meno
alla coerenza di vita con la dottrina della Chiesa? Sì. Poteva il
Card. Martini rifiutare l'accanimento terapeutico, chiedendo anche di
accelerare l'avvento della morte, senza venir meno alla coerenza di
vita con la dottrina della Chiesa? No. Ma questa è solo Accademia
perché questa fattispecie non s'è verificata.
Allora,
smettiamola di guardare a singole parti dell'uomo Martini, e
cominciamo a guardarlo nella sua integrità di uomo di fede.
Altrimenti, non si comprenderebbero né la sua incredibile fama né
tantomeno il fascino che la sua figura, coscientemente o meno, ha
esercitato su tanti (credenti
o meno, pensanti
o meno, come direbbe
lui stesso). Condizione questa sulla quale parrebbe opportuno
quantomeno meditare,
in un senso che almeno pallidamente si avvicini a quello da lui
propugnato e difeso in vita (stare in comunione con Dio).
Ma
le strade degli uomini sovente sono diverse da quelle di Dio.
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