(immagine tratta
da: http://www.enzomandruzzato.it/prometeo.jpg)
Il
Prometeo incatenato è
un'opera tragica del grande autore greco Eschilo. Si pensa fosse
parte di una trilogia, avente come protagonista il gigante Prometeo,
reo di essersi schierato dalla parte dei mortali e, per questo, di
essersi posto contro il volere di Zeus, il Re degli dei.
Certamente,
Eschilo riprende, e riformula in maniera originale, secondo il canone
proprio del registro “tragico”, in termini certamente più
“umani”, il mito del titano Prometeo, discostandosi, sotto certi
aspetti dalla versione canonica. Infatti, qui il reo è sì punito
per aver portato il “fuoco” agli uomini, assieme a tante altre
technai, ma sotto
traccia si allude al possesso di un “segreto” tale da minare le
fondamenta stesse del potere di Zeus, da poco “nuovo signore” (v.
310) degli dei, dopo il “parricidio” di Crono, detronizzato
proprio da Zeus.
Qui
non interessa certo la “teogonia” messa in scena, e narrata, da
Eschilo, né fare confronti con l'omonima di Esiodo, né ricostruire
la complessa evoluzione della mitologia greca, con tutta la
genealogia di dei e semidei, ma mettere in luce alcuni aspetti che,
sommessamente, reputo rilevanti, anche ad una considerazione
“filosofica”, della tragedia eschilea.
In
primo luogo, l'interpretazione che il tragediografo fornisce del
“mito” di Prometeo. Infatti, nel prologo
Kratos e Bia,
potere e forza,
accompagnano Efesto che deve materialmente incatenare Prometeo sulla
Scizia “per aver rubato il fuoco” (vv. 1 – 2). La seconda non
parla mai in prima persona, mentre la prima interloquisce a lungo con
il dio, quasi costringendolo ad eseguire la pena, secondo il volere
di Zeus. E nonostante il peso di forza
e potere Efesto sembra
tentennare, “manca il coraggio” (v. 16) ammette lui stesso. Sì,
Prometeo è colpevole di aver rubato il fuoco e di averne fatto
partecipi gli uomini (vv. 7 – 8), ma egli viene punito anche perché
“forse così imparerà ad amarla la signoria di Zeus” (v. 10). E
questo è interessante. Pesa di più nel giudizio sull'operato di
Prometeo il furto del fuoco,
ovviamente metafora delle tecniche
gratuitamente donate agli uomini, o il non rispettare Zeus nel suo
nuovo ruolo di Signore degli dei? Forse, credo che Eschilo consideri
causa della sofferenza di Prometeo più la lesa maestà che l'aver
offerto aiuto a mortali che, in assenza della generosità del titano,
sarebbero rimasti nella loro condizione di minorità. Prometeo è
colui che dona il progresso agli uomini, che consente loro di
evolvere verso tappe più avanzate di progresso, civile, sociale,
politico, tecnologico, culturale. Nell'annosa questione greca
sull'opposizione tra physis
e nòmos, Eschilo
propende per la seconda: è solo attraverso la cultura
che gli uomini possono evolvere. E si tratta, anche in questo caso,
di uno scenario per così dire canonico. Infatti, è sempre stata
presente questa opzione nell'orizzonte teorico greco data l'estrema
importanza da sempre attribuita alla polis,
e alla sua nascita, come cesura tra la preistoria
e la storia elleniche
[1]. Il superamento di un modello sociale fondato sulle tribù, e la
sottoposizione delle condotte individuali al giudizio collettivo di
una comunità attorno ad una tavola condivisa di valori, è il
prodromo della nascita stessa della città stato,
ossia della polis, e,
quindi, del successo della cultura
sulla natura, per quanto, ovviamente, ciò abbia sempre comportato la
presenza di una sorta di rimorso nella coscienza greca, di pentimento
per il tradimento perpetrato ai danni della madre Terra, Gaia,
la più antica, e più “materiale” delle divinità del Pantheon.
Forse per lo stesso motivo, l'elaborazione culturale greca ha sempre
immaginato le furie,
le Erinni, le
operatrici misteriose della “Nemesi”, della vendetta,
come cagne furiose,
come esseri immondi, dai tratti animaleschi, naturali. La Natura
esige il pagamento del fio per
la colpa commessa di aver deviato i propri passi dal suo corso
ancestrale. Ma Prometeo questo concede agli uomini: di riconoscersi
come tali. E, quindi, di poter evolvere verso altre forme, verso
altri codici, verso altre norme.
Portatore di “fuoco”, il titano è anche insofferente nei
confronti della nuova signoria di Zeus. Non sappiamo se riconosca o
meno la sua autorità, ma certamente dato il dono proibito fatto agli
uomini, non denota certo molta simpatia nei confronti del figlio di
Crono. E per questo sembra patire i rigori della sua pena.
Seppur
tentennante, Efesto, incalzato da potere,
esegue la condanna e Prometeo resta immobile alla catena per
l'eternità.
(immagine tratta da: http://www.liceogalvani.it/lavori-multimediali/mito/scopo/prometeo.jpg)
Dopo
un lungo silenzio, Prometeo comincia a parlare e si rivolge alla
natura, a quella
stessa Physis, di cui
Gaia, è incarnazione
divina. E cosa le dice d'interessante? Che è necessario riconoscere
“che la forza del fato non si vince” (v. 105). Fato? Destino?
Necessità? Le categorie filosofiche qui faticano a render conto,
logon didonai , della
profonda semantica del verso poetico. Il fato è invincibile forse
perché orizzonte finale di tutto? E se tale, come pretendere di
batterlo? Se limite estremo delle azioni, come mai lo stesso soffre
anche Prometeo che uomo non è? Forse che pure i titani hanno gli
stessi limiti? E qui si palesa il secondo elemento a mio parere
rilevante: qual è il limite di uomini, dei e semidei? Eschilo al
riguardo appare chiaro: esistono due vincoli estremi rispettivamente
per uomini e divinità: la morte
e la necessità.
Prometeo, che è un semidio, non può conoscere la morte, e, sotto
questo punto di vista la sua pena è ancora più tremenda di quanto
non sembri (soffrire per l'eternità). Tuttavia, paradossalmente,
pure non ha potuto affrancare i mortali dall'estremo loro limite
della morte. Infatti, egli ha elargito loro grandi doni, ma tutto
tranne che l'immortalità. E nonostante il fuoco, e altre technai,
essi continuano a morire, scontrandosi ingloriosamente con il loro
limite di sempre. Gli dei non muoiono, ma anch'essi sono limitati. A
differenza delle grandi religioni rivelate, gli dei greci non
sono onnipotenti e, a dirla tutta, vedono anche poco
nel futuro. Poco potenti, anche se in misura somma rispetto ai
mortali, e poco previggenti, gli dei greci appaiono miseramente come
poco più che umani, soggetti sovente alle medesima passioni che
prendono i mortali. Certo i semidei sono meno potenti degli dei, ma
anche questi ultimi appaiono soggetti ad un potere loro superiore, la
necessità, il fato,
il destino. La realtà
ingloba dentro di sé anche le divinità. Queste ultime non si
collocano al di là di
quest'ultima, ma al di qua del suo limite, la necessità.
Le vie di uomini, semidei e dei sono le stesse della realtà,
dell'unica realtà esistente, a sua volta sottomessa al fato.
Si tratta di un “progetto intelligente”, tyche,
o di una “mera casualità”, automaton?
Gli autori greci tacciono al riguardo, nonostante quella che, per
Aristotele, è l'invidia che gli dei provano nei confronti dei poeti,
più vedenti di loro [2]. Anche se lo stagirita gira l'argomento
sostenendo l'inattendibilità di questi ultimi, sovente bugiardi,
poco affidabili.
Detto
questo, appare evidente come le simpatie di Eschilo vadano tutte al
titano che osa mettersi contro Zeus pur di aiutare esseri così
insignificanti come gli uomini, minacciati di “seminare un'altra
stirpe umana” (vv. 232 – 233), soppiantati da un'altra e nuova
stirpe. Solo Prometeo osò opporsi, e pagando in prima persona per la
propria temerarietà. Ma era solo questa la colpa di Prometeo? Ancora
ritorna il quesito di partenza: qual era la vera causa della
condanna? Questo aver osato sfidare il volere del nuovo Re degli dei
oppure il timore che rivelasse l'oscuro, ossia il segreto
sul futuro di Zeus, ermetico anche allo stesso nuovo Signore
dell'Olimpo? D'altra parte, Prometeo fa esegesi del suo stesso nome,
e si presenta ad Io come colui che “vede lontano, oltre ciò che è
chiaro” (vv. 842 – 843). Più vedente di Zeus oppure, più
semplicemente, a conoscenza di un segreto che il Signore non vorrebbe
si sapesse? In altre parole, cosa arma le mani di Zeus? La sua
giustizia, avendo
Prometeo osato mettere in questione la sua signoria che, seppur
nuova, è pur sempre l'ordine costituito, oppure il timore,
sapendo Prometeo qualcosa di terribile e minaccioso per il potere di
Zeus? Prometeo è, paradossalmente tre volte colpevole: (1) ha rubato
il fuoco per donarlo agli uomini (valicato i confini che
“giustamente” separano umanità
e divinità); (2) ha
posto in discussione il potere di Zeus (lesa maestà); (3) è a
conoscenza di un segreto proibito sul futuro corso degli eventi (e
sul destino stesso che attende la sommità dell'Olimpo). Per questi
tre distinti, ma convergenti, livelli di responsabilità Prometeo è
stato incatenato sulla Scizia. Ma è la colpa numero (3) che adesso
ci interessa mettere in rilievo.
Ad un certo punto, Prometeo riceve la visita di Io, figlia di Inaco,
e, per responsabilità di Zeus consegnata ad un oscuro destino di
follia errabonda. É dialogando con ella che il titano allude al suo
segreto, alla sua conoscenza, alla fine della
“signoria di Zeus” (v. 756). Come Io troverà termine alle sue
(ingiuste) sofferenze con la morte, a Prometeo, cui morir non
è concesso, non troverà termine alle sue (ingiuste)
sofferenze. Il titano si paragona alla sfortunata Io lasciandosi
sfuggire il segreto in suo possesso: un termine alle sue
sofferenze v'è, ma non dipende dall'orizzonte della fine, del
termine materiale e temporale dell'esistenza
singola. Questo termine è legato alla fine del potere di Zeus,
al suo futuro detronizzato. A questo punto Io incalza il titano, lo
interroga, e sapientemente Eschilo dispiega il contenuto di questa
conoscenza misteriosa, così elevata che solo balbettando può esser
detta, che solo allusivamente può venir espressa. L'orizzonte
sovrumano della verità, che in Parmenide conduceva alla
finzione della dea senza nome, metafora dell'intelligenza del
filosofo che perviene alla conoscenza superiore [3], spinge Eschilo
ad usare toni non chiari. Ad ogni modo, Zeus cadrà, e per mano della
generazione di Io, “un figlio più forte del padre” (v. 769).
Ma come ha aiutato il titano gli uomini destinati ad un futuro
limitato di morte? Questa almeno è la stessa domanda che Io pone al
reo e quest'ultimo le risponde in maniera vaga: “seminai le
speranze, che non vedono” (v. 250). Che speranze dà Prometeo agli
uomini? Certo, lui può più di loro ma sempre meno degli dei e anche
questi ultimi, in ultima istanza, non possono infrangere le barriere
della necessità, di tyche, l'orizzonte fatale delle moire.
Pertanto, comunque gli uomini non sfuggiranno al loro destino
terminale, la morte. Allora, quali speranze valide ha
distribuito loro Prometeo? Se si sa di dover morire, è possibile che
qualsiasi attività si blocchi nell'attesa fatale del termine ultimo
della parentesi temporale. Ma se si squarcia il velo dell'attesa in
favore dell'azione operante, produttiva, ecco che si scorge un
orizzonte nuovo e potente: il domani. Ossia, la speranza,
elpís.
Prometeo concede agli uomini una speranza nel “domani”, che in
precedenza loro non avevano. Filosoficamente ciò è affine
all'insieme delle pratiche che gli uomini hanno messo in campo per
“esorcizzare” il timore della morte, quella molla antropologica
che ha sospinto i mortali stessi lungo il cammino della filosofia,
che nasce “grande” [4], perché affronta da subito le questioni
massime, la vita, la morte, la necessità, il
destino, il bene. É per il timore della morte che
l'uomo ha inventato la filosofia[5], un insieme di rituali che
allontanino il pensiero delle morte e che lascino intravedere la
speranza nel domani.
(immagine tratta da: http://www.pensament.com/filoxarxa/imatges/prometeo01.jpg)
Ma dalla speranza degli uomini si passa ad interrogare le possibilità
di speranza per Prometeo. Le sue sofferenze termineranno? Potrà
tornare libero? Se “tutto ciò che gli uomini conoscono, proviene
da Prometeo” (v. 506), chi aiuterà stavolta il titano incatenato?
Sintantoché Zeus resta il Signore dell'Olimpo, Prometeo non può
sperare nella salvezza. Ma lui sa qualcosa che sfugge agli altri.
Dialogando con la corifea, egli afferma “da questi ceppi sarò
sciolto” (v. 513). Come? Da dove deriva tanta sicurezza? In fondo,
nemmeno lui può saperlo, con certezza almeno, e nondimeno coltiva
questa speranza. Le moire non gli hanno assicurato nulla
eppure lui crede che finalmente verrà messo rimedio alla sua
ingiustizia. Perché? Al v. 514 leggiamo assieme la rivelazione al
riguardo, la sorgente della sua speranza: “L'arte è troppo più
debole del fato”. Le technai vanto e causa di tanti mali per
Prometeo, cedono comunque il passo al fato. Ma ciò significa
anche che lui ha donato false speranze agli uomini in quanto le
tecniche non salvano i mortali. D'altra parte, chi potrebbe illudersi
di sfuggire, via tecnica, alla morte? Nemmeno la scienza moderna può
tanto, figuriamoci la scienza del VI – V sec. a. C., l'arco
temporale durante il quale Eschilo svolse la sua intensa attività
tragica. La tecnica è “troppo più debole” rispetto al corso
naturale, alle leggi di natura. Nessun artificio potrebbe alterarne
l'equilibrio, quella stessa scissione causata da Prometeo, reo allora
di aver rotto l'harmonia delle cose. In queste parole vi si
leggono insieme un rammarico e una raggiunta consapevolezza.
Rammarico perché purtroppo non v'è rimedio al limite terminale che
attende ciascuno di noi e consapevolezza perché una volta accettato
come inevitabile questo esito diventa possibile progettare un
avvenire differente. E proprio in quest'eventualità va colta, a mio
sommesso parere, la ragione della speranza del titano di venir
liberato in futuro dalle sue pene (ingiuste). Infatti, anche
l'avvento di Zeus è frutto di techne, di arte, di
manipolazione artificiale, di invenzione, verrebbe da dire
“umana”. E, pertanto, è anch'esso soggetto al limite
dell'artificiale rispetto al naturale, è anch'esso troppo più
debole rispetto al fato. Di conseguenza, cesserà un giorno di essere
attuale, operante, cederà il passo ad un'altra signoria, portando
con sé al venir meno delle ragioni che portarono Efesto ad
incatenare Prometeo. Solo allora giungerà la liberazione per il
titano ribelle. Basta aspettare quel momento, che verrà, e Prometeo
non manca certo di tempo. Solo che nonostante questa certezza non può
che provare paura di patimenti successivi.
Neanche Zeus “potrà sfuggire mai sfuggire al fato” (v. 520). e
qui giungiamo ad un altro elemento che, a mio sommesso parere, va
posto nella giusta luce, ed illuminato in chiave teorica. Anche il
più potente degli dei è sottomesso al fato. Gli dei greci, allora,
non sono esterni a questa realtà, ma sono solo le propaggini estreme
di quest'ultima. Pertanto, pur potendo in gran parte interferire con
il corso naturale delle cose, con le leggi della natura, con il
kosmos, sono anch'essi soggetti al fato, alla natura, alle
leggi di questa stessa realtà. In fondo, nemmeno Zeus può sottrarsi
alla necessità. Questi dei greci fanno ancora la loro magra
figura, più simili a “grandi uomini” che a divinità vere e
proprie. Non sfuggono nemmeno loro al limite estremo della realtà
che tutto avvolge e dirige.
Giunge, com'è noto, a quel punto trafelata Io alla quale Prometeo
profetizza il futuro dolente e alla quale ribadisce il suo segreto.
Ma le sue urla giungono sino a Zeus che non esita ad inviare Ermete a
carpirne la conoscenza occulta. “ecco il portaordini di Zeus, ecco
il valletto del signore nuovo” (vv. 941 – 942), lo saluta
procotoriamente Prometeo. Ma il messaggero di Zeus taglia corto: “si
dica di che nozze vai gridando, da chi sarà abbattuto il suo potere”
(vv. 947 – 948). É
chiaro, il Nuovo Re degli dei ha udito le oscure profezie del titano
e, allarmato, desidera scoprire cosa davvero sappia del futuro
nebuloso. Ma Prometeo non tradisce quanto detto poco prima a Io, non
rivela quanto di sua conoscenza, “meglio essere schiavi a questa
pietra che i messi di fiducia di Zeus Padre” (vv. 968 – 969).
Questo confronto serrato, ma duro ed orgoglioso descrive al meglio
quella tendenza pre – romantica altrimenti chiamata “titanismo”:
l'atteggiamento di colui che, forte del proprio convincimento nella
giustezza del proprio operato, rivendica con forza la bontà delle
sue ragioni, non temendo chi per anzianità o per potere o per
autorità è più “forte” di lui. Prometeo non cede né alle
lusinghe né alle minacce portategli da Ermes e tace su quanto sa. A
quel punto, allora, al termine della tragedia eschilea, il fulmine di
Zeus ancora una volta si abbatte su Prometeo, trascinandolo
nell'abisso senza fondo, punizione per la hybris di cui il
titano si è fatto interprete e sostenitore nella sua rivolta contro
il nuovo Re degli dei.
(immagine tratta da: http://www.rivistazetesis.it/Prometeo_liberato.jpg)
Al termine della presente ricognizione, senza troppe velleità a dire
il vero, resta da valutare l'atteggiamento complessivo del titano.
Infatti, i romantici hanno inteso spesso sopravvalutarne il
titanismo, senza però prendere in considerazione anche le ragioni
degli altri, di quei nemici comunque attori, alla pari con lui, delle
commedie, degli equivoci, dei drammi della vita quotidiana. L'unica
cosa certa è che per Eschilo la conoscenza provoca dolore,
la verità è sofferenza. In questo senso, quanto la tragedia
presente vorrebbe insegnarci è che non v'è conoscenza vera priva di
sofferenza. Prometeo sa e soffre. Zeus sa e soffre (anche
se non lo dà a vedere). Efesto sa e soffre (e lo dà a vedere
all'inizio dell'opera). Io sa ed impazzisce. Quali sono le vie
della conoscenza e della sanità mentale? Ma
proprio questa caratteristica viene messa in luce da Severino secondo
il quale “la conoscenza della verità salva dall'angoscia del
divenire” [6], ma conoscere non è privo di conseguenze, anche
negative.
Pertanto, la filosofia nasce anche come rimedio all'angoscia dello
sparire, del dissolversi nel nulla di cui la trasformazione,
o divenire, è pallida, ma significativa, espressione.
Conoscere la verità, se non evita il dolore, la fatica stessa insita
nel processo conoscitivo, però, consente di prevedere il
futuro, di prevedere, con una certa dose di approssimazione, quale
direzione assumeranno gli eventi futuri, di scorgere, cioè, quel
'domani' che Prometeo dona agli uomini. Di conseguenza, Severino
avanza la sua personale interpretazione della tragedia eschilea
secondo la quale “la vera grandezza eroica di Prometeo consiste nel
suo sapersi liberare dalla hybris e nel suo comprendere che il
sommo rimedio, per l'uomo, è la verità incontrovertibile
dell'epistéme” [7]. La filosofia è, da questo punto di
vista, accettazione del domani e previsione del suo sviluppo, prima
ancora che possa divenire attualità.
Ancora una volta, dunque, i “grandi” autori classici sanno
interrogarci sul significato che attribuiamo alla nostra vita, così
colma di dolore, di sofferenza, ma anche così fiduciosa in un
avvenire radioso, così piena di “speranza” nel “domani”.
_________________________________________________________________
[1] Cfr. E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e
diritto, Feltrinelli, Milano, 20117, p. 190 e sgg.
[2] Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 13
(982b 30 – 983a 1-4).
[3] Cfr. U. Di Toro, L'enigma Parmenide, Aracne, Roma, 2010.
[4] Cfr. E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La
filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 20064,
p. 21 e sgg.
[5] Cfr. F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, Vita e
Pensiero, Milano, 2008, p. 3.
[6] Cfr. E. Severino, op. cit., p. 79.
[7] Ivi, p. 82.
Riferimeni bibliografici
Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000.
E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto,
Feltrinelli, Milano, 20117.
U. Di Toro, L'enigma Parmenide, Aracne, Roma, 2010.
Eschilo, Prometeo incatenato, Rizzoli, Milano, 20062.
F. Rosenzweing, La Stella della Redenzione, Vita e Pensiero,
Milano, 2008.
E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia
antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 20064.
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