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giovedì 23 agosto 2012

Doloroso è conoscere ...







Il Prometeo incatenato è un'opera tragica del grande autore greco Eschilo. Si pensa fosse parte di una trilogia, avente come protagonista il gigante Prometeo, reo di essersi schierato dalla parte dei mortali e, per questo, di essersi posto contro il volere di Zeus, il Re degli dei.


Certamente, Eschilo riprende, e riformula in maniera originale, secondo il canone proprio del registro “tragico”, in termini certamente più “umani”, il mito del titano Prometeo, discostandosi, sotto certi aspetti dalla versione canonica. Infatti, qui il reo è sì punito per aver portato il “fuoco” agli uomini, assieme a tante altre technai, ma sotto traccia si allude al possesso di un “segreto” tale da minare le fondamenta stesse del potere di Zeus, da poco “nuovo signore” (v. 310) degli dei, dopo il “parricidio” di Crono, detronizzato proprio da Zeus.


Qui non interessa certo la “teogonia” messa in scena, e narrata, da Eschilo, né fare confronti con l'omonima di Esiodo, né ricostruire la complessa evoluzione della mitologia greca, con tutta la genealogia di dei e semidei, ma mettere in luce alcuni aspetti che, sommessamente, reputo rilevanti, anche ad una considerazione “filosofica”, della tragedia eschilea.


In primo luogo, l'interpretazione che il tragediografo fornisce del “mito” di Prometeo. Infatti, nel prologo Kratos e Bia, potere e forza, accompagnano Efesto che deve materialmente incatenare Prometeo sulla Scizia “per aver rubato il fuoco” (vv. 1 – 2). La seconda non parla mai in prima persona, mentre la prima interloquisce a lungo con il dio, quasi costringendolo ad eseguire la pena, secondo il volere di Zeus. E nonostante il peso di forza e potere Efesto sembra tentennare, “manca il coraggio” (v. 16) ammette lui stesso. Sì, Prometeo è colpevole di aver rubato il fuoco e di averne fatto partecipi gli uomini (vv. 7 – 8), ma egli viene punito anche perché “forse così imparerà ad amarla la signoria di Zeus” (v. 10). E questo è interessante. Pesa di più nel giudizio sull'operato di Prometeo il furto del fuoco, ovviamente metafora delle tecniche gratuitamente donate agli uomini, o il non rispettare Zeus nel suo nuovo ruolo di Signore degli dei? Forse, credo che Eschilo consideri causa della sofferenza di Prometeo più la lesa maestà che l'aver offerto aiuto a mortali che, in assenza della generosità del titano, sarebbero rimasti nella loro condizione di minorità. Prometeo è colui che dona il progresso agli uomini, che consente loro di evolvere verso tappe più avanzate di progresso, civile, sociale, politico, tecnologico, culturale. Nell'annosa questione greca sull'opposizione tra physis e nòmos, Eschilo propende per la seconda: è solo attraverso la cultura che gli uomini possono evolvere. E si tratta, anche in questo caso, di uno scenario per così dire canonico. Infatti, è sempre stata presente questa opzione nell'orizzonte teorico greco data l'estrema importanza da sempre attribuita alla polis, e alla sua nascita, come cesura tra la preistoria e la storia elleniche [1]. Il superamento di un modello sociale fondato sulle tribù, e la sottoposizione delle condotte individuali al giudizio collettivo di una comunità attorno ad una tavola condivisa di valori, è il prodromo della nascita stessa della città stato, ossia della polis, e, quindi, del successo della cultura sulla natura, per quanto, ovviamente, ciò abbia sempre comportato la presenza di una sorta di rimorso nella coscienza greca, di pentimento per il tradimento perpetrato ai danni della madre Terra, Gaia, la più antica, e più “materiale” delle divinità del Pantheon. Forse per lo stesso motivo, l'elaborazione culturale greca ha sempre immaginato le furie, le Erinni, le operatrici misteriose della “Nemesi”, della vendetta, come cagne furiose, come esseri immondi, dai tratti animaleschi, naturali. La Natura esige il pagamento del fio per la colpa commessa di aver deviato i propri passi dal suo corso ancestrale. Ma Prometeo questo concede agli uomini: di riconoscersi come tali. E, quindi, di poter evolvere verso altre forme, verso altri codici, verso altre norme.


Portatore di “fuoco”, il titano è anche insofferente nei confronti della nuova signoria di Zeus. Non sappiamo se riconosca o meno la sua autorità, ma certamente dato il dono proibito fatto agli uomini, non denota certo molta simpatia nei confronti del figlio di Crono. E per questo sembra patire i rigori della sua pena.


Seppur tentennante, Efesto, incalzato da potere, esegue la condanna e Prometeo resta immobile alla catena per l'eternità.



Dopo un lungo silenzio, Prometeo comincia a parlare e si rivolge alla natura, a quella stessa Physis, di cui Gaia, è incarnazione divina. E cosa le dice d'interessante? Che è necessario riconoscere “che la forza del fato non si vince” (v. 105). Fato? Destino? Necessità? Le categorie filosofiche qui faticano a render conto, logon didonai , della profonda semantica del verso poetico. Il fato è invincibile forse perché orizzonte finale di tutto? E se tale, come pretendere di batterlo? Se limite estremo delle azioni, come mai lo stesso soffre anche Prometeo che uomo non è? Forse che pure i titani hanno gli stessi limiti? E qui si palesa il secondo elemento a mio parere rilevante: qual è il limite di uomini, dei e semidei? Eschilo al riguardo appare chiaro: esistono due vincoli estremi rispettivamente per uomini e divinità: la morte e la necessità. Prometeo, che è un semidio, non può conoscere la morte, e, sotto questo punto di vista la sua pena è ancora più tremenda di quanto non sembri (soffrire per l'eternità). Tuttavia, paradossalmente, pure non ha potuto affrancare i mortali dall'estremo loro limite della morte. Infatti, egli ha elargito loro grandi doni, ma tutto tranne che l'immortalità. E nonostante il fuoco, e altre technai, essi continuano a morire, scontrandosi ingloriosamente con il loro limite di sempre. Gli dei non muoiono, ma anch'essi sono limitati. A differenza delle grandi religioni rivelate, gli dei greci non sono onnipotenti e, a dirla tutta, vedono anche poco nel futuro. Poco potenti, anche se in misura somma rispetto ai mortali, e poco previggenti, gli dei greci appaiono miseramente come poco più che umani, soggetti sovente alle medesima passioni che prendono i mortali. Certo i semidei sono meno potenti degli dei, ma anche questi ultimi appaiono soggetti ad un potere loro superiore, la necessità, il fato, il destino. La realtà ingloba dentro di sé anche le divinità. Queste ultime non si collocano al di là di quest'ultima, ma al di qua del suo limite, la necessità. Le vie di uomini, semidei e dei sono le stesse della realtà, dell'unica realtà esistente, a sua volta sottomessa al fato. Si tratta di un “progetto intelligente”, tyche, o di una “mera casualità”, automaton? Gli autori greci tacciono al riguardo, nonostante quella che, per Aristotele, è l'invidia che gli dei provano nei confronti dei poeti, più vedenti di loro [2]. Anche se lo stagirita gira l'argomento sostenendo l'inattendibilità di questi ultimi, sovente bugiardi, poco affidabili.


Detto questo, appare evidente come le simpatie di Eschilo vadano tutte al titano che osa mettersi contro Zeus pur di aiutare esseri così insignificanti come gli uomini, minacciati di “seminare un'altra stirpe umana” (vv. 232 – 233), soppiantati da un'altra e nuova stirpe. Solo Prometeo osò opporsi, e pagando in prima persona per la propria temerarietà. Ma era solo questa la colpa di Prometeo? Ancora ritorna il quesito di partenza: qual era la vera causa della condanna? Questo aver osato sfidare il volere del nuovo Re degli dei oppure il timore che rivelasse l'oscuro, ossia il segreto sul futuro di Zeus, ermetico anche allo stesso nuovo Signore dell'Olimpo? D'altra parte, Prometeo fa esegesi del suo stesso nome, e si presenta ad Io come colui che “vede lontano, oltre ciò che è chiaro” (vv. 842 – 843). Più vedente di Zeus oppure, più semplicemente, a conoscenza di un segreto che il Signore non vorrebbe si sapesse? In altre parole, cosa arma le mani di Zeus? La sua giustizia, avendo Prometeo osato mettere in questione la sua signoria che, seppur nuova, è pur sempre l'ordine costituito, oppure il timore, sapendo Prometeo qualcosa di terribile e minaccioso per il potere di Zeus? Prometeo è, paradossalmente tre volte colpevole: (1) ha rubato il fuoco per donarlo agli uomini (valicato i confini che “giustamente” separano umanità e divinità); (2) ha posto in discussione il potere di Zeus (lesa maestà); (3) è a conoscenza di un segreto proibito sul futuro corso degli eventi (e sul destino stesso che attende la sommità dell'Olimpo). Per questi tre distinti, ma convergenti, livelli di responsabilità Prometeo è stato incatenato sulla Scizia. Ma è la colpa numero (3) che adesso ci interessa mettere in rilievo.


Ad un certo punto, Prometeo riceve la visita di Io, figlia di Inaco, e, per responsabilità di Zeus consegnata ad un oscuro destino di follia errabonda. É dialogando con ella che il titano allude al suo segreto, alla sua conoscenza, alla fine della “signoria di Zeus” (v. 756). Come Io troverà termine alle sue (ingiuste) sofferenze con la morte, a Prometeo, cui morir non è concesso, non troverà termine alle sue (ingiuste) sofferenze. Il titano si paragona alla sfortunata Io lasciandosi sfuggire il segreto in suo possesso: un termine alle sue sofferenze v'è, ma non dipende dall'orizzonte della fine, del termine materiale e temporale dell'esistenza singola. Questo termine è legato alla fine del potere di Zeus, al suo futuro detronizzato. A questo punto Io incalza il titano, lo interroga, e sapientemente Eschilo dispiega il contenuto di questa conoscenza misteriosa, così elevata che solo balbettando può esser detta, che solo allusivamente può venir espressa. L'orizzonte sovrumano della verità, che in Parmenide conduceva alla finzione della dea senza nome, metafora dell'intelligenza del filosofo che perviene alla conoscenza superiore [3], spinge Eschilo ad usare toni non chiari. Ad ogni modo, Zeus cadrà, e per mano della generazione di Io, “un figlio più forte del padre” (v. 769).


Ma come ha aiutato il titano gli uomini destinati ad un futuro limitato di morte? Questa almeno è la stessa domanda che Io pone al reo e quest'ultimo le risponde in maniera vaga: “seminai le speranze, che non vedono” (v. 250). Che speranze dà Prometeo agli uomini? Certo, lui può più di loro ma sempre meno degli dei e anche questi ultimi, in ultima istanza, non possono infrangere le barriere della necessità, di tyche, l'orizzonte fatale delle moire. Pertanto, comunque gli uomini non sfuggiranno al loro destino terminale, la morte. Allora, quali speranze valide ha distribuito loro Prometeo? Se si sa di dover morire, è possibile che qualsiasi attività si blocchi nell'attesa fatale del termine ultimo della parentesi temporale. Ma se si squarcia il velo dell'attesa in favore dell'azione operante, produttiva, ecco che si scorge un orizzonte nuovo e potente: il domani. Ossia, la speranza, elpís. Prometeo concede agli uomini una speranza nel “domani”, che in precedenza loro non avevano. Filosoficamente ciò è affine all'insieme delle pratiche che gli uomini hanno messo in campo per “esorcizzare” il timore della morte, quella molla antropologica che ha sospinto i mortali stessi lungo il cammino della filosofia, che nasce “grande” [4], perché affronta da subito le questioni massime, la vita, la morte, la necessità, il destino, il bene. É per il timore della morte che l'uomo ha inventato la filosofia[5], un insieme di rituali che allontanino il pensiero delle morte e che lascino intravedere la speranza nel domani.



Ma dalla speranza degli uomini si passa ad interrogare le possibilità di speranza per Prometeo. Le sue sofferenze termineranno? Potrà tornare libero? Se “tutto ciò che gli uomini conoscono, proviene da Prometeo” (v. 506), chi aiuterà stavolta il titano incatenato? Sintantoché Zeus resta il Signore dell'Olimpo, Prometeo non può sperare nella salvezza. Ma lui sa qualcosa che sfugge agli altri. Dialogando con la corifea, egli afferma “da questi ceppi sarò sciolto” (v. 513). Come? Da dove deriva tanta sicurezza? In fondo, nemmeno lui può saperlo, con certezza almeno, e nondimeno coltiva questa speranza. Le moire non gli hanno assicurato nulla eppure lui crede che finalmente verrà messo rimedio alla sua ingiustizia. Perché? Al v. 514 leggiamo assieme la rivelazione al riguardo, la sorgente della sua speranza: “L'arte è troppo più debole del fato”. Le technai vanto e causa di tanti mali per Prometeo, cedono comunque il passo al fato. Ma ciò significa anche che lui ha donato false speranze agli uomini in quanto le tecniche non salvano i mortali. D'altra parte, chi potrebbe illudersi di sfuggire, via tecnica, alla morte? Nemmeno la scienza moderna può tanto, figuriamoci la scienza del VI – V sec. a. C., l'arco temporale durante il quale Eschilo svolse la sua intensa attività tragica. La tecnica è “troppo più debole” rispetto al corso naturale, alle leggi di natura. Nessun artificio potrebbe alterarne l'equilibrio, quella stessa scissione causata da Prometeo, reo allora di aver rotto l'harmonia delle cose. In queste parole vi si leggono insieme un rammarico e una raggiunta consapevolezza. Rammarico perché purtroppo non v'è rimedio al limite terminale che attende ciascuno di noi e consapevolezza perché una volta accettato come inevitabile questo esito diventa possibile progettare un avvenire differente. E proprio in quest'eventualità va colta, a mio sommesso parere, la ragione della speranza del titano di venir liberato in futuro dalle sue pene (ingiuste). Infatti, anche l'avvento di Zeus è frutto di techne, di arte, di manipolazione artificiale, di invenzione, verrebbe da dire “umana”. E, pertanto, è anch'esso soggetto al limite dell'artificiale rispetto al naturale, è anch'esso troppo più debole rispetto al fato. Di conseguenza, cesserà un giorno di essere attuale, operante, cederà il passo ad un'altra signoria, portando con sé al venir meno delle ragioni che portarono Efesto ad incatenare Prometeo. Solo allora giungerà la liberazione per il titano ribelle. Basta aspettare quel momento, che verrà, e Prometeo non manca certo di tempo. Solo che nonostante questa certezza non può che provare paura di patimenti successivi.


Neanche Zeus “potrà sfuggire mai sfuggire al fato” (v. 520). e qui giungiamo ad un altro elemento che, a mio sommesso parere, va posto nella giusta luce, ed illuminato in chiave teorica. Anche il più potente degli dei è sottomesso al fato. Gli dei greci, allora, non sono esterni a questa realtà, ma sono solo le propaggini estreme di quest'ultima. Pertanto, pur potendo in gran parte interferire con il corso naturale delle cose, con le leggi della natura, con il kosmos, sono anch'essi soggetti al fato, alla natura, alle leggi di questa stessa realtà. In fondo, nemmeno Zeus può sottrarsi alla necessità. Questi dei greci fanno ancora la loro magra figura, più simili a “grandi uomini” che a divinità vere e proprie. Non sfuggono nemmeno loro al limite estremo della realtà che tutto avvolge e dirige.



Giunge, com'è noto, a quel punto trafelata Io alla quale Prometeo profetizza il futuro dolente e alla quale ribadisce il suo segreto. Ma le sue urla giungono sino a Zeus che non esita ad inviare Ermete a carpirne la conoscenza occulta. “ecco il portaordini di Zeus, ecco il valletto del signore nuovo” (vv. 941 – 942), lo saluta procotoriamente Prometeo. Ma il messaggero di Zeus taglia corto: “si dica di che nozze vai gridando, da chi sarà abbattuto il suo potere” (vv. 947 – 948). É chiaro, il Nuovo Re degli dei ha udito le oscure profezie del titano e, allarmato, desidera scoprire cosa davvero sappia del futuro nebuloso. Ma Prometeo non tradisce quanto detto poco prima a Io, non rivela quanto di sua conoscenza, “meglio essere schiavi a questa pietra che i messi di fiducia di Zeus Padre” (vv. 968 – 969). Questo confronto serrato, ma duro ed orgoglioso descrive al meglio quella tendenza pre – romantica altrimenti chiamata “titanismo”: l'atteggiamento di colui che, forte del proprio convincimento nella giustezza del proprio operato, rivendica con forza la bontà delle sue ragioni, non temendo chi per anzianità o per potere o per autorità è più “forte” di lui. Prometeo non cede né alle lusinghe né alle minacce portategli da Ermes e tace su quanto sa. A quel punto, allora, al termine della tragedia eschilea, il fulmine di Zeus ancora una volta si abbatte su Prometeo, trascinandolo nell'abisso senza fondo, punizione per la hybris di cui il titano si è fatto interprete e sostenitore nella sua rivolta contro il nuovo Re degli dei.


(immagine tratta da: http://www.rivistazetesis.it/Prometeo_liberato.jpg)



Al termine della presente ricognizione, senza troppe velleità a dire il vero, resta da valutare l'atteggiamento complessivo del titano. Infatti, i romantici hanno inteso spesso sopravvalutarne il titanismo, senza però prendere in considerazione anche le ragioni degli altri, di quei nemici comunque attori, alla pari con lui, delle commedie, degli equivoci, dei drammi della vita quotidiana. L'unica cosa certa è che per Eschilo la conoscenza provoca dolore, la verità è sofferenza. In questo senso, quanto la tragedia presente vorrebbe insegnarci è che non v'è conoscenza vera priva di sofferenza. Prometeo sa e soffre. Zeus sa e soffre (anche se non lo dà a vedere). Efesto sa e soffre (e lo dà a vedere all'inizio dell'opera). Io sa ed impazzisce. Quali sono le vie della conoscenza e della sanità mentale? Ma proprio questa caratteristica viene messa in luce da Severino secondo il quale “la conoscenza della verità salva dall'angoscia del divenire” [6], ma conoscere non è privo di conseguenze, anche negative.


Pertanto, la filosofia nasce anche come rimedio all'angoscia dello sparire, del dissolversi nel nulla di cui la trasformazione, o divenire, è pallida, ma significativa, espressione. Conoscere la verità, se non evita il dolore, la fatica stessa insita nel processo conoscitivo, però, consente di prevedere il futuro, di prevedere, con una certa dose di approssimazione, quale direzione assumeranno gli eventi futuri, di scorgere, cioè, quel 'domani' che Prometeo dona agli uomini. Di conseguenza, Severino avanza la sua personale interpretazione della tragedia eschilea secondo la quale “la vera grandezza eroica di Prometeo consiste nel suo sapersi liberare dalla hybris e nel suo comprendere che il sommo rimedio, per l'uomo, è la verità incontrovertibile dell'epistéme” [7]. La filosofia è, da questo punto di vista, accettazione del domani e previsione del suo sviluppo, prima ancora che possa divenire attualità.


Ancora una volta, dunque, i “grandi” autori classici sanno interrogarci sul significato che attribuiamo alla nostra vita, così colma di dolore, di sofferenza, ma anche così fiduciosa in un avvenire radioso, così piena di “speranza” nel “domani”.
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[1] Cfr. E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, Milano, 20117, p. 190 e sgg.

[2] Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 13 (982b 30 – 983a 1-4).

[3] Cfr. U. Di Toro, L'enigma Parmenide, Aracne, Roma, 2010.

[4] Cfr. E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 20064, p. 21 e sgg.

[5] Cfr. F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2008, p. 3.

[6] Cfr. E. Severino, op. cit., p. 79.

[7] Ivi, p. 82.


Riferimeni bibliografici

Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000.
E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, Milano, 20117.
U. Di Toro, L'enigma Parmenide, Aracne, Roma, 2010.
Eschilo, Prometeo incatenato, Rizzoli, Milano, 20062.
F. Rosenzweing, La Stella della Redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2008.
E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 20064.

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