F. Mazzocchio, Le vie
del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in K.-O.
Apel, Mimesi, Milano, 2011, pp.
224, € 18,00.
Il presente volume di
Fabio Mazzocchio, edito da Mimesis, affronta il confronto serrato
condotto da Karl Apel con il pensiero postmoderno contemporaneo
intorno a due argomenti ben precisi, e delimitati: (a)
l'intersoggettività; e, (b) la fondazione.
Personalmente ho
conosciuto, e frequentato, l'autore in due occasioni particolari del
mio percorso, umano e professionale, prima presso la SISS, nel
biennio 2002 – 2004, e successivamente nel corso del XVIII Ciclo
del Dottorato di Ricerca in Filosofia presso lo stesso Ateneo
palermitano. Ora, la lettura del suddetto volume aumenta in me il
rammarico di non aver conosciuto l'autore in misura maggiore di
quanto, invece, io non abbia fatto. Vero è che non si piange sul
latte versato, ma l'amaro in bocca resta lo stesso.
Il testo si scandisce in
due capitoli, il primo dedicato alla “difesa della ragione” (p.
15 e sgg.), e il secondo dedicato, invece, alla “fondazione
trascendental-pragmatica” (p. 99 e sgg.). Infine, v'è anche una
conclusione che tira le somme del discorso articolato in precedenza.
L'interesse prioritario
che dovrebbe condurre il lettore è l'originalità della risposta che
Apel fornisce ad una delle questioni “classiche” del discorso
filosofico in generale: perché essere razionali? La strategia di
risposta non consiste in un mero recupero di una certa tradizione
anteriore agli ultimi esiti del XX secolo, ma un fare con questi
ultimi i dovuti conti. Solo così appare possibile riscoprire la
ragione, operandone una rifondazione, stavolta su basi innovative,
trascental-pragamtiche. In questo modo, il logos
del classico discorso filosofico viene “salvato”, facendolo
passare attraverso le rapide della semiotica moderna, del
linguistic-turn
novecentesco, e, infine, last but not least,
attraverso il “depotenziamento” postmoderno della teoria. Questo
perché l'orizzonte fondativo del logos
può essere riabilitato solo sotto la forma di una lingua
(p. 23 e sgg.) capace di render conto del processo conoscitivo umano
evitando, però, nel contempo, anche il solipsismo di certe
costruzioni moderne. D'altra parte, sarebbe da sciocchi far finta di
niente davanti all'epistemologia novecentesca, con Khun e Popper,
davanti alla riscoperta della semiotica, da parte di Peirce, davanti
all'erosione del pensiero, con Heidegger, Gadamer, Wittgenstein, al
rovesciamento di prospettiva, nei rapporti di forza, tra “pensiero”
e “linguaggio”, con Austin, Searle, all'inibizione della teoria,
con Derrida, Deleuze, Lyotard, Foucault, Rorty. Allo stesso tempo,
però, Apel si fa profondo interprete del bisogno di non ignorare gli
apporti preziosi, questi davvero irrinunciabili, della riflessione
moderna precedente. Ecco allora prendere forma il suo progetto di
recupero della filosofia prima,
sia pure in una veste accorta e progredita, dopo il successivo
sviluppo della disciplina nei secoli successivi. La lingua umana,
pertanto, non rappresenta soltanto una realtà a lei esterna, ma vi
contribuisce, non nel senso di un mero, quanto vago, costruzionismo,
ma nel senso di costituire un orizzonte trascendentale di senso (p.
39). La scomparsa del soggetto,
da questo punto di vista, non costituisce affatto un problema, ma un
mero lemma conseguente alla svolta trascendentale della filosofia
contemporanea. L'implosione della ragione durante il secolo appena
passato, si staglia davanti alla proposta apeliana di una riscoperta
di una “tavola di valori condivisi” (p. 45), di un orizzonte
universale sulla base della comune ragionevolezza degli uomini. Il
logos del discorso
è così distante dall'astratto logos della
filosofia, si fa carico della preziosa e fragile finitudine umana,
incarnata in corpi e in epoche storiche. Sia la natura “aperta”
all'esterno del discorso
sia la natura interpersonale del gioco discorsivo, e razionale, cui
ciascuno, liberamente, prende parte, garantisce l'intersoggettività,
evitando arroccamenti pericolosi in vetuste, quanto impossibili,
“torri d'avorio”.
Ecco,
dunque, ripristinato il valore supremo, ed universale, della
soggettività,
evoluzione ultima del soggetto moderno:
la costruzione del significato, all'interno del discorso tra esseri
umani ragionevoli, non è dato prima
dello stesso scambio comunicativo, ma “si costituisce solo nel
rapporto comunicativo tra parlanti” (p. 79). Si dà verità,
allora, solo all'interno di una dimensione pubblica del discorso.
Giocare pubblicamente al discorso vuol dire pertanto scorgere un
fondamento inaggirabile su un “dispositivo di 'autoregolazione'”
(p. 93) che se da un lato ci espone al gioco infinito del dialogo,
dall'altro “ci introduce nel territorio del senso” (p. 93).
Essere aperti al dialogo e prendere parte al discorso ci caratterizza
proprio come esseri
umani razionali.
Lo
sfondamento del soggetto, quale orizzonte ultimo del pensiero, apre
alla possibilità di scorgere una possibile fondazione davvero
ultimativa oltre l'orizzonte aristotelico del principio di non
contraddizione (p. 100 e sgg.). D'altra parte, se vogliamo mediare
con le punte più avanzate della polemica postmodernista, bisogna
allora prendere congedo da pretese assolutistiche sul firmissimum
principium poiché tale
atteggiamento si configurerebbe esattamente come una fuga dal gioco,
rischioso certo, del dialogo, aperto e pubblico. Non si tratta, però,
di rinegoziare la natura e il significato del divieto di
contraddizione, ma evincere nella dimostrazione per confutazione di
Aristotele una possibilità, nuova, ed anche “antica”, di
fondazione trascendental-pragmatica della ragione umana. L'elenchos,
infatti, si costituisce quale “dimensione performativa dell'agire
linguistico” (p. 119) di difensore e di negatore del principio
stesso. Siccome, però, la sua dimostrazione presenta un carattere
linguistico e comunicativo, ecco che tale dialettica funziona quale
agire linguistico che vincola i parlanti al rispetto di certe regole
e alla costruzione attiva di un significato condiviso (p. 135).
Allora
Apel non si pone nei termini di una comune posizione metafisica.
Anzi, fa proprio un certo orientamento post-metafisico per operare un
“recupero di alcune mosse caratterizzanti il sapere filosofico fin
dalle sue fasi aurorali e di alcuni suoi tratti classicamente
costitutivi” (p. 140). Sotto questo aspetto, le movenze del
divenire elenctico legano assieme “impossibilità della
contraddizione, la necessità del senso e l'essenza comunicativa
dell'uomo” (p. 145). Il fondamento non va cercato altrove rispetto
all'esercizio del logos
stesso, ma è il suo stesso esercizio a costituirlo (p. 156).
Queste
riflessioni segnano lo scarto tra la “comunicazione” di Apel e
l'analoga “comunicazione” di Habermas. Il primo, infatti, ci
spinge non solo a rilevare l'importanza della filosofia quale
“critica permanente e istanza veritativa” (p. 175), ma anche “a
trovare in essa la specificità e l'inaggirabilità della
meta-istituzione costituita dal gioco argomentativo” (p. 175).
Ciò,
ovviamente, non esime certo dal porre comunque alcuni rilievi critici
sulla proposta apeliana. L'autore, in modo particolare, insiste
sull'eccessiva fretta con cui Apel si libera “del dispositivo
metafisico” (p. 187), consistente nel tentativo di ri-pensare il
logos come interazione
umana ma rinunciando “all'unità trasparente e all'autosufficienza
della ragione” (p. 187) senza, però, privarsi anche degli elementi
dell'universalità e della criticità. Pertanto, l'inaggirabilità
della fondazione, per come è caratterizzata l'etica del discorso di
Apel, se evita certamente di ricadere nella metafisica dogmatica,
resta problematica per questioni che il filosofo tedesco omette di
considerare.
Tuttavia,
resat da rilevare come tale inaggirabilità non “si pone fuori
dalla storia” (p. 192), ma descrive il dispositivo che “assicura
le possibilità stesse del nostro comprenderci in quanto uomini”
(p. 192): il logos argomentativo.
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