Parlando con la
gente, sembra che il principale evento luttuoso recente sia l’11 settembre …
per carità, un evento luttuoso certamente, ma da qui a sostenere che sia quello
più doloroso … non intendo certo fare una graduatoria – lungi da me … - di
eventi dolorosi, ma credo che, almeno per quanto concerne la nostra storia
nazionale, ve ne siano molti di più … e allora la domanda mi sorge spontanea:
come mai a domanda – secondo te, qual è l’evento luttuoso più grave degli
ultimi anni? – si risponde così – l’11 settembre – senza dubbi? Come minimo, ci
avrei pensato su un poco … avrei ponderato … e solo quando convinto, avrei
risposto … molti invece no, rispondono di getto e additano, per di più, un
evento estero! Non abbiamo avuto un 11 settembre in Italia, e nemmeno in
Europa! Addirittura, a Marsala v’è una targa commemorativa grondante retorica
(fasulla) sull’evento … e cosa c’entra l’11 settembre con la Nostra storia?
Forse poco, ma da qui ad annoverarlo come evento da non dimenticare, inscritto
nella storia patria, ce ne corre … e mica poco!
Ma se a domanda
si risponde così, allora è bene prendere in considerazione quella che, a mio
avviso, è la reale conseguenza, questa sì storica, non quell’evento in sé, di
tale data: l’idea dell’esportazione della libertà. Infatti, chi ricorda bene,
certamente rammenterà l’imperativo categorico conseguente quale espressione di
massima delle relazioni internazionali: bisogna esportare la democrazia!
Improvvisamente, all’opinione pubblica, non solo nostrana, divenne evidente che
il mondo era cambiato – strana conclusione se si pensa a due grattacieli che
crollano su sé stessi! – e che bisognava che anche altri popoli, in genere
quelli sottoposti ad amministrazioni “canaglia”, conoscessero la dolcezza, la
bellezza e la ricchezza della libertà. L’ideale, volendo sottilizzare, in
astratto potrebbe anche essere un fine di massima auspicabile, se si considera
la libertà il meglio che si possa desiderare, ma è la declinazione in concreto
che fa problema, e che rende ostico l’intero ragionamento. Infatti, se il
popolo in questione non volesse la (nostra) libertà? La risposta è, ed in
effetti è stata esattamente questa, una sola: l’esportazione con le armi della
libertà. Ma allora non fu un’esportazione né tantomeno una (libera) conquista
di tali popoli: la libertà (occidentale) venne imposta manu militari ai popoli degli stati canaglia.
Mettendo tra
parentesi l’eventuale ossimoro tra “libertà” ed “esportazione”, ed anche il
contrasto stridente tra “libertà” e “armi”, credo sia il caso di porsi un’altra
questione, più di concetto, e che esula dalla mera questione storica di quegli
anni convulsi, e posteriori allo scoppio della bolla (speculativa) della – così
dicevano – New Economy, la pia
illusione che si potessero fare soldi uscendo fuori dalla logica produttiva di
merci, la seguente: è possibile esportare
la libertà? Siccome, com’è evidente, abbiamo a che fare con una retorica
dello spazio pubblico di discussione, l’appello alla libertà, come contenitore
entro il quale riversare un dato orizzonte simbolico, bisogna chiedersi se tale
retorica sia concretamente fattibile, se sia davvero mandabile ad effetto.
Secondo Canfora
no, si tratta, forse più semplicemente, di un mito che ha fallito. Certo bisognerebbe
capire in che termini ha fallito perché, secondo me, invece, è stato vincente
sino ad un certo punto. Infatti, ha mobilitato uomini, energie, interessi a
senso unico, dalle terre libere a quella da liberare. Si può forse negare che
sia riuscito nello scopo? Ancor oggi, si ricorda l’11 settembre in terre che
non lo hanno conosciuto affatto, ancora oggi lo si commemora come una cesura
epocale, come un punto di non ritorno, come la data a partire dalla quale il
mondo non sarebbe più stato lo stesso … a cambiare sono state le restrizioni in
imbarco sugli aerei per i poveri passeggeri, ma cos’altro è cambiato?
Praticamente nulla, eppure ci abbiamo creduto, eppure al mito della libertà da
esportare ci abbiamo sinceramente abboccato. Chi poteva dirlo in quei giorni? Chi
poteva anche solo lontanamente pensarlo allora? E d’altra parte, in Italia,
abbiamo dovuto riversare la memorialistica lagrimosa alle sofferenze inusitate
di altri popoli anziché ad un evento di poco precedente e che avrebbe ben
diversamente dovuto interessarci: il G8 di Genova! Ma meglio ricordare due
grattacieli in cemento e amianto che il caos dell’estate nostrana del 2001!
Peraltro, non si
tratterebbe nemmeno di un mito nuovo, di recente formulazione, ma di uno strumento
di lotta politica il cui uso, assurto quasi a sinonimo di Realpolitik, risale sino al mondo greco, ossia agli albori stessi
della nostra civiltà. Canfora, infatti, lo usa per interpretare la contesa geopolitica
delle poleis greche (p. 15 e sgg.),
una libertà da portare ai greci stessi (p. 16), ed anticipando, nelle relazioni
internazionali, anche il Trattato di Helsinki (1975) che riconosceva la
legittimità delle pretese imperialistiche del blocco sovietico. Il farsi garanti
della libertà altrui, è stato anche l’impegno etico, e politico, di Napoleone,
quasi la naturale prosecuzione dell’intento emancipatorio della Rivoluzione
francese, e pazienza che Robespierre tonasse contro tale idea, contro questo
mito, «che la «libertà» potesse essere «esportata» »(p. 21), dalla Francia, libera
e liberata, agli altri popoli, non liberi e da liberare. In quest’accezione,
infatti, la «libertà» diviene un mero instrumentum
regni, ossia uno strumento per legittimare campagne espansionistiche, per
legittimare il proprio imperialismo. Così, a lungo il Bonaparte si presentò
come la «spada della Rivoluzione» (p. 24) mentre, invece, «perseguiva la
politica di potenza del neonato «Impero francese»» (p. 24). Allora, gli esempi
storici mostrano, in maniera incontrovertibile, come quello della libertà sia
un mito destinato a molte repliche, e a nuove interpretazioni, sempre, però,
all’insegna della giustificazione, a posteriori, di ideologie imperialistiche a
spese di altri popoli, vicini o lontani sullo scacchiere geopolitico. In questo
modo, soltanto, si spiega il volo
pindarico dell’URSS, terra libera, che deve esportare verso altre terre la
propria libertà. E allo stesso modo, il gioco tra potenze mondiali sull’Afghanistan,
insignificante pezzo di terra in sé, ma importante tessera sul mosaico degli
equilibri di potere. Peraltro, il dover giustificare di volta in volta i propri
voltafaccia, dà luogo a buffi ragionamenti sulla libertà, talvolta la propria,
talvolta l’altrui. Tant’è che «rifulse il cinismo realpolitico nella vicenda
afghana» (p. 49).
Allo stesso
modo, va interpretato l’interventismo americano nel biennio posteriore all’11
settembre, prima in Afghanistan – ancora lui! -
e dopo in Iraq, forse a saldare dei conti rimasti in sospeso dieci anni
prima. Tuttavia, in quest’ultimo caso, «il fallimento del proposito di
«esportare la libertà» […] è sotto gli occhi di tutti» (pp. 55 – 6), o
perlomeno di quanti riescano a rendersene conto. La libertà s’è impantanata nei
fanghi e nella polvere di quelle periferie del mondo, dando luogo ad altri
lutti, ad altri dolori, a risorse, umane e materiali, colà sprecate. E,
rimanendo in Iraq, come mai la libertà
non è stata esportata anche ai Curdi, paria degli stati? Come mai valeva per
loro, anche se solo a parole, dieci anni prima, e non valeva più appena alcuni
anni dopo? Certo, non è savio attendersi coerenza dai tumulti della storia, ma
un minimo di decenza, forse, sì. Eppure, così non è stato, gli iracheni sono
stati liberati, obtorto collo, i curdi no.
E i nemici della
libertà, invece, chi sono? Chi erano in quegli anni, così vicini eppure
apparentemente così distanti da noi? Per il gioco degli opposti manicheistici,
ovviamente, chi attenta alla (nostra) libertà: i terroristi. Entità vaghe, grigie, indistinte, senza volto, senza
nome, senza storia, ma qui vicini a noi, in procinto di compiere chissà quale
inusitata violenza ai nostri danni. Ma anche qui con il consueto cinismo
realpolitico: i mujhaiddin afghani erano patrioti sino a quando si opponevano
al tentativo sovietico di assoggettarli, i quali a loro volta volevano anche
loro farli liberi, ora diventano terroristi se si oppongono ai nuovi patrioti
della «libertà». L’equivalenza terrorista = nemico della libertà è lampante
tanto quanto il suo non venir pubblicizzata. Questo era il messaggio nascosto
della retorica palese di allora, o con me o contro di me, o per la libertà o
contro di essa (p. 61).
Eppure, a nulla,
forse, valgono i saggi consigli degli antichi secondo i quali la verità sta nel
mezzo, né tutta con gli uni né tutta con gli altri. In fondo, c’era differenza tra
«libertà» e «terrorismo», v’erano più di un’alternativa, ma abbiam preferito
lasciarci andare all’irrazionalismo emotivo di allora, sotto la gran cassa
mediatica, e rinunciare a nostre libertà storiche in nome di una non meglio
precisata «sicurezza». Alla sicurezza abbiamo sacrificato l’essenza genuina
della nostra stessa civiltà, al cappio denominato «sicurezza» abbiamo eliminato
la nostra stessa libertà.
Per la libertà,
in suo nome, e per difenderla, siamo scappati dal suo seno.
(immagine tratta da: http://img2.libreriauniversitaria.it/BIT/240/472/9788804574729.jpg)