"Questa storia è finita, sia pure come finiscono tutte le storie, per ricominciare: ma fra la storia vecchia e la nuova non c'è il tratto di unione di una vittoria, c'è la soluzione di continuo di una sconfitta. L'esperienza della nostra storia è dunque l'esperienza di una sconfitta, che noi dobbiamo fermare e affidare, così come l'abbiamo vissuta, alle generazioni future. O forse, soltanto a noi stessi, perché di noi, della nostra esistenza si tratta. Dopo quattro anni di guerra feroce, tra i foschi presagi di una pace ancor più feroce, le probabilità di salvezza della nostra vita fisica sono ridotte a ben poco"
(S. Satta, De Profundis, Ilisso, Nuoro, 2003, p. 54)
Come accadeva in precedenza, Satta prosegue sulle note iniziali, ovvero intonazione morale e gusto per il tragico. Dissolto lo Stato, l'uomo qualunque rimane solo, ciascuno solo davanti alla vita, ognuno abbandonato al suo rio destino, deietto innanzi al timore della propria estinzione. Morte, annichilimento, annientamento, sconfitta ... categorie eterogenee che reggono l'impianto di senso soggiacente alla narrazione volutamente accattivante dell'autore, vale a dire narrare dell'egoismo viscerale che esplose senza freni all'indomani dell'armistizio. Dovendo sopravvivere quotidianamente, gli italiani riversarono le proprie energie al problema abissale, evitare la propria scomparsa personale. Ma facendo ciò, ossia agendo, gli italiani sacrificarono la Patria, sopravvivendole. In altri termini, la scomparsa dello Stato etico, così gentilianamente configurato come fraudolamente vissuto dai più, ha salvato le vite dei singoli. Ovvero, rovesciando l'antico adagio morituri patria, gli italiani, pur si aver salva la loro misera e singola vita, hanno sacrificato la patria, ovvero il generale, il bene comune, al particulare, al bene privato ...
Il resto appare sinistramente storia di questi giorni ...
(continua)
(url: http://www.sandalyon.eu/uploadmeteora2/Salvatore_Satta_14541444236219.jpg)
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