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giovedì 5 giugno 2014

Alcune considerazioni in merito al paradosso del mentitore ....



(url immagine: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvzYhJrQvmLo39vQazmhlwJecck0aUTcFUupHa6akG2srtXoOP0-sZADxNWttBRSlxDJWKnFQnaeLXa7fTU37-dxU-iLsyssEPCj_siHeG5MvkHWa9AoEC0wum98AAWTHxwvt9lt7wEz8/s1600/Logic2.png)



Sainsbury sostiene che la formulazione fondamentale del paradosso sia la seguente:

(L1) L1 is false[1]

Ora, la paradossalità di (L1) deriva dalla correlazione tra due condizionali implicati proprio da (L1):

(a)  Se (L1) è vera, allora (L1) è falsa;
(b) Se (L1) è falsa, allora (L1) è vera[2].

L’applicazione di uno dei due valori di verità comporta la sua immediata inversione con il valore opposto: se diciamo che (L1) è vera, scopriamo che è vero che è falsa, e che, dunque, è falsa. Al contrario, se diciamo che (L1) è falsa, scopriamo, nostro malgrado, che è falsa che sia falsa, e che, dunque, è vera. In entrambi i casi, scontiamo una pesante contraddizione aletica: qualcosa di vero è invece falso, e qualcosa di falso è invece vero. Il che non è possibile. 
Sainsbury, però, suggerisce di vagliare più in profondità questa contraddizione e propone di sostituire in (a) e (b) al predicato ‘falso’ il predicato ‘non vero’ e al predicato ‘vero’ il predicato 'non falso’. Così, al precedente condizionale, otteniamo il seguente nuovo condizionale:

(a1) Se (L1) è vera, allora (L1) è non vera;
(b1) Se (L1) è falsa, allora (L1) è non falsa.

In questo modo, l’intrinseca contraddizione di (L1) viene portata all’interno della singola enunciazione. Una stessa proposizione, infatti, appare, rispettivamente, e nel contempo, tanto vera quanto non vera; oppure, tanto falsa quanto non falsa.



L’inversione aletica qui operante non consente più di distinguere adeguatamente tra la proposizione oggetto e la proposizione che opera un investimento semantico su quest’ultima. Non può, pertanto, sorprendere che la sua soluzione consista nel valutarlo da una prospettiva superiore la quale consenta la valutazione del linguaggio oggetto e, quindi, del riferimento di verità dello stesso. Come dice Sainbury:

la risposta di Tarski era che una spiegazione precisa della verità può essere fornita solo per linguaggi formalizzati (dotati di una grammatica specificata in modo esatto), e che i paradossi come quello del mentitore impongono che il metalinguaggio (quello in cui è definito «vero») sia intrinsecamente più ricco del linguaggio oggetto (quello che contiene gli enunciati a cui il predicato «vero» deve essere applicato)[3]

La formulazione canonica del paradosso in oggetto è la seguente:

[σ] ‘io sto mentendo’[4]


Tuttavia non appare possibile sfuggire alle maglie della formulazione paradossale non appena ci si chieda se la proposizione in questione sia vera o falsa, non appena cioè si ponga la questione semantica relativa. Non appena si concede ciò, diventa impossibile sfuggire al perverso meccanismo dell'inversione aletica e del connesso regresso all'infinito. Come sostiene infatti Usberti, un paradosso è un'espressione linguistica che 



È vera se falsa e falsa se vera[5]



Bene, a questo punto la questione diviene la seguente: possiamo così evitare i paradossi, vere e proprie sfide formidabili per la nostra comune intelligenza?

Note




[1] Cfr. R. M. Sainsbury, Paradoxes, Cambridge University Press, Cambridge, 20114, p. 127.
[2] Ibidem.
[3] Cfr. M. Sainbury, Logica filosofica, in F. D’Agostini – N. Vassallo (ed.), Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, p. 142.
[4] Cfr. F. D’Agostini, Disavventure della verità, Einaudi, Torino, 2002, p. 87: «Una versione del paradosso del mentitore è la seguente: (S) S è falso».
[5] Cfr. G. UsbertiLogica, verità e paradosso, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 27.

lunedì 17 settembre 2012

Introduzione alla verità ...




(immagine tratta da: http://ecx.images-amazon.com/images/I/312JdlbnQdL._SL500_AA240_.jpg)


Franca D'Agostini si dedica ormai da alcuni anni a ricerche trasversali le quali rompono la distinzione, apparentemente monolitica, ma certamente molto più friabile, tra “analitici” e “continentali”. In modo particolare, l'allieva di Vattimo, si occupa da tempo di “metafisica analitica”, fondendo idealmente le due tradizioni di pensiero, e dando luogo a opere originali, e per metodologia di ricerca e per profondità d'analisi delle questioni e delle fonti interrogate.

A questi crismi non sfugge certo il volume Introduzione alla verità (2011). Si tratta di un testo corposo che non può venir né analizzato (puntualmente) né recensito (adeguatamente) in questa sede. Mi limiterò esclusivamente ad estrapolare un'idea ivi presente che considero teoricamente rilevante.

Nonostante le secolari critiche, e le sempre nuove re-interpretazioni, sembra proprio che non sia dato fare a meno della verità. L'autrice, al riguardo, presenta anche una ricapitolazione della teoria della verità che, secondo lei, si compone di tre distinte, ma non anche irrelate, parti: (i) la nozione di vero; (ii) le regole per l'uso di vero; e, (iii) i criteri che regolano il rapporto (di contrarietà) tra vero e falso.


Alla confluenza di pensiero e realtà, per il tramite del linguaggio, ecco che fa la sua comparsa la nozione di verità: essa consente di distinguere tra correttezza ed errore, indirizzando verso un certo impegno ontologico rispetto alla realtà. Non a caso, infatti, la principale teoria della verità è realistica, nel senso che si richiama l'enunciazione alla responsabilità nei confronti di una realtà che desidera rappresentare.


Lo schema T, che è la principale teoria “robusta” della verità, ed anche quella maggiormente accreditata dal dibattito secolare, funziona secondo due momenti distinti, ma collegati: (a) il rilascio; e, (b) la cattura. Ossia, per dirla con le parole stesse dell'autrice, la “verità cattura ogni mia asserzione, e la verità rilascia, lascia libera, ogni proposizione che abbia in precedenza catturato” (p. 332). In termini simbolici,

T {(pVp)&(Vpp)}

Da un lato, se enunciamo p, allora p è vero, e se p è vero, allora enunciamo p. Questo è il funzionamento di base della teoria T della verità, la quale, però, vista sotto questo aspetto appare quantomeno “strana”.

Detto altrimenti, la teoria della verità, nello schema T, ossia la teoria più solida e più studiata, poggia su tre concetti fondamentali, i quali, però, ne descrivono anche lo sfondo di “stranezza” che da sempre l'accompagna: (1) la dispensabilità (non è necessario farne uso premettendola alle enunciazioni che vengono asserite); (2) l'ubiquità (la verità è sempre presupposta in qualsiasi enunciazione venga fatta); e, (3) la trasversalità (la verità si colloca tra linguaggio e mondo).

A questo punto, dunque, l'autrice mostra la sua interpretazione innovativa della verità, discutendo le possibili obiezioni alla teoria T, salvo, però, dover concedere che della verità non può farsi a meno, per dispensabile, o triviale, che sia.

Sicuramente, il presente è un volume che, pur nella sua estensione, presenta una densità concettuale che, almeno una volta nella propria vita, andrebbe sperimentata.


(immagine tratta da: http://t2.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcS6wBzY6c4UwsMRx0hPnuMbT-YbtX8Ei7kiAl3BJcLG4H8d-xkQaIXSTEJbjw)