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venerdì 27 marzo 2015

Logica deontica, again!




(url immagine: http://www.helsinki.fi/alumniyhdistys/images/ajankohtaista/Georg%20Henrik%20von%20Wright.jpg)


A mio modo di vedere, due sono i momenti distinti, ma non anche irrelati, della ricerca von wrighitana intorno alla sensatezza delle proposizioni pratiche: 

1) un primo momento, coincidente con i decenni ’50 – ’60 del secolo scorso; e, 
2) un secondo momento, coincidente in linea di massima con i decenni seguenti. 


Mentre il primo momento configura la ricerca di von Wright come espressamente logica, il secondo momento invece qualifica l’itinerario speculativo dello stesso in chiave marcatamente analitica.

Per dirla in altro modo, nel primo momento, von Wright cerca di venire a capo dell’enigmaticità della razionalità del discorso pratico tramite una cassetta degli attrezzi di tipo formale, mentre nel secondo tramite una cassetta degli attrezzi di tipo analitico. Non si tratta puntualmente di due  momenti slegati, ma di due tappe di un unico progetto originario: render conto della razionalità del discorso pratico

Tra i suoi molteplici interessi, quello inerente alla razionalità del discorso pratico ha segnato l’intera speculazione del compianto filosofo finlandese, un itinerario teoretico preciso e sorretto da un profondo ottimismo nei confronti del futuro dell’umanità, specie dopo la catastrofe del secondo conflitto mondiale. Questo atteggiamento di fondo si riverbera nella maniera con cui attende a render conto logicamente della razionalità del discorso pratico. Infatti, appare convinto della chiave di volta logica, e che, dunque, in qualche modo fosse pure possibile indicare riflesso nel rigore del linguaggio formale la nitidezza della razionalità del discorso pratico. Era, cioè, convinto del fatto che la perfetta geometria della logica formale potesse riflettere la razionalità delle enunciazioni pratiche. 


Negli anni ’50 venne a contatto con la logica modale, e scorse un’analogia tra «i quantificatori e i concetti modali»[2] grazie alla quale si convinse di poter catturare all’interno delle reti formali il comportamento razionale delle enunciazioni linguistiche del discorso pratico. Aggiungendo uno specifico operatore modale ad uno dei noti sistemi russelliani, vale a dire le logiche proposizionali, diventava possibile estendere il range di funzionamento della logica oltre i normali confini vero – funzionali. 

Intendo sostenere che von Wright affronta di petto la problematica conosciuta come dilemma di Jørgensen, e secondo la quale è problematica la discussione intorno al carattere logico delle proposizioni pratiche[3] dal momento che queste ultime non descrivono stati di cose, e, pertanto, sono aleticamente adiafori, il che significa affermare che non «sussistano relazioni logiche»[4] fra imperativi e norme. Piuttosto, scorgendo un’analogia tra logica modale aletica e logica deontica non aletica, di modo che sia possibile sottoporre ad analisi logica anche le proposizioni pratiche, si aggira l’ostacolo costituito dalla loro eterogeneità ai valori vero – funzionali. 


Facendo ciò, von Wright mostra l’estremo fascino della logica deontica, problematica sì, ma interessante perché consente di estendere il dominio della logica oltre i limiti del regno della verità[5]. Ciò significava, infatti, imbrigliare le enunciazioni intensive, quali quelle del discorso pratico, entro un formalismo logico che attribuisse un significato “modale” alle usuali enunciazioni estensive.


Se consideriamo le analogie scorte da von Wright tra logica e linguaggio, penso si possa scorgere l’evoluzione successiva del suo pensiero che muove dall’analisi del linguaggio formale in direzione dell’analisi del linguaggio ordinario. Il che significa spostare l’attenzione dalla razionalità del discorso morale, malamente riflessa dalla razionalità del discorso formale, al discorso morale in quanto tale.

A partire dagli anni ’60 von Wright si concentra sull’azione, sul cambiamento, sul tempo. Non si tratta di meri allargamenti di interessi speculativi, ma di necessari progressi nella sua considerazione intorno alla razionalità del discorso pratico. Detto altrimenti, infatti, già a partire della fine degli anni ’50 a più interlocutori la sua logica deontica appariva priva «di solide fondamenta»[7], dal momento che la sua stessa storia sia stata costellata da innumerevoli quanto gravi malfunzionamenti formali[8], chiamati, in genere, paradossi, ma aventi una natura profondamente diversa dai ben noti paradossi semantici[9]vale a dire derivazioni tanto sorprendenti quanto sgradevoli[10].


Questo allargamento, tuttavia, consente di integrare lo scarno simbolismo formale delle prime versioni di logica deontica con un linguaggio più evoluto e maggiormente capace di cogliere la razionalità pratica. Per Artosi, «ci sono parecchie questioni in logica deontica»[11] che potrebbero risultate rilevanti per il discorso pratico, nonostante le indubbie difficoltà. Se a partire dagli anni ’40 si cominciò a discutere delle possibili conseguenze per l’etica «degli sviluppi della logica»[12], è anche vero come proprio la logica deontica abbia costituito un indubbio «risultato principale di questo allargamento del campo di indagine»[13]. Infatti, essa consente di render conto, entro certi limiti, della razionalità del discorso pratico. Intendo dire che sicuramente essa «doveva mettere in luce il funzionamento degli operatori caratteristici del ragionamento normativo»[14] ma è altrettanto certo che da sola non è sufficiente allo scopo, riuscendo a mala pena a catturare solo un pezzetto della razionalità suddetta. 

In tempi recenti, von Wright ha sostenuto che il formalismo del linguaggio logico illumina solo un aspetto della razionalità pratica, ossia la sua normatività, ma è del tutto incapace di render conto della dinamicità concreta dei ragionamenti pratici[15], diversamente essenziali per un discorso pratico realmente tale. Dunque, par di capire, quest’ultimo sembra continuare a sfuggire alla logica. Una condizione del tutto spiacevole dal momento che consegna la morale all’arbitrio, all’irrazionale, all’ingiustificato. Mentre, e certamente, «il pensiero pratico è pur sempre pensiero e, come tale, deve soddisfare i requisiti e le leggi della logica»[16].


Come conciliare, allora, le esigenze della logica con la natura problematica del discorso pratico? Per Poli, «il pensiero pratico è pensiero sul mondo in relazione a specifici concetti essenzialmente pratici. Pensiamo praticamente quando emettiamo ordini e comandi e quando prendiamo decisioni. In tal modo, il pensiero pratico include il pensiero non pratico in quanto implica la conoscenza dell’ambiente e delle circostanze in cui operiamo»[17]. E ciò è, in fin dei conti, coerente con la storia della logica deontica stessa, un vero e proprio tentativo di cogliere «the underlying structure, of our moral discourse»[18]. Vale a dire, di tradurre formalmente le intuizioni morali che viceversa esprimiamo con il discorso pratico[19]


Pensare, al contrario, che la logica possa dirci come agire, vale a dire esprimere nel contempo tanto la forma quanto il contenuto del discorso pratico appare del tutto insensato. Al massimo, ci descrive la cornice linguistica delle enunciazioni pratiche, ma non sembra in grado di attingere al relativo contenuto, il quale resta legato alle intuizioni morali che noi, in qualità di agenti umani razionali, produciamo ed esperiamo. 

Secondo alcune interpretazioni, proprio la tensione irriducibile tra il primo e le seconde potrebbe essere una delle cause principali dei paradossi deontici[20], una particolare tensione tra il lavoro dei logici formali e la filosofia delle norme[21].


Dopo trent’anni nel labirinto della logica deontica[22], von Wright modifica la sua logica deontica in termini di filosofia delle norme. Pur non rinnegando le sue idee precedenti, svolge un discorso del tutto differente rispetto a prima. Così, giungiamo al secondo momento di svolgimento della sua speculazione. Non più una logica, ma una praxeologia della legislazione umana. Detto altrimenti, la logica deontica non può dirimere le questioni trattate nel discorso pratico, ma «will help to clarify disputes between particular theories»[23]. Nel 1983 von Wright introduce la metafora del legislatore razionale per esprimere il succo della sua teoria intorno alla razionalità del discorso pratico[24]


Per il Nostro, infatti, vi sono alcune particolari condizioni affinché delle norme siano razionali: a) la possibilità che non sempre vengano rispettate; b) impossibilità di rispettarle; c) manifesta irrazionalità delle stesse. Nel caso (a), è normale che nel corso degli eventi alcune norme siano non rispettate, può occasionalmente accadere. Nel caso (b), invece, von Wright insiste sul carattere ‘umano’ dei desiderata del legislatore: nessuna norma non soddisfacibile, per i più vari motivi storici, o fuori dalla portata di agenti umani, razionali sì ma del tutto fallibili, può venir soddisfatta egualmente. Più interessante, a mio avviso, è il caso (c). Infatti, il Nostro sta asserendo che il legislatore non può mai ordinare una contraddizione, come ad esempio fare X-e-non-X. In quest’ultimo caso,  il legislatore è irrazionale per aver ordinato di soddisfare due norme contraddittorie, le quali possono essere soddisfatte solo una alla volta nel normale  corso storico, e mai insieme nello stesso tempo storico. 

Un discorso molto simile, ma in fin dei conti differente, viene compiuto per i permessi. Per von Wright, sono possibili i seguenti casi: x) la coesistenza di due permessi; xx) la non soddisfacibilità pratica di uno dei due permessi contrari; xxx) la non soddisfacibilità pratica di due permessi contraddittori. Nel caso (x) viene meramente ribadita la definizione di permesso, vale a dire di azioni lasciate all’arbitrio dell’agente umano. Nel caso (xx), invece, si contempla l’impossibilità per un dato agente di mandare ad effetto in maniera efficace due permessi su azioni tra loro contraddittorie. Nella medesima sequenza temporale, infatti, solo uno dei due permessi contrari è realizzabile, a scapito dell’altro il quale, evidentemente, non può essere adempiuto. Infine, nel caso (xxx), von Wright introduce nella riflessione pratica una specifica nozione logica, quella di contraddizione, al fine di negare l’eventualità che un legislatore conceda dei permessi su due azioni perfettamente contraddittorie. In tal caso, infatti, si tratta di due permessi che non possono rimanere validi per l’intera durata della storia. E tuttavia si deve comunque concedere che siano, da un punto di vista squisitamente pratico, del tutto possibili. Vale a dire che è del tutto razionale che sussistano entrambi. 


Allora, sembra di poter asserire che von Wright formuli delle specifiche condizioni di possibilità per una razionalità normativa, vale a dire produttiva di norme razionali. Queste sono, a ben vedere, solamente due: i) la non contraddittorietà delle proposizioni del discorso pratico; e, ii) la coerenza tra le proposizioni del discorso pratico. La condizione (i) impone che il legislatore non fornisca volutamente ordini contraddittori mentre la condizione (ii) impone che tra due obblighi o permessi sussista sempre una relazione di coerenza, ovvero di consistenza tra corrispondenti corsi d’azione opposti. Senza la condizione (i), ovvero senza la non contraddizione, e senza la condizione (ii), ovvero senza la coerenza, non può darsi un discorso pratico razionalmente fondato e sensato. In ogni caso, comunque, rimane ferma la limitazione fondamentale, in virtù della quale «la logica può solo rispecchiare le nostre teorie morali»[25].


Per Galvan, «La Logica deontica è una particolare Logica intensionale […] è praticata in misura prevalente nell'ambito della Logica proposizionale e, probabilmente, è questa la ragione che ne limita l'utilità come strumento effettivo di argomentazione nell'ambito giuridico ed etico applicativo»[26]. Trattandosi, dunque, di una particolarissima logica proposizionale di primo livello, non appare in grado di render conto della razionalità del discorso pratico, salvo, forse, alcuni minimi aspetti. Di ciò, con molta probabilità, si rese presto conto lo stesso von Wright, il quale, sottoponendo a revisione e critica la propria riflessione, pervenne infine alla sistemazione attuale che, se da un lato si configura come un superamento della stessa logica deontica, dall’altro lato si configura anche come un procedimento filosofico di natura differente dallo studio formale, vale a dire come una filosofia delle norme che descriva i canoni di una razionalità del discorso pratico. 


A questo punto, mi sia consentito svolgere alcune considerazioni ulteriori. 

A) La praxelogia appare come il riconoscimento di una sconfitta, che la logica deontica manca il suo scopo originario, anche se rimane alta ed ancora valida l’esigenza di fondo, di mettere a punto un trattamento formale capace di riflettere la natura della razionalità pratica. 


B) L’indagine praxeologica rimane sempre e solo teorica, vale a dire von Wright la confina nell’iperuranio della teoretica fine a sé stessa. Intendo, cioè, dire che i principi di non contraddizione e consistenza non valgono per questo o quell’ordinamento pratico, ma solamente per uno ed unico ordinamento: quello ideale. Von Wright, in altri termini, circoscrive l’ambito di validità della sua analisi praxeologica alla purezza ideale di un modello teorico di legislazione umana, sì razionale, ma sempre e comunque distante, e purtroppo, dalla confusa, irrazionale e sovente pure inconsistente legislazione umana storica?


A coclusione della presente rapida rassegna di due singoli momenti della sterminata produzone e riflessione del filosofo finlandese, possiamo tranquillamente chiederci se sia poco o molto. Difficile dirlo. In ogni caso, si tratta di uno svolgimento che merita approfondimento e considerazione, più di quanto non sia possibile in questa sede. 


E per quanto esista comunque una razionalità del discorso pratico e per quanto, ancora, il linguaggio umano esprima delle funzioni normative[27], la meta agognata, il render conto in maniera efficace e puntuale della razionalità del discorso pratico, appare ancora lontana nel suo stagliarsi al termine dell’orizzonte.







[1] Cfr. p. tripodiGeorg Henrik von Wright fra Carnap e Wittgenstein, “Rivista di Filosofia”, 3, 2002, p. 433.
[2] Ivi, p. 440.
[3] Cfr. j. jørgensenImperatives and Logic, “Erkentnnis”, 7, 1937 – 8, p. 288.
[4] Cfr. b. celanoDialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994, p. 326.
[5] Cfr. g. h. von wrightLogical Studies, Routledge and Kegan Paul, London, 1957, p. vii.
[6] Cfr. a. emilianiIntroduzione, a: g. h. von wrightNorme e azione. Un’analisi logica, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 9.
[7] Cfr. g. sartorInformatica giuridica. Un’introduzione, Giuffré, Milano, 1996, p. 87.
[8] Cfr. a. artosiIl paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000,, p. 69: «fonte insidiosa e inesauribile di paradossi».
[9] Cfr. f. feldmanA Simplex Solution to the Paradoxes of Deontic Logic, “Philosophical Perspective. Action Theory and Philosophy of Mind”, 4, 1990, p. 309: «Some of deontic logic’s stickiest problems are revealed by the so-called “paradoxes of deontic logic”. None of these is, strictly speaking, a paradox».
[10] Cfr. EJLemmon – P. H. Nowell SmithEscapism: The Logical Basis for the Ethics, “Mind”, 69, 1960, p. 290.
[11]Cfr. a. artosiop. cit., p. 7.
[12] Cfr. s. cremaschiL’etica del novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma, 2005, p. 64.
[13] Cfr. b. celanoPer un’analisi del discorso dichiarativo, “Teoria”, 1, 1990, p. 166.
[14] Cfr. p. rossi – c. a. viano (eds.), Storia della filosofia. 6. Il Novecento, Laterza, Roma – Bari, 1999, pp. 889 – 890.
[15] Cfr. g. h. von wrightDeontic Logic: A Personal View, “Ratio Juris”, 1, 1999, p. 31.
[16] Cfr. g. h. von wrightIntroduzione, a: g. di bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37.
[17] Cfr. r. poliLa logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), “Verifiche”, 4, 1982, p. 465.
[18] Cfr. g. s. mcCord, Deontic Logic and the Priority of Moral Theory, “Mind”, 20, 1986, p. 179.
[19] Cfr. n. rescherTopics in Philosophical Logics, Reidel, Dordrecht, 1969, p. 321.
[20] Cfr. g. h. von wrightOn the Logic of Norms and Action, in r. hilpinen (eds.), New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, p. 7.
[21] Cfr. d. makinsonOn a Fundamental Problem of Deontic Logic, in p. mcnamarra - h. prakkenNorms, Logics and Information Systems. New Studies in Deontic Logic and Computer Science, IOS, Amsterdam, 1999, p. 29.
[22] Cfr. g. h. von wrightNorme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, p. 5.
[23] Cfr. g. s. mcCordop. cit., p. 179.
[24] Cfr. g. h. von wrightNorme … op. cit., p. 16.
[25] Cfr. a. artosiop. cit.¸ p. 205.
[26] Cfr. s. galvanLogica deontica e sue applicazioni, in g. basti – p. gherri (eds.), Logica e Diritto: tra argomentazione e scoperta, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2011, p. 85.
[27] Cfr. a. pizzoIl contributo di Georg Henrik von Wright alla filosofia del XX secolo, in i. pozzoni (ed.), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta, 2012, p. 404: «il linguaggio assume precisi significati normativi, esplicando di conseguenza altrettante funzioni normative».

giovedì 8 agosto 2013

Logica deontica. FAQ3

E com'è il paradosso della vittima?

Anche in questo caso la contraddizione coinvolge direttamente, e senza mezzi termini, il principio [P], ossia il principio secondo il quale se qualcosa implica uno stato di cose vietato è di per sé vietato. Assumiamo allora il caso di una vittima di qualche offesa personale, mettiamo un furto. Abbiamo, di conseguenza, la seguente situazione malformata:

  1. se la vittima di un ladro lamenta il suo destino di essere stata derubata, allora ha avuto luogo una rapina;
  2. è vietato che abbiano luogo rapine;
  3. ergo, (a causa dell'applicazione del princio [P]) è vietato che la vittima di una rapina lamenti il proprio destino di esser rapinata.

Senza alcun dubbio in merito, la conclusione (3) è del tutto paradossale, è cioé una contraddizione con la prima premessa, ovvero una falsità senza possibilità alcuna di redenzione. Come a dire, oltre al danno, il furto, anche la beffa, vietato lamentarsi. Aggiungiamo che la conclusione in questione, sebbene falsa perché contraddittoria (con la premessa (1)), è legittimamente derivata dall'insieme delle premesse e in coordinazione appunto con il principio [P]. Cosa dobbiamo dedurne? Che il suddetto principio è falso oppure, cosa più probabile, che l'eccessiva rigidità della logica deontica sia l'unica responsabile di questo stato di cose? Ovvero, della generazione senza posa di efferati paradossi? A mio avviso, è un problema notazionale della stessa, del tutto incapace di evitare derivazioni incoerenti[1].

Si tratta di contraddizioni notevoli. Cosa accade invece nel caso del paradosso del ladro?

Il colpevole è sempre il principio [P]. Assumiamo l'ipotetico caso seguente:

  1. il ladro pentito della sua rapina implica che una rapina ha avuto luogo;
  2. è vietato che abbiano luogo rapine.

Similmente al caso del Buon Samaritano, si ottiene la seguente conclusione dell’inferenza deontica:

(3) è vietato che il ladro si penta della sua rapina

Ovviamente, la conclusione deontica (3) è paradossale perché si tratta di una formula incoerente dato che vengono affermate due enunciazioni contrarie tra loro, la (1) e la (3). Per di più, appare problematico che dalla verità delle premesse possa derivarsi, e per di più correttamente, una conclusione falsa!

E il paradosso di Platone?

A rigore si deve precisare subito come non sia propriamente “farina” del sacco della logica deontica, ma è pur sempre un'utile occasione per mettere a fuoco un problema formale grave. Nello stesso tempo va detto pure come esso possa venir accostato ai dilemmi morali, ossia a tutti quei casi per I quali la declinazione in concreto di principi generali fallisce e nel corso dei quali il singolo agente è del tutto impossibilitato a scegliere, razionalmente quanto sensatamente, tra una delle due alternative confliggenti[2]. Seguiamo adesso la presentazione che viene offerta da Lemmon[3]: si ponga caso che un amico lasci in custodia la sua pistola con la promessa da parte di rendergliela quando la chiederà indietro. Si conceda che dopo qualche tempo questo amico si presenti chiedendo indietro la sua pistola perché deve lavare il suo onore in quanto ha scoperto che la moglie gli è infedele. Pertanto, il risultato è di trovarsi nell’indesiderabile situazione di esser presi tra due obblighi confliggenti restituire e non restituire la pistola. Infatti, in base a quanto promesso si deve rendergliela ma siccome è prevedibile quale uso ne seguirà si è anche obbligati a non restituirla. Ringraziando Platone per aver formulato per primo questa situazione dilemmatica[4], vediamo di attenzionarla alla luce della logica deontica. Il paradosso è costruito sull’opposizione tra due obbligazioni prima facie di eguale importanza. Ma uno dei principi della logica deontica è che due obbligazioni opposte non possono mai darsi. E tuttavia questo caso concreto sembra costituire un contro-esempio al principio stesso. Allora chiediamoci: è falso l'esempio oppure il principio? Forse, e più ragionevolmente, nessuna delle due. Secondo Hansson[5], la logica deontica è semplicemente, oltre che gravemente, incapace di impedire derivazioni contraddittorie, come le presenti.

Si tratta di un'incapacità grave, anche perché rende possibili situazioni complesse di contraddizioni. É anche il caso del paradosso di Sartre?

Sì, senza dubbio. Anche se il presente è un caso più affine a quello di Platone che ai precedenti, vale a dire ci troviamo di fronte ad un tipico caso di 'dilemma morale' più che di un paradosso deontico in senso proprio. Ma lasciamo che sia Sartre[6] stesso ad illuminarci:

citerò il caso di un mio allievo, venuto a chiedermi consiglio nelle circostanze seguenti. Nella sua famiglia i rapporti tra il padre e la madre si erano guastati e d’altra parte il padre tendeva a collaborare con i tedeschi; il figlio maggiore era caduto durante l’offensiva germanica del ’40, mentre il figlio minore, i mio allievo, giovane dotato di sentimenti un po’ primitivi ma generosi, lo voleva vendicare. La madre viveva sola con l’unico figlio rimastole, affranta per il mezzo tradimento del marito e per la fine dell’altro figlio, e vedeva in lui la sola consolazione. Quel giovane in quel momento poteva scegliere tra partire per l’Inghilterra e arruolarsi nelle Forze Francesi di Liberazione – e quindi abbandonare la madre – o restare presso la madre e consolarne l’esistenza. Si rendeva ben conto che la donna viveva solo per lui e che il suo andarsene via – e forse la sua morte – l’avrebbero gettata nella disperazione

Il problema, in fin dei conti, è che il soggetto non può scegliere in quanto non ha argomenti conclusivi a favore dell’una come dell’altra scelta, benché entrambe si configurino quali doveri. Come si vede, non è esattamente un paradosso deontico ma se si volesse formalizzare con il linguaggio della logica deontica giungeremmo ad una chiara quanto inequivocabile situazione contraddittoria.

Allora potremmo aggiungere, in un'ottica più generale, come la logica deontica non sia in grado di gestire i dilemmi morali?

Esattamente, in un dilemma morale entrambe le alternative sono obbligatorie, e, quindi, richieste, oppure sono entrambe vietate, e, quindi, da evitare, eppure il soggetto non è in grado di scegliere adeguatamentre l'una piuttosto che la l'altra[7]. Il che, comunque, è da un punto di vista squisitamente logico strano oltre che inquietante: non era esclusa la possibilità di conflitti tra doveri?

Cosa accade, invece, nel caso del paradosso dell'Imperativo contrario al dovere?

Semplificando, si può tener conto dello strano meccanismo logico operante nel caso del paradosso del Buon Samaritano, e considerare adesso la situazione seguente:

  1. Nicola deruba Giorgio;
  2. Nicola deve non derubare Giorgio;
  3. Deve darsi il caso che se Nicola non derubi Giorgio, egli non sia punito;
  4. Se Nicola deruba Giorgio, allora egli deve essere punito.

Chishoml[8] chiama la conclusione (d) un imperativo contrario al dovere, vale a dire un obbligo contrario ad dovere precedentemente espresso in (b).
Siccome temo che l'esempio presente renda poco perspicuo lo specifico del paradosso in questione, seguiamo Poli[9]:

(a) Deve essere che Smith si astenga dal derubare Jones.
(b) Smith deruba Jones.
(c) Se Smith deruba Jones, egli deve essere punito per il furto.
  1. Deve essere che, se Smith si astiene dal derubare Jones, egli non venga punito per il furto.

L'iter del ragionamento appare quantomeno strano. Infatti, la conclusione paradossale non ha un carattere generale, ma discende esclusivamente dall'espressione di un nesso di causalità. IL fatto che la logica deontica stenti a darne un'adeguata epsressione è, a mio avviso, un'ulteriore conferma dei limiti della disciplina. Per Føllesdal e Hilpinen[10], infatti, l'Imperativo contrario al dovere ci dice solo cosa andrebbe fatto una volta che sia già stato violato un dovere. Si tratterebbe, dunque, di un dovere “riparatorio” dell'infrazione precedente. Ma la logica deontica fallisce nel tentativo di render conto anche di siffatte situazioni condizionali o di distinzione tra doveri prima facie e doveri attuali.

Ancora una volta, dunque, le difficoltà della disciplina appiono sconcertanti ed inquietanti. Ma rimane ancora un caso da considerare, vero?

Certamente, abbiamo da prendere in considerazione ancora il paradosso del dovere epistemico. Poniamo che un addetto alla sicurezza interna di un supermercato debba vigilare sui taccheggi. Se qualche cliente taccheggia, l'addetto deve sapere chi sta taccheggiando. Ora, però, se lo stesso sa che Maria sta taccheggiando, allora Maria sta taccheggiando. Per lo schematismo della logica deontica, otteniamo infine come sia obbligatorio che Maria taccheggi[11]. Ancora una volta, il formalismo della logica deontica consente di ottenere conclusioni paradossali, ovvero contraddizioni le quali, pur essendo delle asserzioni false, vanno accettate come vere.

Sconcertante, anche se, in certo qual modo, ugualmente stimolante. In conclusione, cosa può dirsi in generale sui paradossi della logica deontica?

La scoperta di limiti interni alla teoria se sulle prime sconvolge perché comunica l'impressione che la teoria stessa sia incosistente a causa delle varie contraddizioni in cui la stessa cade, tuttavia è sorgente di progressi futuri, anche nel tentativo di risolvere, se non tutte, almeno buona parte, delle difficoltà in cui si dibatte la disciplina. Per Poli[12], ad esempio, proprio lo studio dei paradossi ha consentito l'evoluzione della logica deontica. In questo senso, infatti, sembra di poter individuare due sole alternative allo stato di cose attuale: I) o ridurre il corpus degli assiomi, teoremi e linguaggio formale agli aspetti minimali, con applicazione delgi operatori a descrizioni di azione; II) oppure bisogna costruire una logica “più forte” in grando di render conto anche di situazioni nuove, come i nessi di condizionalità oppure le relazioni tra gerarchie diverse di obblighi oppure gestire più variabili contemporaneamente. Anche se, a volerla dire tutta, la storia della logica deontica è sempre stata una storia di risoluzione dei paradossi e riproposizione di nuovi paradossi[13]. Per Makinson[14], d'altra parte, ed anche, pur con le dovute differenze, per von Wright[15], tutti I problemi della materia derivano dalla tensione tra le nostre intuizioni normative, che intenzionano le azioni in un senso “morale”, e il formalismo logico, il quale è del tutto eterogeneo al meccanismo della valutazione morale. Per Rescher[16], infatti, quel che davvero fa, e potrebbe fare solamente, la logica deontica è dare espressione inadeguata al contenuto razionale delle nostre intuizioni morali. In ogni caso, quelli che seguono sono, a mio sommesso parere, I casi di difficoltà la cui trattazione genera paradossi in logica deontica:

(1) relazioni di causalità tra modali deontici;
(2) relazioni di condizionalità (primaria e secondaria) tra proposizioni deontiche;
(3) iterazione di modali deontici;
(4) iterazione modale (modalità miste);
(5) difettibilità, e relativa apertura a tempi, agenti e contenuti differenti, delle proposizioni deontiche;
  1. vincoli di coerenza basati sul principio di contraddizione.

Non c'è proprio speranza, allora?

Possiamo parlare solo del passato e, in certa stretta misura, anche del presente. Ma del futuro chi è abilitato a parlare? Magari un giorno potremo parlare di una logica deontica “perfetta”. Intanto, però, possiamo solo prendere atto delle difficoltà entro le quali deve barcamenarsi la materia.

Note
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[1] Cfr. C. H. Huisjes, Norms and Logic, Copiëerinrichting v. d. Berg, Kampen, 1981, p. 45.
[2] Cfr. H. N. Castañeda, Thinking and Doing, Reidel, Dordrecht, 1975, pp. 26 – 31.
[3] Cfr. E. J. Lemmon, Moral Dilemmas, “The Philosophical Review”, 2, 1962, p. 148: «Here is a simple example, borrowed from Plato. A friend leaves me with a gun, saying that when he calls. He arrives in a distraught condition, demands his gun, and announces that he is going to shoot his wife because she has been unfaithful. I ought to return the gun, since I promised to do so – a case of obligation. And yet I ought not to do, since to do so would be to be indirectly responsible for a murder, and my moral principles are such that I regard this a wrong. I am in an extremely straightforward moral dilemma, evidently resolved by not returning the gun».
[4] Cfr. Platone, La Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 200610, p. 33 (I, 331 c): «Ti faccio un caso: se uno ha ricevuto armi da un amico sano di mente e se le sente richiedere da quell’amico impazzito, chiunque dovrebbe dire, a mio avviso, che non bisogna ridargliele e che non sarebbe giusto chi gliele ridesse».
[5] Cfr. S. O. Hansson, op.cit., p. 170: «in standard deontic logic (SDL), it is possible conclude form Op and Op that Oq for any argument q of the operator. Hence, in the presence of a moral dilemma, everything is obligatory».
[6] Cfr. J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1996, pp. 43 – 4.
[7] Cfr. R. Ohlsson, Who Can Accept Moral Dilemmas?, “The Journal of Philosophy”, 8, 1993, p. 405: «In a moral dilemma, the agent acts wrongly whatever she does. Either all avaible alternatives are forbidden, or two or more actions that cannot conjointly be performed are morally required in the same situation, or one and the same action is both forbidden and absolutely obligatory».
[8] Cfr. R. M. Chisholm, Contrary – to – Duty Imperatives, “Analysis”, 24, 1963, pp. 33 – 36.
[9] Cfr. R. Poli, op. cit.(I), p. 338 e sgg.
[10] Cfr. F. Føllesdal – R. Hilpinen, Deontic Logic: An Introduction, in R. Hilpinen (ed.), Deontic Logic: Introductory and Systematic Readings, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht – Holland, 1971, pp. 25 – 6: «A contrary-to-duty imperatives says what a person ought to do if he has violated his duties».
[11] Cfr. G. Sartor, Legal Reasoning. A Cognitive Approach to the Law, Springer, Dordrecht, 2005, p. 477: «the premise that John ought to know that Mary is stealing surprisingly entails, in standard deontic logic, that Mary ought to steal».
[12] Cfr. R. Poli, op. cit., p. 338: «la scoperta dei paradossi presenti nel sistema di von Wright fu però uno dei motivi, anche se non il solo e forse nemmeno il principale che stimolarono la ricerca di nuovi sistemi».
[13] Cfr. A. Artosi, op. cit., p. 139.
[14] Cfr. D. Makinson, On a Fundamental Problem of Deontic Logic, in P. McNamarra - H. Prakken, Norms, Logics and Information Systems. New Studies in Deontic Logic and Computer Science, IOS, Amsterdam, 1999, p. 29.
[15] Cfr. G. H. von Wright, On the Logic of Norms and Action, in R. Hilpinen (ed.), New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, p. 7: «There is a singular tension between the philosophy of norms and the formal work of deontic logicians».

[16] Cfr. N. Rescher, Topics in Philosophical Logic, Reidel, Dordrecht, 1969, p. 321.


(G. H. von Wright 1916 - 2003)
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