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Visualizzazione post con etichetta Aristotele; elenchòs; principio di non contraddizione. Mostra tutti i post
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mercoledì 11 settembre 2013

Disputatio et confutatio ...

"[…] per via di confutazione: a patto, però, che l'avversario dica qualcosa [échonta lógon]. Se, invece, l'avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad una pianta. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell'esigere che l'avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è […] ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece, l'avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, egli sia avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c'è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione"

(Aristotele, Metafisica 1005b 11 - 15)


Quanta storia c'è in queste stringate parole?



Quanta verità si raccoglie entro ciascun rigo?



Quanto respiro si nasconde dietro ogni parola?



Quanti sospiri ci celano all'ombra di una prosa contratta?



Quanti luoghi polemici sono appena indicati allusivamente?



E dove cadono queste nostre domande?



Aristotele delinea il quadro d'insieme della sua confutazione del negatore del principio di non contraddizione ma, per ragioni più che ovvie, non può soffermarsi più di tanto sulla dimostrazione di quest'ultimo.



Per pudore, preferisce tacere sul render conto della richiesta dell'avversario e far ricadere su quest'ultimo tutto l'onere della prova!



E d'altra parte, come avrebbe potuto far diversamente? Pena l'auto-contraddizione, non si dà dimostrazione del principio alla base di qualsiasi dimostrazione ...



Aristotele evita appunto la circolarità ricorrendo alla polarità del gioco dialettico e rendendo responsabile dell'errore proprio l'avversario che chiede conto del principio.



Una soluzione forse capziosa, a dir poco "bizantina", ma efficace: dì almeno qualcosa di determinato, mio caro sofista, se riesci (senza adoperare quel che vorresti negare)!



E questo proprio perché adopera quel che vuol negare, il sofista riesce a negare il principio medesimo. Ma questo è già un dire qualcosa di determinato, appunto che cade sotto il principio stesso. Allora, come fai a negare ed affermare assieme? Solo per ignoranza, puoi far ciò, dice Aristotele, dal momento che già per dire qualcosa bisogna utilizzare quel che si vorrebbe negare ...



Non convince del tutto? Eppure la contesa dialettica inchioda entrambe le parti:


1. l'assertore del principio, dal momento che non può né farne a meno né dimostrarlo direttamente, pena l'auto-contraddizione (o, il che è lo stesso, la circolarità);
2. il negatore del principio, dal momento che non può né farne a meno, pur volendolo negare, né richiederne dimostrazione diretta, pena l'auto-contraddizione.



L'unico ad uscirne però con le ossa davvero rotte è il (2): in ogni caso, colui sul quale ricade la responsabilità della petitio principii. Paradossalmente, deve poter utilizzare quanto vorrebbe negare ..



E così si conclude la nostra storia, folks! Aristotele wins, il sofista perde.





(immagine tratta da: http://t3.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcQ78YKfgFvTOw_x8hCpWmwLJXrPXB_KCdpl14yG8BnoGrYGSTky)

martedì 28 agosto 2012

Aristotele ... l'ingannatore! Dialettica nell'elenchos


[Quanto segue riprende idealmente un discorso già avviato ed espresso in questo post. Il presente, invece, desidera analizzare in termini dialettici la dimostrazione indiretta che Aristotele offre del principio di non contraddizione. SI tratta ancora di una bozza, ma presenta già molti aspetti interessanti]

Il dilemma della “prima mossa” nell'elenchòs aristotelico

Il topos classico, per quanto concerne il principio di (non) contraddizione (PDNC) è certamente Metafisica IV. ove Aristotele cerca di dimostrare la natura fondamentale dello stesso, evitando nel contempo di cadere in una facile petitio principii, data la sua strutturazione esigenziale.
Possiamo leggere, nella traduzione del Reale, come

Ci sono alcuni […] i quali affermano che la stessa cosa può essere e non essere, e, anche, che in questo modo si può pensare […] Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più sicuro di tutti i principi. Ora alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato: infatti è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all'infinito, e in questo modo, per conseguenza non ci sarebbe affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una dimostrazione, essi non potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione [1]

Solo chi ignora il (PDNC) potrebbe, a detta dello stagirita, desiderarne anche una dimostrazione. Questo, però, è impossibile dato che esso è il principio alla base di tutto. Anzi, Aristotele sembra anche dire che è proprio grazie all'esistenza del (PDNC) che è possibile fornire dimostrazione di altri principi. Di conseguenza, il (PDNC) regge l'intero edificio speculativo, assicurando sensatezza, coerenza, credibilità, verità alle proposizioni di quest'ultimo. La stessa metafisica, in quando scienza che mira a studiare l'essere in quanto essere, si fonda sul (PDNC), a sua volta, pertanto, garanzia di dimostrazione. Pertanto, come può il (PDNC) esaudire i desideri degli ignoranti i quali, non convinti della bontà dello stesso, chiedono una sua dimostrazione? Simpliciter, il (PDNC) non può dimostrare il (PDNC): un procedere in questo modo sarebbe vizioso, circolare. Se il (PDNC) cercasse di dimostrare sé stesso avremmo la situazione paradossale, quanto innaturale, seguente: lo strumento della dimostrazione che desidera dimostrare sé stesso. Come può il (PDNC) dimostrare il (PDNC)? Come può lo strumento farsi a sua volta fine? E come può darsi, in ultima istanza, questo fine se si dovrebbe realizzare la condizione seguente: uno strumento che si fa strumento di sé? Per questo motivo, solo per ignoranza, dià apaideusían, si può volere una dimostrazione del (PDNC), chiederne una prova: è solo in virtù del (PDNC) che è possibile dare dimostrazione. Come chiedere dimostrazione dell'organo di ogni dimostrazione? Semplicemente, non è possibile, è insensato farlo.
In precedenza, sempre Aristotele aveva sottolineato la natura essenziale del (PDNC) per una scienza dell'essere in quanto essere, episthéme tis hé theoreî tò òn hê òn [2], e, per lo stesso motivo, i medievali hanno coniato la famosa espressione firmissimum principium, ossia il principio più saldo (di tutti), peraltro traduzione latina dell'espressione aristotelica bebaiotáte archè, principio saldissimo [3].

Come mai lo stagirita, se il (PDNC) è a fondamento di qualsiasi conoscenza possibile, avverte il bisogno di dimostrare, entro certi limiti, proprio tale natura? Non dovrebbe, forse, essere già evidente? Lo stesso aveva precisato in precedenza come

il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto […] e deve essere un principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere una mera ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. È evidente,dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti [4]

Appare la doppia la determinazione essenziale che Aristotele attribuisce al (PDNC): (i) la non ipoteticità (e, quindi, l'apoditticità); e, (ii) l'essenzialità. Con (i), Aristotele intende asserire come il (PDNC) sia apodittico nel senso che un'ipotesi non faccia né conoscenza né condizione di possibilità per quest'ultima. Piuttosto, il (PDNC) è condizione stessa di possibilità per qualsivoglia conoscenza. Ragion per cui, non può essere una mera ipotesi. Con (ii), Aristotele intende affermare come il (PDNC) è l'essenza della conoscenza, ossia il fondamento (infondato) del pensiero umano. Senza il (PDNC) non può esservi conoscenza in un duplice senso, e conseguente alla determinazione doppia di cui sopra: (a) senza l'apoditticità del (PDNC), non v'è pensiero; e, (b) senza pensiero fondato sul (PDNC), non v'è conoscenza. Solo gli ignoranti (di queste ultime cose, doppia determinazione e duplice senso) possono, a torto, chiedere soddisfazione del (PDNC). Almeno ad Aristotele le cose appaiono chiare e piane.
Eppure, anche al suo tempo, non mancavano i detrattori dello stesso secondo i quali, grosso modo, era la contraddizione stessa l'anima delle cose, il dissidio insanabile tra negazioni a reggere le cose del mondo, a configurarsi quale principium della realtà. Da qui il doppio problema che Aristotele cerca di affrontare nella Metafisica: (1) da un alto, dimostrare come erri chi nega la vigenza del (PDNC); e, (2) dall'altro lato, indicarne la natura essenziale, senza però autoconfutarsi. Affrontare il problema (1) sembrerebbe, a prima vista, cosa più facile rispetto a superare il problema (2) dato che chi non rispetta il (PDNC) non dice cose sensate, ossia cose da prendere sul serio, cose coerenti, cose razionali, cose comprensibili. Questa la gamma di valori che Aristotele racchiude entro le formulazioni epistemica, logica e metafisica, del (PDNC): si riesce a dire cose comprensibili anche da altri se, e solo se, si rispetta il divieto di contraddizione. Pertanto, impossibile sarà: (a) credere entrambe vere due negazioni in contraddizione; (b) asserire come entrambe vere due negazioni contraddittorie; e, (c) vedere due principi l'uno negazione dell'altro (ma si potrebbe parlare al riguardo anche di molti più principi). Queste tre impossibilità si raccordano ovviamente (e come potrebbe essere diversamente) con la doppia determinazione (i) – (ii) e con il duplice senso (a) – (b). anzi, si potrebbe anche dire che si tratti di dovute conseguenze.
Ma se gli stolti, gli ignoranti [5], possono sbagliarsi nel chiedere conto di offrire una dimostrazione anche per la condizione di possibilità della dimostrazione in sé stessa, nondimeno Aristotele non si perde d'animo ed offre quella che, a suo dire, è una dimostrazione indiretta del (PDNC):

Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l'impossibilità in parola per via di confutazione [6].

E siamo così alla famosissima, a mio sommesso parere, anche giustamente tale, dimostrazione per confutazione di Aristotele, meglio nota anche come elenchòs (che, a dire il vero, significherebbe solamente confutazione). Ricapitolando, però, per ovvie esigenze di chiarezza espositiva, Aristotele nega che sia possibile una dimostrazione diretta del (PDNC), perché ciò comporterebbe l'assurdo teoretico di un (PDNC) che operi sul (PDNC), ossia su sé stesso, un oltrepassamento epistemico di confini che nemmeno il (PDNC) può permettersi di sognare. Sempre, lo stagirita, per, reputa possibile una dimostrazione indiretta del (PDNC), ossia una sorta di dimostrazione che, in parola, consenta mostrare l'erroneità della richiesta del negatore del principio. Questo dimostra l'elenchòs: che è impossibile fare a meno del (PDNC), per indimostrato che quest'ultimo resti. Se il (PDNC) non può dimostrare sé stesso, allora sarà possibile dimostrare che è in errore chi nega il (PDNC). Un altro modo, ai tempi di Aristotele, per realizzare il brocardo seguente: se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. Si tenga però in considerazione la limitazione che Aristotele pone a tale dimostrazione per confutazione: in parola e per via di confutazione, deïxai elenctikōs. Come a dire che non si tratta di una vera e propria dimostrazione, di per sé impossibile da realizzarsi, ma di una simulazione dimostrativa la quale ha palesemente il carattere della sconfessione per quanti neghino la validità del (PDNC). Detto altrimenti, quanto Aristotele si accinge a fare è ingaggiare uno scontro dialettico con i nemici del (PDNC) al fine di mostrare come questi ultimi siano in errore poiché per negare la validità al (PDNC) bisogna utilizzare proprio il (PDNC), ossia quanto si vorrebbe eliminare. Pertanto, sono contraddittori gli stessi negatori del (PDNC): per dimostrare la contraddittorietà di qualcosa bisogna pur adoperare il (PDNC). Di conseguenza, come si può pretendere di farne a meno? Ma non anticipiamo troppo gli esiti e il filo del discorso, procediamo con più metodo.
La situazione attuale è, grosso modo, la seguente: vi sono due interlocutori in contrasto tra loro, l'uno asserisce la natura essenziale del (PDNC), l'altro, invece, nega la natura essenziale del (PDNC). Per dirimere la controversa vi sarebbe una strada obbligata, la dimostrazione del (PDNC). Ma nel caso presente, la cosa appare quantomeno problematica: può il (PDNC) dimostrare il (PDNC)? Una dimostrazione diretta, pertanto, appare una strada non percorribile. Resta un'unica alternativa: una dimostrazione indiretta. Cosa s'intende con quest'ultima locuzione? Sicuramente, una dimostrazione che si concluda con la sconfitta dialettica di una delle due parti. Lo stagirita propone di procedere in questo modo:

(A) esiste il (PDNC) (posizione del primo interlocutore);
(B) non esiste il (PDNC) (posizione del secondo interlocutore).

Chi ha ragione (e chi torto)? Aristotele percorre un sentiero contorto al termine del quale appare inequivocabile l'errore di (B), ossia del secondo interlocutore, altrimenti del negatore del (PDNC). Infatti, come può reggersi (B) senza far ricorso al medesimo (PDNC) che vorrebbe negare? DI conseguenza, la posizione del secondo interlocutore, del negatore del principio, dei nemici del (PDNC) è contraddittoria: o si fa del tutto a meno del (PDNC), dato che non vi si crede, e, quindi, qualsiasi proposizione asserita diventa arbitraria, opinabile, oppure ci si giova del (PDNC), si evita di asserire proposizioni erronee, di assumere comportamenti contraddittori. Per negare che esista il (PDNC), alla fin fine, risulta necessario far uso dello stesso (PDNC), ossia di quanto si desiderava fare a meno, negare, confutare. Qui Aristotele celebra la sua vittoria dialettica: (B) perde perché si contraddice, ossia, in parola, si autoconfuta, utilizzando proprio quello che voleva confutare.
Forse, però, è bene cedere il passo al ben noto discorso aristotelico:

[…] per via di confutazione: a patto, però, che l'avversario dica qualcosa [échonta lógon]. Se, invece, l'avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad una pianta. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell'esigere che l'avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è […] ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece, l'avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, egli sia avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c'è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione[7]

Aristotele ha descritto in questo passo le movenze di un gioco dialettico che, proprio per il suo non essere un “gioco cooperativo”, ma competitivo, pone in competizione due attori i quali sostengono due posizioni contrarie, quanto esclusive. La situazione così descritta è tale da comportare che solo una delle due posizioni risulterà vera. Il problema, però, è dato dal dilemma seguente: chi giocherà per primo? Infatti, stante la natura della tesi in gioco, come mostrato dalla coppia (A) – (B), il successo finale arriderà solamente a chi muoverà per primo. Di conseguenza, è lo stagirita a fare la prima mossa, esigendo che l'avversario “dica qualcosa”. Dire qualcosa, però, significa utilizzare proprio il (PDNC) che l'avversario, invece, intende negare. Pertanto, pur non volendo, l'avversario è costretto ad utilizzare proprio quanto nega. A questo punto, infatti, Aristotele ha buon gioco nel riscontrare la contraddittorietà dell'avversario il quale prima sostiene di voler negare il (PDNC) e dopo finisce con l'affermare (ossia: utilizzare) il (PDNC). Ragion per cui, l'avversario si autoconfuta, cade in contraddizione, commette una petizione di principio: per confutare il (PDNC) utilizza il (PDNC). Ammessa quella clausola così apparentemente “neutra”, Aristotele compie per primo la mossa e si assicura il successo finale: l'avversario non è credibile in quanto adopera proprio quello che vorrebbe negare. La mossa dello stagirita è strategica perché impone all'avversario la sconfitta dialettica. La limitazione pretesa, dire qualcosa che abbia significato e per lui e per gli altri, allà shemaínein gé ti kaì autö kaì állo, segna la direzione che assumerà l'intera contesa. Ed è ben strano che l'avversario lo faccia, che conceda tanto. Basterebbe, infatti, che rimanesse in silenzio, senza operare movenze di assenso e/o di dissenso, per non fare il gioco di Aristotele. Se, invece, come sembra, l'avversario concede sia pure solamente questo, di dire qualcosa di sensato e per lui e per (tutti) gli altri, ecco che, sia pure inconsciamente, si sottomette alla signoria del (PDNC) che prima non riconosceva come tale. Siccome così facendo cade in una petizione di principio, su di lui ricade l'onere della colpa, ossia la responsabilità della petizione stessa. Argomentando di conseguenza, Aristotele decreta la fine della contesa a suo vantaggio indicando nell'avversario l'intera responsabilità della confutazione. Infatti, egli dice che il responsabile della petizione non sarà colui che dimostra, ossia Aristotele stesso, ma colui che provoca la dimostrazione, ossia l'avversario. Riutilizzando la nostra coppia dialettica, la colpa della confutazione, della petizione, dell'errore, chi è nel falso, in soldoni, non è (A), ossia il sostenitore del (PDNC), ma (B), ossia il negatore del (PDNC), paradossalmente proprio colui che chiede la dimostrazione, e non colui che dimostra. D'altra parte, (B) appare, alla fin fine, uno sciocco perché per confutare il (PDNC) finisce con l'utilizzarlo. Ma è abile Aristotele a fargli ingoiare questo amaro boccone perché chi concede la clausola di dire qualcosa di sensato e per sé e per (tutti) gli altri, concede pure che v'è qualcosa di vero, ossia che il (PDNC) esiste, indipendentemente dalla dimostrazione. L'interlocutore (B) cade proprio dove avrebbe dovuto tenere, passando, e contraddittoriamente, da un atteggiamento negativo ad un atteggiamento affermativo, prima nega, poi afferma, il (PDNC).
Tuttavia, quanto Aristotele intendeva, però, affermare con il gioco dialettico qui rappresentato, è che il sofista, qualunque negatore del (PDNC), sbaglia in partenza dato che il (PDNC) è la condizione stessa di possibilità di discorsi sensati e per sé stesso e per tutti gli altri. Ma solo nel momento in cui chiede, erroneamente, e fatalmente, conto, ossia dimostrazione, può accorgersi del suo errore: l'autoconfutazione è infatti la sanzione definitiva del “salto mortale” al quale dovrebbe insanamente affidarsi per riuscire nel suo intento, fare a meno del (PDNC). Come abbiamo visto, però, il significato del (PDNC) ruota attorno a doppie movenze particolari, (i) – (ii) e (a) – (b), le quali descrivono il ruolo non emendabile dello stesso nello strutturare un pensiero razionale, ove 'razionale' sta per 'sensato', avente, cioè, un significato che possa venir compreso da tutti. L'essenzialità del (PDNC), infatti, si riverbera sull'intersoggettività dello stesso: in quanto fondamento del pensiero, il (PDNC) viene adoperato, e compreso, da tutti, senza che qualcuno possa pretendere di farne a meno.


(immagine tratta da: http://t1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRh029nhIShe4GNsgI8FtmO1WZy8tfQ_pymsu2q8Mv41CHr1GKb3g&t=1)

 Note

[1] Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 145 (1005b 35 – 1006a 1 – 10).
[2] Ivi, p. 131 (1003a 20).
[3] Ivi, p. 143 (1005b 15).
[4] Ibidem.
[5] In Metafisica 1005b e sg., Aristotele precisa come un discorso più articolato sul (PDNC) sia già stato svolto negli Analitici, opera confluita nel cosiddetto corpus detto Organon, ossia strumento (presumibilmente, di conoscenza). Pertanto, l'allusione all'ignoranza, come causa della richiesta, in sé assurda, di dimostrare la dimostrazione, ossia il (PDNC), il principio più noto, più saldo, di tutti, è sottilmente ironica: chi chiede conto del (PDNC), non ha (mai) letto gli Analitici.
[6] Ivi, p. 147 (1005b 11 – 15).
[7] Ibidem.