[Quanto segue riprende idealmente un discorso già avviato ed espresso in questo post. Il presente, invece, desidera analizzare in termini dialettici la dimostrazione indiretta che Aristotele offre del principio di non contraddizione. SI tratta ancora di una bozza, ma presenta già molti aspetti interessanti]
Il
dilemma della “prima mossa” nell'elenchòs
aristotelico
Il
topos classico, per
quanto concerne il principio di (non) contraddizione
(PDNC) è certamente Metafisica IV.
ove Aristotele cerca di dimostrare la natura fondamentale dello
stesso, evitando nel contempo di cadere in una facile petitio
principii, data la sua
strutturazione esigenziale.
Possiamo leggere, nella traduzione del Reale, come
Ci sono alcuni […] i quali affermano che la stessa
cosa può essere e non essere, e, anche, che in questo modo si può
pensare […] Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che
una cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa
impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più sicuro di
tutti i principi. Ora alcuni ritengono, per ignoranza, che anche
questo principio debba essere dimostrato: infatti è ignoranza il non
sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali,
invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile
che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe
all'infinito, e in questo modo, per conseguenza non ci sarebbe
affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve
ricercare una dimostrazione, essi non potrebbero, certo, indicare
altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione
[1]
Solo
chi ignora il (PDNC) potrebbe, a detta dello stagirita, desiderarne
anche una dimostrazione. Questo, però, è impossibile dato che esso
è il principio alla base di tutto. Anzi, Aristotele sembra anche
dire che è proprio grazie all'esistenza del (PDNC) che è possibile
fornire dimostrazione di altri principi. Di conseguenza, il (PDNC)
regge l'intero edificio speculativo, assicurando sensatezza,
coerenza, credibilità, verità alle proposizioni di quest'ultimo. La
stessa metafisica, in
quando scienza che mira a studiare l'essere in quanto
essere, si fonda sul (PDNC), a
sua volta, pertanto, garanzia di dimostrazione. Pertanto, come può
il (PDNC) esaudire i desideri degli ignoranti i quali, non convinti
della bontà dello stesso, chiedono una sua dimostrazione?
Simpliciter, il (PDNC)
non può dimostrare il (PDNC): un procedere in questo modo sarebbe
vizioso, circolare. Se il (PDNC) cercasse di dimostrare sé stesso
avremmo la situazione paradossale, quanto innaturale, seguente: lo
strumento della dimostrazione che desidera dimostrare sé stesso.
Come può il (PDNC) dimostrare il (PDNC)? Come può lo strumento
farsi a sua volta fine? E come può darsi, in ultima istanza, questo
fine se si dovrebbe realizzare la condizione seguente: uno strumento
che si fa strumento di sé? Per questo motivo, solo per ignoranza,
dià apaideusían,
si può volere una dimostrazione del (PDNC), chiederne una prova: è
solo in virtù del (PDNC) che è possibile dare dimostrazione. Come
chiedere dimostrazione dell'organo di ogni dimostrazione?
Semplicemente, non è possibile, è insensato farlo.
In
precedenza, sempre Aristotele aveva sottolineato la natura essenziale
del (PDNC) per una scienza dell'essere in quanto essere,
episthéme tis hé theoreî
tò òn hê
òn
[2], e, per lo stesso
motivo, i medievali hanno coniato la famosa espressione firmissimum
principium, ossia il principio
più saldo (di tutti), peraltro
traduzione latina dell'espressione aristotelica bebaiotáte
archè, principio
saldissimo [3].
Come
mai lo stagirita, se il (PDNC) è a fondamento di qualsiasi
conoscenza possibile, avverte il bisogno di dimostrare,
entro certi limiti, proprio tale natura? Non dovrebbe, forse, essere
già evidente? Lo stesso aveva precisato in precedenza come
il principio più sicuro di tutti è quello intorno al
quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere
il principio più noto […] e deve essere un principio non
ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve possedere
colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere una mera
ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia
conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si
apprenda qualsiasi cosa. È evidente,dunque, che questo principio è
il più sicuro di tutti [4]
Appare
la doppia la determinazione essenziale che Aristotele attribuisce al
(PDNC): (i) la non ipoteticità (e, quindi, l'apoditticità);
e, (ii) l'essenzialità.
Con (i), Aristotele intende asserire come il (PDNC) sia apodittico
nel senso che un'ipotesi non faccia né conoscenza né condizione di
possibilità per quest'ultima. Piuttosto, il (PDNC) è condizione
stessa di possibilità per qualsivoglia conoscenza. Ragion per cui,
non può essere una mera ipotesi. Con (ii), Aristotele intende
affermare come il (PDNC) è l'essenza della conoscenza, ossia il
fondamento (infondato) del pensiero umano. Senza il (PDNC) non può
esservi conoscenza in un duplice senso, e conseguente alla
determinazione doppia di cui sopra: (a) senza l'apoditticità del
(PDNC), non v'è pensiero; e, (b) senza pensiero fondato sul (PDNC),
non v'è conoscenza. Solo gli ignoranti (di queste ultime cose,
doppia determinazione e duplice senso) possono, a torto, chiedere
soddisfazione del (PDNC). Almeno ad Aristotele le cose appaiono
chiare e piane.
Eppure,
anche al suo tempo, non mancavano i detrattori dello stesso secondo i
quali, grosso modo, era la contraddizione stessa l'anima delle cose,
il dissidio insanabile tra negazioni a reggere le cose del mondo, a
configurarsi quale principium
della realtà. Da qui il doppio problema che Aristotele cerca di
affrontare nella Metafisica:
(1) da un alto, dimostrare come erri chi nega la vigenza del (PDNC);
e, (2) dall'altro lato, indicarne la natura essenziale, senza però
autoconfutarsi. Affrontare il problema (1) sembrerebbe, a prima
vista, cosa più facile rispetto a superare il problema (2) dato che
chi non rispetta il (PDNC) non dice cose sensate, ossia cose da
prendere sul serio, cose coerenti, cose razionali, cose
comprensibili. Questa la gamma di valori che Aristotele racchiude
entro le formulazioni epistemica, logica e metafisica, del (PDNC): si
riesce a dire cose comprensibili anche da altri se, e solo se, si
rispetta il divieto di contraddizione. Pertanto, impossibile sarà:
(a) credere entrambe vere due negazioni in contraddizione; (b)
asserire come entrambe vere due negazioni contraddittorie; e, (c)
vedere due principi l'uno negazione dell'altro (ma si potrebbe
parlare al riguardo anche di molti più principi). Queste tre
impossibilità si raccordano ovviamente (e come potrebbe essere
diversamente) con la doppia determinazione (i) – (ii) e con il
duplice senso (a) – (b). anzi, si potrebbe anche dire che si tratti
di dovute conseguenze.
Ma
se gli stolti, gli ignoranti [5], possono sbagliarsi nel chiedere
conto di offrire una dimostrazione anche per la condizione di
possibilità della dimostrazione in sé stessa, nondimeno Aristotele
non si perde d'animo ed offre quella che, a suo dire, è una
dimostrazione indiretta
del (PDNC):
Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare
l'impossibilità in parola per via di confutazione [6].
E
siamo così alla famosissima, a mio sommesso parere, anche
giustamente tale, dimostrazione per confutazione di
Aristotele, meglio nota anche come elenchòs
(che, a dire il vero, significherebbe solamente confutazione).
Ricapitolando, però, per ovvie esigenze di chiarezza espositiva,
Aristotele nega che sia possibile una dimostrazione diretta
del (PDNC), perché ciò comporterebbe l'assurdo teoretico di un
(PDNC) che operi sul (PDNC), ossia su sé stesso, un oltrepassamento
epistemico di confini che nemmeno il (PDNC) può permettersi di
sognare. Sempre, lo stagirita, per, reputa possibile una
dimostrazione indiretta
del (PDNC), ossia una sorta di dimostrazione che, in parola, consenta
mostrare l'erroneità della richiesta del negatore del principio.
Questo dimostra l'elenchòs:
che è impossibile fare a meno del (PDNC), per indimostrato che
quest'ultimo resti. Se il (PDNC) non può dimostrare sé stesso,
allora sarà possibile dimostrare che è in errore chi nega il
(PDNC). Un altro modo, ai tempi di Aristotele, per realizzare il
brocardo seguente: se Maometto non va alla montagna, la montagna va
da Maometto. Si tenga però in considerazione la limitazione che
Aristotele pone a tale dimostrazione per confutazione:
in parola e per via di confutazione, deïxai
elenctikōs.
Come a dire che non si tratta di una vera e propria dimostrazione, di
per sé impossibile da realizzarsi, ma di una simulazione
dimostrativa
la quale ha palesemente il carattere della sconfessione per quanti
neghino la validità del (PDNC). Detto altrimenti, quanto Aristotele
si accinge a fare è ingaggiare uno scontro dialettico con i nemici
del (PDNC) al fine di mostrare come questi ultimi siano in errore
poiché per negare la validità al (PDNC) bisogna utilizzare proprio
il (PDNC), ossia quanto si vorrebbe eliminare. Pertanto, sono
contraddittori gli stessi negatori del (PDNC): per dimostrare la
contraddittorietà di qualcosa bisogna pur adoperare il (PDNC). Di
conseguenza, come si può pretendere di farne a meno? Ma non
anticipiamo troppo gli esiti e il filo del discorso, procediamo con
più metodo.
La
situazione attuale è, grosso modo, la seguente: vi sono due
interlocutori in contrasto tra loro, l'uno asserisce la natura
essenziale del (PDNC), l'altro, invece, nega la natura essenziale del
(PDNC). Per dirimere la controversa vi sarebbe una strada obbligata,
la dimostrazione
del (PDNC). Ma nel caso presente, la cosa appare quantomeno
problematica: può il (PDNC) dimostrare il (PDNC)? Una dimostrazione
diretta, pertanto, appare una strada non percorribile. Resta un'unica
alternativa: una dimostrazione indiretta. Cosa s'intende con
quest'ultima locuzione? Sicuramente, una dimostrazione che si
concluda con la sconfitta dialettica di una delle due parti. Lo
stagirita propone di procedere in questo modo:
(A) esiste il (PDNC)
(posizione del primo interlocutore);
(B) non esiste il
(PDNC) (posizione del secondo interlocutore).
Chi
ha ragione (e chi torto)? Aristotele percorre un sentiero contorto al
termine del quale appare inequivocabile l'errore di (B), ossia del
secondo interlocutore, altrimenti del negatore del (PDNC). Infatti,
come può reggersi (B) senza far ricorso al medesimo (PDNC) che
vorrebbe negare? DI conseguenza, la posizione del secondo
interlocutore, del negatore del principio, dei nemici del (PDNC) è
contraddittoria: o si fa del tutto a meno del (PDNC), dato che non vi
si crede, e, quindi, qualsiasi proposizione asserita diventa
arbitraria, opinabile, oppure ci si giova del (PDNC), si evita di
asserire proposizioni erronee, di assumere comportamenti
contraddittori. Per negare che esista il (PDNC), alla fin fine,
risulta necessario far uso dello stesso (PDNC), ossia di quanto si
desiderava fare a meno, negare, confutare. Qui Aristotele celebra la
sua vittoria dialettica: (B) perde perché si contraddice, ossia, in
parola, si autoconfuta, utilizzando proprio quello che voleva
confutare.
Forse,
però, è bene cedere il passo al ben noto discorso aristotelico:
[…]
per via di confutazione: a patto, però, che l'avversario dica
qualcosa [échonta
lógon].
Se, invece, l'avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare
una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto,
appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad
una pianta. E la differenza fra la dimostrazione per via di
confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo:
che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione
di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si
tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione. Il punto di
partenza, in tutti questi casi, non consiste nell'esigere che
l'avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è […] ma che
dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e
questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non
facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con
sé medesimo né con altri; se, invece, l'avversario concede questo,
allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci
sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di
principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la
dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento,
egli sia avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo,
ha concesso che c'è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla
dimostrazione[7]
Aristotele
ha descritto in questo passo le movenze di un gioco dialettico che,
proprio per il suo non essere un “gioco cooperativo”, ma
competitivo, pone in competizione due attori i quali sostengono due
posizioni contrarie, quanto esclusive. La situazione così descritta
è tale da comportare che solo una delle due posizioni risulterà
vera. Il problema, però, è dato dal dilemma seguente: chi giocherà
per primo? Infatti, stante la natura della tesi in gioco, come
mostrato dalla coppia (A) – (B), il successo finale arriderà
solamente a chi muoverà per primo. Di conseguenza, è lo stagirita a
fare la prima mossa, esigendo che l'avversario “dica qualcosa”.
Dire qualcosa, però, significa utilizzare proprio il (PDNC) che
l'avversario, invece, intende negare. Pertanto, pur non volendo,
l'avversario è costretto ad utilizzare proprio quanto nega. A questo
punto, infatti, Aristotele ha buon gioco nel riscontrare la
contraddittorietà dell'avversario il quale prima sostiene di voler
negare il (PDNC) e dopo finisce con l'affermare (ossia: utilizzare)
il (PDNC). Ragion per cui, l'avversario si autoconfuta, cade in
contraddizione, commette una petizione di principio: per confutare il
(PDNC) utilizza il (PDNC). Ammessa quella clausola così
apparentemente “neutra”, Aristotele compie per primo la mossa e
si assicura il successo finale: l'avversario non è credibile in
quanto adopera proprio quello che vorrebbe negare. La mossa dello
stagirita è strategica perché impone all'avversario la sconfitta
dialettica. La limitazione pretesa, dire qualcosa che abbia
significato e per lui e per gli altri, allà
shemaínein
gé ti kaì autö
kaì állo,
segna la direzione che assumerà l'intera contesa. Ed è ben strano
che l'avversario lo faccia, che conceda tanto. Basterebbe, infatti,
che rimanesse in silenzio, senza operare movenze di assenso e/o di
dissenso, per non fare il gioco di Aristotele. Se, invece, come
sembra, l'avversario concede sia pure solamente questo, di dire
qualcosa di sensato e per lui e per (tutti) gli altri, ecco che, sia
pure inconsciamente, si sottomette alla signoria del (PDNC) che prima
non riconosceva come tale. Siccome così facendo cade in una
petizione di principio, su di lui ricade l'onere della colpa, ossia
la responsabilità della petizione stessa. Argomentando di
conseguenza, Aristotele decreta la fine della contesa a suo vantaggio
indicando nell'avversario l'intera responsabilità della
confutazione. Infatti, egli dice che il responsabile della petizione
non sarà colui che dimostra, ossia Aristotele stesso, ma colui che
provoca la dimostrazione, ossia l'avversario. Riutilizzando la nostra
coppia dialettica, la colpa della confutazione, della petizione,
dell'errore, chi è nel falso, in soldoni, non è (A), ossia il
sostenitore del (PDNC), ma (B), ossia il negatore del (PDNC),
paradossalmente proprio colui che chiede la dimostrazione, e non
colui che dimostra. D'altra parte, (B) appare, alla fin fine, uno
sciocco perché per confutare il (PDNC) finisce con l'utilizzarlo. Ma
è abile Aristotele a fargli ingoiare questo amaro boccone perché
chi concede la clausola di dire qualcosa di sensato e per sé e per
(tutti) gli altri, concede pure che v'è qualcosa di vero, ossia che
il (PDNC) esiste, indipendentemente dalla dimostrazione.
L'interlocutore (B) cade proprio dove avrebbe dovuto tenere,
passando, e contraddittoriamente, da un atteggiamento negativo ad un
atteggiamento affermativo, prima nega, poi afferma, il (PDNC).
Tuttavia,
quanto Aristotele intendeva, però, affermare con il gioco dialettico
qui rappresentato, è che il sofista, qualunque negatore del (PDNC),
sbaglia in partenza dato che il (PDNC) è la condizione stessa di
possibilità di discorsi sensati e per sé stesso e per tutti gli
altri. Ma solo nel momento in cui chiede, erroneamente, e fatalmente,
conto, ossia dimostrazione, può accorgersi del suo errore:
l'autoconfutazione è infatti la sanzione definitiva del “salto
mortale” al quale dovrebbe insanamente affidarsi per riuscire nel
suo intento, fare a meno del (PDNC). Come abbiamo visto, però, il
significato del (PDNC) ruota attorno a doppie movenze particolari,
(i) – (ii) e (a) – (b), le quali descrivono il ruolo non
emendabile dello stesso nello strutturare un pensiero razionale, ove
'razionale' sta per 'sensato', avente, cioè, un significato che
possa venir compreso da tutti. L'essenzialità del (PDNC), infatti,
si riverbera sull'intersoggettività dello stesso: in quanto
fondamento del pensiero, il (PDNC) viene adoperato, e compreso, da
tutti, senza che qualcuno possa pretendere di farne a meno.
(immagine tratta da: http://t1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRh029nhIShe4GNsgI8FtmO1WZy8tfQ_pymsu2q8Mv41CHr1GKb3g&t=1)
Note
[1]
Cfr. Aristotele,
Metafisica, Bompiani,
Milano, 2000, p. 145 (1005b 35 – 1006a 1 – 10).
[2]
Ivi, p. 131 (1003a
20).
[3]
Ivi, p. 143 (1005b
15).
[4]
Ibidem.
[5]
In Metafisica 1005b e
sg., Aristotele precisa come un discorso più articolato sul (PDNC)
sia già stato svolto negli Analitici,
opera confluita nel cosiddetto corpus
detto Organon, ossia
strumento (presumibilmente,
di conoscenza). Pertanto, l'allusione all'ignoranza,
come causa della richiesta, in sé assurda, di dimostrare la
dimostrazione, ossia il (PDNC), il principio più noto, più saldo,
di tutti, è sottilmente ironica: chi chiede conto del (PDNC), non ha
(mai) letto gli Analitici.
[6]
Ivi, p. 147 (1005b 11
– 15).
[7]
Ibidem.
E' il PdNC che fonda il Pensiero o il Pensiero che è il fondamento del PdNC?
RispondiEliminaOppure la distinzione Pensiero / Incontraddittorietà è essa stessa una distinzione contraddittoria, in quanto pensare è pensare-incontraddittoriamente o non è pensare (ossia sono un medesimo: e distinguere un medesimo, come tu fai, è assurdo perché impossibile).
Ma un altro aspetto:
"L'interlocutore (B) cade proprio dove avrebbe dovuto tenere, passando, e contraddittoriamente, da un atteggiamento negativo ad un atteggiamento affermativo, prima nega, poi afferma, il (PDNC)."
Intendendo qui PdNC quale dimostrazione della innegabilità dell'incontraddittorio, chiedo:
la negazione del principio è reale o no?
Se è reale, allora il principio è realmete negato (e non è affatto riaffermato, ma appunto è invalidato);
se invece non è reale la sua negazione, allora non è reale nemmeno la sua riaffermazione elenctica.
Come ne esci?
Caro Kumpel Marco, innanzitutto ti ringrazio per il tuo commento: vuol dire che il post, benché pessimo, è stato oggetto di lettura, peraltro attenta, da parte di qualcuno.
EliminaMa veniamo a noi, dato che non è affatto mia intenzione ignorare le obiezioni di terzi, oltre a non essere mia abitudine farlo.
Mi chiedi: “E' il PdNC che fonda il Pensiero o il Pensiero che è il fondamento del PdNC?”. Trovo che sia una reduplicazione, di per sé inutile, del problema. Infatti, potremmo, e provocatoriamente, riformulare il quesito nella forma seguente: il pensiero – con la ‘p’ minuscola – fonda il PDNC oppure è fondato dal PDNC? Così posta la problematica non ne usciamo. Infatti, qual è, se vi è, la distinzione tra pensiero e PDNC? Il pensiero è pensiero se, e solo se, funziona in conformità al PDNC, altrimenti abbiamo altro che non sia pensiero, ossia poesia, mito, narrativa, etc. Ma se il pensiero incorpora il PDNC, viene meno l’obiezione: non è che il PDNC fondi il pensiero e/o il pensiero sia fondamento del PDNC. No?
Ma passiamo alla seconda obiezione, di per sé, più interessante. Citando un mio passo, argomenti: “Intendendo qui PdNC quale dimostrazione della innegabilità dell'incontraddittorio, chiedo:
la negazione del principio è reale o no?”. Bene. Assumiamo che la negazione sia reale, di conseguenza, dici, il PDNC sarebbe realmente negato, e, quindi, invalidato. Problema: negare non equivale ad invalidare. La negazione, proprio in quanto tale, deve essere dimostrata, cioè reggere l’onere della prova. Onere che lo svolgimento stesso del movimento elenctico in Aristotele esclude in partenza. Detto altrimenti, per quale motivo ammesso, e non concesso, che la negazione del PDNC sia reale, dovremmo concludere che sia inutile proseguire il discorso dato che il PDNC verrebbe meno? E, per di più, chi o cosa ci assicura che così procedendo noi non si stia adoperando propriamente il PDNC che si nega e che vorremmo non più valido? Di conseguenza, la negazione del PDNC dovrebbe essere ipotetica. Ma, sostieni tu, “se invece non è reale la sua negazione, allora non è reale nemmeno la sua riaffermazione elenctica”. E per quale motivo, che possa dirsi sensato? Peraltro, mi pare che tu stia equivocando tra dimostrazione elenctica e sussistenza del PDNC iuxta propria principia. Intendo dire: Aristotele ha l’ardire di dire l’indicibile, vale a dire elevare alla dimensione di parola quanto quest’ultima, per virtù, presuppone. In altri termini, il logos non può parlare di sé stesso, pena o l’equivoco o il fraintendimento o l’errore o il girare a vuoto … la parola non può parlare dei presupposti o fondamenti della parola stessa! Tant’è che lo stagirita, infatti, evita questo problema partendo dal negatore del PDNC, senza in prima persona assumere l’onere dell’inevitabile prova che, in caso contrario, gli verrebbe, e giustamente, richiesta (parli del PDNC, bene dimostralo!). Ora, la dimostrazione elenctica nega la posizione del negatore del PDNC. Ci troviamo, cioè, in una posizione derivata e indiretta di confronto sul PDNC, oggetto al di fuori della portata stessa della parola o logos … Ma concediamo che la tua obiezione sia fattibile, ecco come ne esco: non è forse vero che per poter distinguere, e in maniera sensata, tra le due alternative, e per cogliere anche la presenza stessa di eventuali contraddizioni e incoerenze, non necessitiamo appunto del PDNC? Dunque, ti chiedo: possiamo davvero uscire dallo spazio di parola concessoci dal PDNC?
Chiusa finale: il gioco retorico di Aristotele è chiaramente una finzione, ma è drammaticamente efficace non tanto per la confutazione del confutatore del PDNC, il quale, a rigore, manco potrebbe sognarsi di costituirsi in quanto tale, dato che, a sua volta, dovrebbe proprio far uso del PDNC; ossia di quel che vorrebbe negare, ma nel momento iniziale del movimento elenctico, vale a dire quando pone l’unica condizione essenziale per lo spazio del discorso: dire cose che abbiano senso e per me e per te, pena il silenzio delle piante.
1/2
EliminaGrazie, Alessandro per la puntuale e tempestiva risposta.
Visto l'interesse e la rigorosità a cui richiami, mi permetto di proseguire ancora un po'.
Premetto che non è affatto mio intenzione né negare (come potrei?) il PdNC né intendere il pensiero in senso irrazionalistico-volontaristico o svincolarlo dall'incontraddittorietà... bensì, più radicalmente (se possibile, chiedermi se sia possibile determinare "che cosa" sia effettivamente incontraddittorio e se, data la identità che riconosco tra pensiero e incontraddittorietà, se sia possibile determinare "cosa sia" pensiero.
Tu scrivi: Il pensiero è pensiero se, e solo se, funziona in conformità al PDNC, altrimenti abbiamo altro che non sia pensiero
Chiedo:
hai identificato pensiero = funzione? (in tal caso il pensiero coincide con il PdNC, che ricordiamolo è la formulazione dell'incontraddittorietà, ma NON è l'incontraddittorietà quale principialità che - infatti - domina (arché da "archomai", appunto) e presiede la stessa dimostrazione elenctica detta "principio di non-contraddizione".
Ma su quale base ti permetti di dire pensiero = funzione?
E' possibile o non è, attualisticamente, contraddittorio oggettivare il pensiero (fare del pensiero un pensato)?
Ma - aggiungo - anche "poesia, mito, narrativa, etc" sono anch'essi pensiero (autocoscienza in atto), altrimenti se li escludi, non finiresti per compiere un altra azione impossibile: limitare il pensiero?
2/3
EliminaInsomma, per andare al punto senza nasconderci:
la mia obiezione iniziale intendeva suggerire l'idea che il Pensiero (maiuscolo, ché non è né mio né tuo né di Aristotele o di Hegel...) è l'Incontraddittorio ut sic, ma non coincide con il PdNC intenso come formulazione elenctica dell'Incontraddittorio stesso, o ,meglio, della sua innegabilità.
Perché, questo il tema della secondo "provocazione" l'élenchos abbisogna - aporeticamente - della negazione in actu signato dell'incontraddittorio:
tale negazione che statuto ha?
A ben vedere non può essere NE' ipotetica NE' reale...
E questo è un problema, un'aporia che se non risolta renderebbe contraddittorio lo stesso PdNC (quale formulazione del Principio, Fondamento, Originario).
Tu prospetti questa uscita:
negare non equivale ad invalidare. La negazione, proprio in quanto tale, deve essere dimostrata, cioè reggere l’onere della prova
Come no? Se si pone la negazione (cioè la contraddizione) la validazione dell'incontraddittorio è già bell'e persa, e per sempre.
Ed è la negazione il fulcro della "prova", come potresti provarla essa stessa... se non con altra (cioè ancora) negazione?
In altre parole: se la negazione dell'incontraddittorio si ponesse (porsi-per-togliersi) allora si porrebbe incontraddittoriamnete la contraddizione... e non la toglieremmo MAI.
Viceversa, se la contraddizione (= negazione del principio) non si pone, la sua (ri)affermazione è solo presupposta: infatti, la negazione ed il suo autotoglimento non è effettivo.... quindi, nemmeno ciò che risulta da tale autotoglimento (= la riaffermazione) è effettivo, ossia non è dimostrato universalmente.
Se, cito: "Onere [= porsi della negazione, ndr] che lo svolgimento stesso del movimento elenctico in Aristotele esclude in partenza" allora non risulta alcunché!
Il cuore del problema è: il negatore, la negazione del PdNC (anche come autonegazione) è o non è?
Non può essere "finzione" perché allora sarebbe retorica, non dimostrazione "logica" (tu insisti sul punto "confutatore del PDNC, il quale, a rigore, manco potrebbe sognarsi di costituirsi in quanto tale": allora, resta tutto indimostrato, postulato, ipotetico: innegato, non innegabile!)
Se, invece, l'élenchos "dipende" dal porsi della negazione, le conseguenze sono catastrofiche...
Oppure, se si "ignora" il porsi della negazione , la conseguenza è altra ma altrettanto catastrofica, ossia il PdNC si autolimiterebbe, lasciando un ambito (per quanto insondabile) in cui esso rinuncia a vigere... è quanto tu prospetti: "Ci troviamo, cioè, in una posizione derivata e indiretta di confronto sul PDNC, oggetto al di fuori della portata stessa della parola o logos …", ma nulla è fuori della portata del logos (il "limite" del pensiero, essendo pensato, non è "limite" al pensiero).
NESUNA delle due conseguenze può essere tollerata, questo il punto! Ma come?
Dici, giustamente: "Ma concediamo che la tua obiezione sia fattibile, ecco come ne esco: non è forse vero che per poter distinguere, e in maniera sensata, tra le due alternative, e per cogliere anche la presenza stessa di eventuali contraddizioni e incoerenze, non necessitiamo appunto del PDNC? "
Ma questo dice soltanto: Vedi che è in funzione?
Ma io - testardamente - insisto: che sia in funzione non significa che non possa cessare, non significa che non vi sia un momento in cui abbia iniziato funzionare: insomma,non vale la funzionalità quale fondazione...
3/3
EliminaAristotele ha l’ardire di dire l’indicibile, vale a dire elevare alla dimensione di parola quanto quest’ultima, per virtù, presuppone
E' proprio questo il rischio massimo: la conseguenza è imponderabile: ridurre il Pensiero a Parola, cioè a piano semantico (vedi Severino!).
Il mio intento è suggerire - ma dimostrativamente (perché i due corni della seconda obiezione [negazione reale? negazione ipotetica?] che non mi hai risolto, pur propendendo per il secondo, ma non svolgendolo perché non puoi... - è in realtà il "mio" élenchos per impedire che il Pensiero sia identificato con la sua Formulazione elenctica (=Parola)....!
E lo riconosci tu stesso: In altri termini, il logos non può parlare di sé stesso… la parola non può parlare dei presupposti o fondamenti della parola stessa!
APPUNTO!
Ergo, pensiero non è parola!
Ergo, pensiero è il riconoscimento della formulazione elenctica... cioè ne è il fondamento, non è da essa fondato (per tornare alla prima obiezione, che h a liquidato forse troppo presto).
Ma aggiungi: pur parlando sempre e solo di se stesso (tautò-loghein), dal momento che non vi è un "qualcosa" di esteriore al pensiero di cui esso possa o debba parlare... ma tutto ciò che il pensiero dice è pensiero: si badi "pensiero pensato"
Grato per una tua disponibilità a proseguire, ti saluto cordialmente... d anticipatamente auguro Buon Festività... e l'augurio è "incontraddittorio" ;-)
Marco
Caro Marco, nel ringraziarti per la tua devozione al dialogo, peraltro in un terzo luogo così scomodo come un breviario di commenti e risposte, mi scuso per il ritardo nel renderti conto ma solo oggi ho potuto leggere le tue repliche. E scusa anche il tono sintetico delle mie repliche. Ma cominciamo.
Elimina1. Non so cosa sia il pensiero, e non penso di potermi accingere ad una tale impresa, almeno non in tempi rapidi. Magari tra cinquant'anni, forse ...
2. Francamente, non mi avvedo della ragione sensata delle tue obiezioni dal momento che, a mio modestissimo avviso, tutto sta nelle condizioni iniziali poste dallo stagirita: dire qualcosa di sensato per me e per te, tutto il resto è silenzio. In effetti sì, avevo esagerato: non qualsiasi parola è parola ...
3. Il dire qualcosa di sensato equivale a dire qualcosa di determinato. E qui cominciano i guai. Infatti, per poter dire qualcosa di determinato serve, ma non solo, il PDNC. Altrimenti, il nostro discorrere sarebbe un mero flusso vocalico, nient'altro!
4. Francamente, ma senza appoggi o fonti autorevoli dalla mia parte, penso pure che la maggior parte dei problemi, così come delle difficoltà, ad arrendersi al gioco ingannatore di Aristotele stia nel non cogliere la natura ibrida del PDNC. Infatti, quel che lo stagirita chiama così, ovvero il divieto di contraddizione, è una nozione sfumata che assomma in sé tanto parte del PDNC ma anche parti del principio del terzo escluso e del principio di identità ... già! Senza riconoscere ciò, e senza averne piena contezza, non si "vede" l'evidenza del procedere di Aristotele.
5. Peraltro, possiamo parlare del principio del parlare?
6. E della natura del pensiero?
7. Concordo, comunque, con te: l'incontraddittorio non è la stessa cosa del pensare.
8. Spero di non avere dimenticato nulla e, of course, ti auguro coerentemente buone festività.
Caro Alessandro,
Eliminagrazie a te, ovviamente.
Proseguo per un ultimo tratto, sinteticamente.
1. Non lo so neppure io "che cosa" sia, perché non lo si può sapere!
Saperlo richiederebbe di dover oggettivare il pensiero...
Senonché ad oggettivarlo sarebbe di nuovo il pensiero stesso, che dovrebbe restare inoggettivato, cioè risulta impossibile oggettivarlo (perché la oggettivazione non si pone).
Sappiamo solo questo: che non è oggettivabile (quindi che non una cosa".
Ma inferire: non è oggettivabile, quindi non esiste, è falso.
2.3.
D'accordissimo che dire qualcosa (aggiungi: pensare qualcosa) è dire/pensare qualcosa di determinato.
Quindi, sarebbe più corretto denominarlo Principio di determinazione (che di non-contraddizione).
Il punto - con Hegel - sarebbe vedere se il determinato (finito) non sia esso stesso contraddittorio intrinsecamente...
Ma limiterei il tutto ad una domanda secca:
la negazione dell'incontraddittorietà si pone REALMENTE o no? (anche nella forma più accorta - cioè qualificandola come "autonegazione" - tale autonegazione è REALE o no?)
Se è reale, allora ha vinto lei e il pdnc è invalidato.
Se è ipotetica, ipotetico è anche ciò che risulta dal suo porsi (o autotogliersi) cioè ipotetica è la validazione universale del pdnc.
Resterebbe presupposto a se stesso, e operante (nessuno lo nega!) ma operante come innegato, non come innegabile.
Cioè la domanda fondamentale è:
la contraddizione SI PONE, APPARE o no?
Tu scrivi cosa abbastanza grave rispetto alla maestà" che il pdnc pretende:Infatti, per poter dire qualcosa di determinato serve, ma non solo, il PDNC
Ne fai una funzione eminentemente pratica, applicata alla teoresi...
Sì, è vero: non-contraddizione ed identità sono un medesimo principio sotto aspetti differenti.
Concordo.
E' per questo che la stessa formulazione elenctica è formulazione NELL'identità, ma non DELL'identità (cfr. "oggettivazione" del pensiero di cui a pto 1.)
5.
Sì, natura del dire è "riferire" (significare).
Il pensiero è la coscienza di tale natura del linguaggio mediante cui il pensiero si esprime, ma con il quale non coincide.
Per questo a 6. rispondo di no.
Ciao, e ancora auguri.
Marco
Caro Marco, in tutta franchezza penso che la negazione non possa per principio porsi realmente dal momento che, per il gioco dialettico di cui sopra, per negare qualcosa si deve adoperare proprio il principio negato, Sì, in effetti, il PDNC è quel che chiamiamo noi il divieto di contraddizione, ma probabilmente non è lo stesso firmissimum principium di cui parla Aristotele e che intende difendere dagli strali sofistici. Tendo ad interpretare quest'ultimo con un combinato di PI (principio di identità), PDNC e PTE (principio del terzo escluso). Se poi mi chiedi se intendo dei principi veri e propri o delle funzioni del pensiero, mi scopro impreparato. Intanto, però, li identifico con delle precise funzioni linguistiche, PI corrisponde all'asserzione o individuazione (X è), il PDNC corrisponde alla negazione (X non è) mentre il PTE alla distinzione (X è o X non è). Pensare di poter ragionare o parlare senza l'azione combinata di PI, PDNC e PTE è mera immaginazione o un volo sfrenato della fantasia (che comunque continua ad adoperare il PI, il PDNC e il PTE per poter funzionare)! Ben altra cosa sarebbe, e penso che sia esattamente questa la tua prospettiva, identificare questi ultimi con momenti esatti del pensiero. Sarebbe da approfondire, ma in altra sede, certo non qui. Infine, ritengo che Aristotele non dimostri (e come potrebbe?), ma confuti il negatore del principio, chiunque esso sia. E d'altra parte ne parlo nei termini di un ingannatore, ovvero di un contendente dialettico che, con la bravura delle parole, inganna il suo prossimo. Si tratta di una negazione reale o solo ipotetica? Ribalto la domanda: cambierebbe qualcosa? Data la natura ingannatoria del gioco dialettico innescato dallo stagirita, penso proprio di no. E qui chiudo il confronto. Ciao, e a risentirci.
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