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venerdì 27 marzo 2015

Logica deontica, again!




(url immagine: http://www.helsinki.fi/alumniyhdistys/images/ajankohtaista/Georg%20Henrik%20von%20Wright.jpg)


A mio modo di vedere, due sono i momenti distinti, ma non anche irrelati, della ricerca von wrighitana intorno alla sensatezza delle proposizioni pratiche: 

1) un primo momento, coincidente con i decenni ’50 – ’60 del secolo scorso; e, 
2) un secondo momento, coincidente in linea di massima con i decenni seguenti. 


Mentre il primo momento configura la ricerca di von Wright come espressamente logica, il secondo momento invece qualifica l’itinerario speculativo dello stesso in chiave marcatamente analitica.

Per dirla in altro modo, nel primo momento, von Wright cerca di venire a capo dell’enigmaticità della razionalità del discorso pratico tramite una cassetta degli attrezzi di tipo formale, mentre nel secondo tramite una cassetta degli attrezzi di tipo analitico. Non si tratta puntualmente di due  momenti slegati, ma di due tappe di un unico progetto originario: render conto della razionalità del discorso pratico

Tra i suoi molteplici interessi, quello inerente alla razionalità del discorso pratico ha segnato l’intera speculazione del compianto filosofo finlandese, un itinerario teoretico preciso e sorretto da un profondo ottimismo nei confronti del futuro dell’umanità, specie dopo la catastrofe del secondo conflitto mondiale. Questo atteggiamento di fondo si riverbera nella maniera con cui attende a render conto logicamente della razionalità del discorso pratico. Infatti, appare convinto della chiave di volta logica, e che, dunque, in qualche modo fosse pure possibile indicare riflesso nel rigore del linguaggio formale la nitidezza della razionalità del discorso pratico. Era, cioè, convinto del fatto che la perfetta geometria della logica formale potesse riflettere la razionalità delle enunciazioni pratiche. 


Negli anni ’50 venne a contatto con la logica modale, e scorse un’analogia tra «i quantificatori e i concetti modali»[2] grazie alla quale si convinse di poter catturare all’interno delle reti formali il comportamento razionale delle enunciazioni linguistiche del discorso pratico. Aggiungendo uno specifico operatore modale ad uno dei noti sistemi russelliani, vale a dire le logiche proposizionali, diventava possibile estendere il range di funzionamento della logica oltre i normali confini vero – funzionali. 

Intendo sostenere che von Wright affronta di petto la problematica conosciuta come dilemma di Jørgensen, e secondo la quale è problematica la discussione intorno al carattere logico delle proposizioni pratiche[3] dal momento che queste ultime non descrivono stati di cose, e, pertanto, sono aleticamente adiafori, il che significa affermare che non «sussistano relazioni logiche»[4] fra imperativi e norme. Piuttosto, scorgendo un’analogia tra logica modale aletica e logica deontica non aletica, di modo che sia possibile sottoporre ad analisi logica anche le proposizioni pratiche, si aggira l’ostacolo costituito dalla loro eterogeneità ai valori vero – funzionali. 


Facendo ciò, von Wright mostra l’estremo fascino della logica deontica, problematica sì, ma interessante perché consente di estendere il dominio della logica oltre i limiti del regno della verità[5]. Ciò significava, infatti, imbrigliare le enunciazioni intensive, quali quelle del discorso pratico, entro un formalismo logico che attribuisse un significato “modale” alle usuali enunciazioni estensive.


Se consideriamo le analogie scorte da von Wright tra logica e linguaggio, penso si possa scorgere l’evoluzione successiva del suo pensiero che muove dall’analisi del linguaggio formale in direzione dell’analisi del linguaggio ordinario. Il che significa spostare l’attenzione dalla razionalità del discorso morale, malamente riflessa dalla razionalità del discorso formale, al discorso morale in quanto tale.

A partire dagli anni ’60 von Wright si concentra sull’azione, sul cambiamento, sul tempo. Non si tratta di meri allargamenti di interessi speculativi, ma di necessari progressi nella sua considerazione intorno alla razionalità del discorso pratico. Detto altrimenti, infatti, già a partire della fine degli anni ’50 a più interlocutori la sua logica deontica appariva priva «di solide fondamenta»[7], dal momento che la sua stessa storia sia stata costellata da innumerevoli quanto gravi malfunzionamenti formali[8], chiamati, in genere, paradossi, ma aventi una natura profondamente diversa dai ben noti paradossi semantici[9]vale a dire derivazioni tanto sorprendenti quanto sgradevoli[10].


Questo allargamento, tuttavia, consente di integrare lo scarno simbolismo formale delle prime versioni di logica deontica con un linguaggio più evoluto e maggiormente capace di cogliere la razionalità pratica. Per Artosi, «ci sono parecchie questioni in logica deontica»[11] che potrebbero risultate rilevanti per il discorso pratico, nonostante le indubbie difficoltà. Se a partire dagli anni ’40 si cominciò a discutere delle possibili conseguenze per l’etica «degli sviluppi della logica»[12], è anche vero come proprio la logica deontica abbia costituito un indubbio «risultato principale di questo allargamento del campo di indagine»[13]. Infatti, essa consente di render conto, entro certi limiti, della razionalità del discorso pratico. Intendo dire che sicuramente essa «doveva mettere in luce il funzionamento degli operatori caratteristici del ragionamento normativo»[14] ma è altrettanto certo che da sola non è sufficiente allo scopo, riuscendo a mala pena a catturare solo un pezzetto della razionalità suddetta. 

In tempi recenti, von Wright ha sostenuto che il formalismo del linguaggio logico illumina solo un aspetto della razionalità pratica, ossia la sua normatività, ma è del tutto incapace di render conto della dinamicità concreta dei ragionamenti pratici[15], diversamente essenziali per un discorso pratico realmente tale. Dunque, par di capire, quest’ultimo sembra continuare a sfuggire alla logica. Una condizione del tutto spiacevole dal momento che consegna la morale all’arbitrio, all’irrazionale, all’ingiustificato. Mentre, e certamente, «il pensiero pratico è pur sempre pensiero e, come tale, deve soddisfare i requisiti e le leggi della logica»[16].


Come conciliare, allora, le esigenze della logica con la natura problematica del discorso pratico? Per Poli, «il pensiero pratico è pensiero sul mondo in relazione a specifici concetti essenzialmente pratici. Pensiamo praticamente quando emettiamo ordini e comandi e quando prendiamo decisioni. In tal modo, il pensiero pratico include il pensiero non pratico in quanto implica la conoscenza dell’ambiente e delle circostanze in cui operiamo»[17]. E ciò è, in fin dei conti, coerente con la storia della logica deontica stessa, un vero e proprio tentativo di cogliere «the underlying structure, of our moral discourse»[18]. Vale a dire, di tradurre formalmente le intuizioni morali che viceversa esprimiamo con il discorso pratico[19]


Pensare, al contrario, che la logica possa dirci come agire, vale a dire esprimere nel contempo tanto la forma quanto il contenuto del discorso pratico appare del tutto insensato. Al massimo, ci descrive la cornice linguistica delle enunciazioni pratiche, ma non sembra in grado di attingere al relativo contenuto, il quale resta legato alle intuizioni morali che noi, in qualità di agenti umani razionali, produciamo ed esperiamo. 

Secondo alcune interpretazioni, proprio la tensione irriducibile tra il primo e le seconde potrebbe essere una delle cause principali dei paradossi deontici[20], una particolare tensione tra il lavoro dei logici formali e la filosofia delle norme[21].


Dopo trent’anni nel labirinto della logica deontica[22], von Wright modifica la sua logica deontica in termini di filosofia delle norme. Pur non rinnegando le sue idee precedenti, svolge un discorso del tutto differente rispetto a prima. Così, giungiamo al secondo momento di svolgimento della sua speculazione. Non più una logica, ma una praxeologia della legislazione umana. Detto altrimenti, la logica deontica non può dirimere le questioni trattate nel discorso pratico, ma «will help to clarify disputes between particular theories»[23]. Nel 1983 von Wright introduce la metafora del legislatore razionale per esprimere il succo della sua teoria intorno alla razionalità del discorso pratico[24]


Per il Nostro, infatti, vi sono alcune particolari condizioni affinché delle norme siano razionali: a) la possibilità che non sempre vengano rispettate; b) impossibilità di rispettarle; c) manifesta irrazionalità delle stesse. Nel caso (a), è normale che nel corso degli eventi alcune norme siano non rispettate, può occasionalmente accadere. Nel caso (b), invece, von Wright insiste sul carattere ‘umano’ dei desiderata del legislatore: nessuna norma non soddisfacibile, per i più vari motivi storici, o fuori dalla portata di agenti umani, razionali sì ma del tutto fallibili, può venir soddisfatta egualmente. Più interessante, a mio avviso, è il caso (c). Infatti, il Nostro sta asserendo che il legislatore non può mai ordinare una contraddizione, come ad esempio fare X-e-non-X. In quest’ultimo caso,  il legislatore è irrazionale per aver ordinato di soddisfare due norme contraddittorie, le quali possono essere soddisfatte solo una alla volta nel normale  corso storico, e mai insieme nello stesso tempo storico. 

Un discorso molto simile, ma in fin dei conti differente, viene compiuto per i permessi. Per von Wright, sono possibili i seguenti casi: x) la coesistenza di due permessi; xx) la non soddisfacibilità pratica di uno dei due permessi contrari; xxx) la non soddisfacibilità pratica di due permessi contraddittori. Nel caso (x) viene meramente ribadita la definizione di permesso, vale a dire di azioni lasciate all’arbitrio dell’agente umano. Nel caso (xx), invece, si contempla l’impossibilità per un dato agente di mandare ad effetto in maniera efficace due permessi su azioni tra loro contraddittorie. Nella medesima sequenza temporale, infatti, solo uno dei due permessi contrari è realizzabile, a scapito dell’altro il quale, evidentemente, non può essere adempiuto. Infine, nel caso (xxx), von Wright introduce nella riflessione pratica una specifica nozione logica, quella di contraddizione, al fine di negare l’eventualità che un legislatore conceda dei permessi su due azioni perfettamente contraddittorie. In tal caso, infatti, si tratta di due permessi che non possono rimanere validi per l’intera durata della storia. E tuttavia si deve comunque concedere che siano, da un punto di vista squisitamente pratico, del tutto possibili. Vale a dire che è del tutto razionale che sussistano entrambi. 


Allora, sembra di poter asserire che von Wright formuli delle specifiche condizioni di possibilità per una razionalità normativa, vale a dire produttiva di norme razionali. Queste sono, a ben vedere, solamente due: i) la non contraddittorietà delle proposizioni del discorso pratico; e, ii) la coerenza tra le proposizioni del discorso pratico. La condizione (i) impone che il legislatore non fornisca volutamente ordini contraddittori mentre la condizione (ii) impone che tra due obblighi o permessi sussista sempre una relazione di coerenza, ovvero di consistenza tra corrispondenti corsi d’azione opposti. Senza la condizione (i), ovvero senza la non contraddizione, e senza la condizione (ii), ovvero senza la coerenza, non può darsi un discorso pratico razionalmente fondato e sensato. In ogni caso, comunque, rimane ferma la limitazione fondamentale, in virtù della quale «la logica può solo rispecchiare le nostre teorie morali»[25].


Per Galvan, «La Logica deontica è una particolare Logica intensionale […] è praticata in misura prevalente nell'ambito della Logica proposizionale e, probabilmente, è questa la ragione che ne limita l'utilità come strumento effettivo di argomentazione nell'ambito giuridico ed etico applicativo»[26]. Trattandosi, dunque, di una particolarissima logica proposizionale di primo livello, non appare in grado di render conto della razionalità del discorso pratico, salvo, forse, alcuni minimi aspetti. Di ciò, con molta probabilità, si rese presto conto lo stesso von Wright, il quale, sottoponendo a revisione e critica la propria riflessione, pervenne infine alla sistemazione attuale che, se da un lato si configura come un superamento della stessa logica deontica, dall’altro lato si configura anche come un procedimento filosofico di natura differente dallo studio formale, vale a dire come una filosofia delle norme che descriva i canoni di una razionalità del discorso pratico. 


A questo punto, mi sia consentito svolgere alcune considerazioni ulteriori. 

A) La praxelogia appare come il riconoscimento di una sconfitta, che la logica deontica manca il suo scopo originario, anche se rimane alta ed ancora valida l’esigenza di fondo, di mettere a punto un trattamento formale capace di riflettere la natura della razionalità pratica. 


B) L’indagine praxeologica rimane sempre e solo teorica, vale a dire von Wright la confina nell’iperuranio della teoretica fine a sé stessa. Intendo, cioè, dire che i principi di non contraddizione e consistenza non valgono per questo o quell’ordinamento pratico, ma solamente per uno ed unico ordinamento: quello ideale. Von Wright, in altri termini, circoscrive l’ambito di validità della sua analisi praxeologica alla purezza ideale di un modello teorico di legislazione umana, sì razionale, ma sempre e comunque distante, e purtroppo, dalla confusa, irrazionale e sovente pure inconsistente legislazione umana storica?


A coclusione della presente rapida rassegna di due singoli momenti della sterminata produzone e riflessione del filosofo finlandese, possiamo tranquillamente chiederci se sia poco o molto. Difficile dirlo. In ogni caso, si tratta di uno svolgimento che merita approfondimento e considerazione, più di quanto non sia possibile in questa sede. 


E per quanto esista comunque una razionalità del discorso pratico e per quanto, ancora, il linguaggio umano esprima delle funzioni normative[27], la meta agognata, il render conto in maniera efficace e puntuale della razionalità del discorso pratico, appare ancora lontana nel suo stagliarsi al termine dell’orizzonte.







[1] Cfr. p. tripodiGeorg Henrik von Wright fra Carnap e Wittgenstein, “Rivista di Filosofia”, 3, 2002, p. 433.
[2] Ivi, p. 440.
[3] Cfr. j. jørgensenImperatives and Logic, “Erkentnnis”, 7, 1937 – 8, p. 288.
[4] Cfr. b. celanoDialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994, p. 326.
[5] Cfr. g. h. von wrightLogical Studies, Routledge and Kegan Paul, London, 1957, p. vii.
[6] Cfr. a. emilianiIntroduzione, a: g. h. von wrightNorme e azione. Un’analisi logica, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 9.
[7] Cfr. g. sartorInformatica giuridica. Un’introduzione, Giuffré, Milano, 1996, p. 87.
[8] Cfr. a. artosiIl paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000,, p. 69: «fonte insidiosa e inesauribile di paradossi».
[9] Cfr. f. feldmanA Simplex Solution to the Paradoxes of Deontic Logic, “Philosophical Perspective. Action Theory and Philosophy of Mind”, 4, 1990, p. 309: «Some of deontic logic’s stickiest problems are revealed by the so-called “paradoxes of deontic logic”. None of these is, strictly speaking, a paradox».
[10] Cfr. EJLemmon – P. H. Nowell SmithEscapism: The Logical Basis for the Ethics, “Mind”, 69, 1960, p. 290.
[11]Cfr. a. artosiop. cit., p. 7.
[12] Cfr. s. cremaschiL’etica del novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma, 2005, p. 64.
[13] Cfr. b. celanoPer un’analisi del discorso dichiarativo, “Teoria”, 1, 1990, p. 166.
[14] Cfr. p. rossi – c. a. viano (eds.), Storia della filosofia. 6. Il Novecento, Laterza, Roma – Bari, 1999, pp. 889 – 890.
[15] Cfr. g. h. von wrightDeontic Logic: A Personal View, “Ratio Juris”, 1, 1999, p. 31.
[16] Cfr. g. h. von wrightIntroduzione, a: g. di bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37.
[17] Cfr. r. poliLa logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), “Verifiche”, 4, 1982, p. 465.
[18] Cfr. g. s. mcCord, Deontic Logic and the Priority of Moral Theory, “Mind”, 20, 1986, p. 179.
[19] Cfr. n. rescherTopics in Philosophical Logics, Reidel, Dordrecht, 1969, p. 321.
[20] Cfr. g. h. von wrightOn the Logic of Norms and Action, in r. hilpinen (eds.), New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, p. 7.
[21] Cfr. d. makinsonOn a Fundamental Problem of Deontic Logic, in p. mcnamarra - h. prakkenNorms, Logics and Information Systems. New Studies in Deontic Logic and Computer Science, IOS, Amsterdam, 1999, p. 29.
[22] Cfr. g. h. von wrightNorme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, p. 5.
[23] Cfr. g. s. mcCordop. cit., p. 179.
[24] Cfr. g. h. von wrightNorme … op. cit., p. 16.
[25] Cfr. a. artosiop. cit.¸ p. 205.
[26] Cfr. s. galvanLogica deontica e sue applicazioni, in g. basti – p. gherri (eds.), Logica e Diritto: tra argomentazione e scoperta, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2011, p. 85.
[27] Cfr. a. pizzoIl contributo di Georg Henrik von Wright alla filosofia del XX secolo, in i. pozzoni (ed.), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta, 2012, p. 404: «il linguaggio assume precisi significati normativi, esplicando di conseguenza altrettante funzioni normative».

domenica 25 agosto 2013

Intorno al dilemma ...

(Ver. 2.01 - registrerò altri pensieri al riguardo, se verranno ...)

É una topica intrigante della filosofia di ogni tempo, ma forse più di quella del XX secolo, quella concernente i risultati pratici dei dilemmi morali.
In questa sede desidero solamente offrire un repertorio di idee sull'argomento senza però offrire spunti originali o proposte di soluzione.
Amleto deve scegliere se essere Amleto o qualcun altro. Antigone, parimenti, deve scegliere se onorare il fratello Polinice o non onorarlo, per ordine di Creonte, suo zio, un proditor della città di Tebe … Iefete deve onorare quanto promesso o onorare la figlia, l'unica figlia? Ed ancora, Abramo deve uccidere il figlio Isacco o rispettare la legge mosaica? Abbiamo, insomma, tanti esempi, letterari e meno, di un medesimo argomento. Ora, isoliamo in tutti questi esempi solamente la componente normativa, l'antinomia normativa che li sostanzia, ossia il contrasto tra due obblighi di egual valore ma nettamente contrari, e postuliamo che i destinatari degli stessi siano agenti umani razionali, ossia una rappresentazione idealistica degli agenti umani così innervati da carni, adipe, nervi, sensazioni ed emozioni.


Cosa accade in tutti questi casi? Sempre la medesima: il soggetto si trova a dover scegliere tra due azioni l'una contraddittoria dell'altra. L'impressione generale è che si tratti di una condizione a dir poco spiacevole nel senso che chi ne fa esperienza si trova impossibilitato a compiere una scelta tra le alternative che gli si presentano davanti. Infatti, come sostiene Castañeda, il destinatario di un dilemma morale esperisce «a conflict of duties»[1], la presa stritolante tra due opposti doveri reciprocamente escludentisi.

Ma per quale motivo un conflitto tra doveri opposti, o, per dirla altrimenti, un'antinomia normativa, dovrebbe costituire un problema, per giunta pratico, per il malcapitato agente? Possiamo, al riguardo, seguire Holbo secondo il quale «Let a genuine moral dilemma be any situation answering to this description: (1) an agent, M, is categorically (absolutely, all things considered) obliged to do A, and can do A; (2) M is categorically (etc.) obliged to do B, and can do B; (3) M cannot do both A and B»[2].


Dunque, ricapitoliamo:

  1. un dilemma morale è una situazione problematica all'interno della quale il signolo agente è incapace di optare per un corso d'azione piuttosto che l'altro (vale a dire che l'agente non può razionalmente, in assenza di altre informazioni o di altri valori morali, scegliere sensatamente l'uno piuttosto che l'altro);
  2. un dilemma morale è un conflitto tra due obblighi di eguale importanza ma del tutto eterogenei e reciprocamente esclusivi (vale a dire che solo uno dei due può concretamente essere mandato ad effetto);
  3. un dilemma morale è quella condizione per l'azione umana in forza della quale un agente è chiamato a scegliere tra due alternative pur non potendo mandare ad effetto entrambe (vale a dire che pur non potendo realizzarle entrambe è vincolato comunque a sceglierne una).

La storia della filosofia è piuttosto copiosa di esempi.


Abbiamo così Platone con la la seguente descrizione di un dilemma: «Ti faccio un caso: se uno ha ricevuto armi da un amico sano di mente e se le sente richiedere da quell’amico impazzito, chiunque dovrebbe dire, a mio avviso, che non bisogna ridargliele e che non sarebbe giusto chi gliele ridesse»[3].


Oppure, abbiamo, in tempi più vicini, Sartre il quale narra la seguente situazione problematica: «citerò il caso di un mio allievo, venuto a chiedermi consiglio nelle circostanze seguenti. Nella sua famiglia i rapporti tra il padre e la madre si erano guastati e d’altra parte il padre tendeva a collaborare con i tedeschi; il figlio maggiore era caduto durante l’offensiva germanica del ’40, mentre il figlio minore, i mio allievo, giovane dotato di sentimenti un po’ primitivi ma generosi, lo voleva vendicare. La madre viveva sola con l’unico figlio rimastole, affranta per il mezzo tradimento del marito e per la fine dell’altro figlio, e vedeva in lui la sola consolazione. Quel giovane in quel momento poteva scegliere tra partire per l’Inghilterra e arruolarsi nelle Forze Francesi di Liberazione – e quindi abbandonare la madre – o restare presso la madre e consolarne l’esistenza. Si rendeva ben conto che la donna viveva solo per lui e che il suo andarsene via – e forse la sua morte – l’avrebbero gettata nella disperazione»[4].


Esaminiamo adesso la faccenda nei due casi riportarti, Platone e Sartre. Abbiamo:

  1. due opposte possibilità fattuali;
  2. due opposte possibilità normative;
  3. due opposti corsi d'azione;
  4. impossibilità di mandarli ad effetto entrambi;
  5. incapacità da parte del soggetto di optare per uno o per l'altro corso d'azione;
  6. inazione finale come risultato di (4) e (5);
  7. sensazione normativa comunque che spinge il decisore a compiere una scelta.

Preciso anche come le due possibilità fattuali siano nello stesso tempo anche possibilità normative e due possibili corsi d'azione. Siccome, però, si tratta di due alternative di pari importanza, nell'alternativa secca il decisore razionale non può scegliere. Infine, l'agente finisce con il non poter scegliere anche se continua a percepire distintamente la sensazione di dover comunque compiere una scelta, di fatto non disponibile.


Come mai l'agente non può scegliere tra le due possibilità? Penso che il problema risieda nell'elemento (2), ossia nel significato normativo che la situazione cerca di riflettere: le due possibili azioni vengono recepite come moralmente obbligatorie. Il problema, però, è che in entrambi I casi abbiamo due obblighi morali di eguale importanza, ossia equipotenti e siccome sono l'uno opposto all'altro, è impossibile che l'agente possa mandarli ad effetto entrambi.


Ma per lo stesso motivo, egli non può nemmeno preferirne uno piuttosto che l'altro.


Si può, allora, considerare il dilemma morale in maniera del tutto analoga al dilemma normativo, almeno per come lo concepisce Kelsen il quale scrive «tra due norme esiste un conflitto quando ciò che una stabilisce come dovuto è inconciliabile con ciò che l’altra pure stabilisce come dovuto e l’osservanza o l’applicazione di una norma comporta necessariamente o possibilmente la violazione dell’altra»[5].


Dunque, ha sicuramente ragione McCord quando afferma che «we can never face conflicting obligations»[6]. Infatti, nella situazione cristallina delineata, più ideale che reale, ossia in una situazione depurata, l'agente non può compiere alcuna scelta, pur volendo: due obblighi paritetici ma contrari non possono venir soddisfatti contemporaneamente. Forse, nemmeno in un mondo deonticamente perfetto.



Per quale ragione accade ciò?

D'altra parte, per Weber «a moral dilemma is a conflict between all-things-considered obligations»[7] mentre secondo De Haan «a moral dilemma is a situation in which the agent morally ought to do A and morally ought to do B, while he cannot do A as well as B» oppure «a moral dilemma is a situation in which the agent morally ought to do either A and B, while he cannot do both A and B. In other words, there is a disjunctive moral ought to do A and B»[8].


Ma è Ohlsson a spiegarci chiaramente la natura del problema: «In a moral dilemma, the agent acts wrongly whatever she does. Either all avaible alternatives are forbidden, or two or more actions that cannot conjointly be performed are morally required in the same situation, or one and the same action is both forbidden and absolutely obligatory»[9].


Questo dice il discorso teorico, ma possiamo davvero pensare che nella pratica, quotidiana e dei casi eccezionali, l'agente finisca con l'inazione, ossia con la non scelta, perché indisponibile? Aristotele non sarebbe d'accordo: la pratica viene comunque sempre prima della teoria. Peraltro, la non – scelta è davvero qualcosa di eterogeneo rispetto alla scelta? Francamente, ho I miei umanissimi dubbi. Ma questo è un altro discorso che consegno alle nebbie del mare.

Note
[1] Cfr. H. N. CastañedaThinking and Doing, Reidel, Dordrecht, 1975, p. 27.
[2] Cfr. J. HolboMoral Dilemmas and the Logic of Obligation, “American Philosophical Quarterly”, 3, 2002, p. 259.
[3] Cfr. PlatoneLa Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 200610, p. 33 (I, 331 c).
[4] Cfr. J. P. SartreL’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1996, pp. 43 – 4.
[5] Cfr. H. KelsenTeoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985, p. 193.
[6] Cfr. G. S. McCord, Deontic Logic and the Priority of Moral Theory, “Mind”, 20, 1986, p. 180.
[7] Cfr. T. B. WeberThe Moral Dilemmas Debate, Deontic Logic, and the Impotence of Argument, “Argumentation”, 16, 2002, p. 461.
[8] Cfr. J. De HaanThe Definition of Moral Dilemmas: a Logical Problem, “Ethical Theory and Moral Practice”, 4, 2001, p. 269.
[9] Cfr. R. OhlssonWho Can Accept Moral Dilemmas?, “The Journal of Philosophy”, 8, 1993, p. 405.

Bibliografia

H. N. CastañedaThinking and Doing, Reidel, Dordrecht, 1975.
J. De HaanThe Definition of Moral Dilemmas: a Logical Problem, “Ethical Theory and Moral Practice”, 4, 2001, pp. .
J. Holbo, Moral Dilemmas and the Logic of Obligation, “American Philosophical Quarterly”, 3, 2002, pp. 259 – 274.
H. KelsenTeoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985.
G. S. McCord, Deontic Logic and the Priority of Moral Theory, “Mind”, 20, 1986, pp. 179 – 197.
PlatoneLa Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 200610.
R. Ohlsson, Who Can Accept Moral Dilemmas?, “The Journal of Philosophy”, 8, 1993, pp. 405 – 415.
J. P. SartreL’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1996.
T. B. Weber, The Moral Dilemmas Debate, Deontic Logic, and the Impotence of Argument, “Argumentation”, 16, 2002, pp. 459 – 472.




(immagine tratta da: http://www.psychomedia.it/pm/human/epistem/panza1.gif)