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lunedì 15 febbraio 2016

Prolegomeni al merito ...



Se globalmente intesa, e liberi da condizionamenti, più o meno inconsci, oppure più o meno ideologici, fintantoché ci si limiti alla descrizione oggettiva del suo funzionamento, l’attuale dispositivo di valutazione di apprendimenti e qualità del servizio erogato (INVALSI; ndr) non sembra sortire difficoltà o criticità o pecche di rilevanza. Anzi, sembrerebbe quasi l’esito scontato di un processo tanto lungo quanto irto di cadute.

Se, invece, e al contrario, si mette da parte l’astratto neutralismo, dal vago sapore weberiano, e si esamina il burocratese con lenti attente, non è possibile né tacere né far finta che il tutto sia buono o così neutrale per come appaia prima facie.

Infatti, ogniqualvolta si attivi un percorso di valutazione lo si fa rispetto ad un modello ben preciso. Anche quando un docente valuta un alunno lo fa avendo in mente un modello determinato, sebbene del tutto astratto, di alunno, ed è in funzione di quest’ultimo che compara il rendimento di quello concreto. Allora, è appena il caso di chiedersi quale sia il modello ideale, e non scritto, e non esplicitato, e non pubblico, di scuola che si ha in mente. Infatti, sottoporre la scuola concreta alle forche caudine della valutazione significa, né più né meno, valutarla in riferimento ad un idealtipo ben preciso, altrimenti, e non credo sia questo il caso, si mette in campo tutta una struttura elefantiaca al solo scopo di fingere di valutare davvero. 


Quando il decisore politico ha imboccato questa strada, il disegno ideale era chiaro e preciso, e vale a dire avvicinare la scuola transeunte alla scuola ideale. Ma se così è, e nulla sembra confutare tale esame, o poterne inficiare la validità, la valutazione non appare affatto di natura meramente diagnostica o solamente conoscitiva. Al contrario, attiva un meccanismo di precisa imputazione di responsabilità a vari livelli, attribuendo e riconoscendo queste ultime ad attori chiaramente individuabili all’interno della struttura propria assunta dalla singola organizzazione scolastica. 


Viceversa, infatti, a cosa servirebbe accumulare una tale mole di dati ed informazioni? Per un misero desiderio di accumulo? Senza scomodare Freud, infatti, l’intento della struttura non è affatto quello di produrre conoscenza disinteressata in merito al reale, quanto, e piuttosto, quello di individuare “buoni” e “cattivi”, “virtuosi” e “viziosi”, “meritevoli” e “incapaci”. Ricondurre tali dati a erogatori e correlati fruitori significa districarsi in maniera lineare e chiara nelle maglie oscure e confuse delle pratiche didattiche; significa, per dirla altrimenti, legare in maniera efficace le singole pratiche didattiche tanto a chi le formula e mette in atto quanto a chi le riceve e dovrebbe giovarsene. Ne consegue, in maniera abbastanza chiara, a mio modesto avviso, che la conoscenza conseguita non è affatto neutrale, ma abilita l’azione di livello superiore riguardo tanto al “premiare” quanto, e forse soprattutto, al “punire”. 

La sua filosofia, pertanto, mi appare inequivocabile, e segnatamente consistente nel rendere possibile l’imputazione di responsabilità personali ai vari livelli di funzionamento dell’organizzazione scolastica.

Il fatto che sinora questo “ultimo miglio” non sia stato ancora compiutamente e sistematicamente realizzato non significa affatto che continuerà a restare tale. Detto con altre parole, il fatto che da tale conoscenza al momento non siano seguiti atti di vero e proprio controllo funzionale non legittima credere che lo stato attuale perduri ancora nel tempo.

Al contrario, proprio la messa a regime delle valutazioni INVALSI, così come la funzione conseguita riconosciuta ora ai dirigenti scolastici di poter premiare i propri dipendenti virtuosi o meritevoli, lascia supporre che il passo successivo sia ormai prossimo, e che l’ultima tappa del processo intrapreso sia oramai sul punto di essere raggiunta.

V’è, infine, un ulteriore elemento che, se si vuole, corrobora tale impressione, e cioè il silenzio con cui il passaggio lungo l’ultimo miglio viene attualmente percorso. Detto altrimenti, proprio quando la filosofia soggiacente alla valutazione dovrebbe emergere dalla sua latenza, e divenire palese, in quanto diretta emanazione dell’attuale livello di maturazione del dispositivo attivato proprio in sua funzione, aumenta il silenzio su di essa. Il che dovrebbe sortire quantomeno un più che legittimo dubbio, oltre a formulare la questione presente: a cosa serve valutare se non si danno corrispettivi premi? O, per dirla altrimenti ancora, per quale motivo si sprecano così tante risorse se la valutazione non consente di avere meritevoli e incapaci? O, se si preferisce, come mai ai voti non seguono premi e punizioni?

Non appena si sollevi, anche solo per un attimo, il lembo del velo di Maya della valutazione scolastica, ecco che sinistri ed inquietanti interrogativi squarciano l’assordante silenzio inerente alla sua effettiva utilità.

Ma se tanto basta, di per sé, a non far dormire più sonni tranquilli ai dipendenti scolastici, possiamo aggiungere ancora un inquietante elemento onde poter render conto dell’estrema opacità del dispositivo valutativo, e cioè il seguente: cosa registra, o misura, o parametra, davvero la valutazione di sistema? O, per meglio dire, è davvero efficace la valutazione del nesso tra analisi e attività monitorata? Cioè, siamo davvero sicuri che la valutazione di sistema dia contezza del merito? A questa domanda, ovviamente, non è possibile dare risposta dal momento che proprio l’implementazione di un dispositivo valutativo rende conto di un modello ideale, e non della necessaria strumentazione concreta. Detto altrimenti, detta valutazione non misura qualcosa di oggettivamente misurabile, vale a dire un’efficienza didattica troppo dipendente da fattori contestuali ed esogeni, ma distingue tra “buoni” e “cattivi” in funzione di un modello ideale non diagnostico, quanto, e piuttosto, morale. Ciò significa, allora, che, tranne singoli casi, detta valutazione premierà e condannerà a prescindere dall’effettivo merito del singolo operatore scolastico! In altri termini, il modello ideale nella mente del decisore politico, essendo meramente morale, e non scientifico, costruisce in abstracto i propri oggetti, distribuendoli lungo una linea non in funzione di quel che fanno ed ottengono nel concreto, ma in funzione di un’arbitraria collocazione ideale.

E tuttavia qualcosa bisognerà pur riconoscere al decisore politico, onde evitare un quadro eccessivamente sbilanciato, e cioè che era oramai inevitabile uscire dalle secche del finanziamento gratuito. In altri termini, l’attuale sistema di valutazione è la garanzia di sistema che il sistema stesso si dà per responsabilizzare le istituzioni scolastiche sia riguardo alle fonti ricevute sia riguardo alla correlata gestione attuata. 


Come si vede, dunque, la valutazione è solo un volto dello stesso processo di autonomizzazione delle istituzioni scolastiche, o, se si preferisce, lo strumento in forza del quale rendicontare all’esterno cosa si è fatto, come, perché e con quale impatto sociale. Ma far questo prepara all’imputazione di responsabilità, vale a dire a giustificare esattamente il cosa, il come, il perché e i risultati della propria personale azione …


(url immagine: https://comitatoscuolapubblica.files.wordpress.com/2013/04/misura-della-qualitc3a0.jpg)

domenica 25 agosto 2013

Intorno al dilemma ...

(Ver. 2.01 - registrerò altri pensieri al riguardo, se verranno ...)

É una topica intrigante della filosofia di ogni tempo, ma forse più di quella del XX secolo, quella concernente i risultati pratici dei dilemmi morali.
In questa sede desidero solamente offrire un repertorio di idee sull'argomento senza però offrire spunti originali o proposte di soluzione.
Amleto deve scegliere se essere Amleto o qualcun altro. Antigone, parimenti, deve scegliere se onorare il fratello Polinice o non onorarlo, per ordine di Creonte, suo zio, un proditor della città di Tebe … Iefete deve onorare quanto promesso o onorare la figlia, l'unica figlia? Ed ancora, Abramo deve uccidere il figlio Isacco o rispettare la legge mosaica? Abbiamo, insomma, tanti esempi, letterari e meno, di un medesimo argomento. Ora, isoliamo in tutti questi esempi solamente la componente normativa, l'antinomia normativa che li sostanzia, ossia il contrasto tra due obblighi di egual valore ma nettamente contrari, e postuliamo che i destinatari degli stessi siano agenti umani razionali, ossia una rappresentazione idealistica degli agenti umani così innervati da carni, adipe, nervi, sensazioni ed emozioni.


Cosa accade in tutti questi casi? Sempre la medesima: il soggetto si trova a dover scegliere tra due azioni l'una contraddittoria dell'altra. L'impressione generale è che si tratti di una condizione a dir poco spiacevole nel senso che chi ne fa esperienza si trova impossibilitato a compiere una scelta tra le alternative che gli si presentano davanti. Infatti, come sostiene Castañeda, il destinatario di un dilemma morale esperisce «a conflict of duties»[1], la presa stritolante tra due opposti doveri reciprocamente escludentisi.

Ma per quale motivo un conflitto tra doveri opposti, o, per dirla altrimenti, un'antinomia normativa, dovrebbe costituire un problema, per giunta pratico, per il malcapitato agente? Possiamo, al riguardo, seguire Holbo secondo il quale «Let a genuine moral dilemma be any situation answering to this description: (1) an agent, M, is categorically (absolutely, all things considered) obliged to do A, and can do A; (2) M is categorically (etc.) obliged to do B, and can do B; (3) M cannot do both A and B»[2].


Dunque, ricapitoliamo:

  1. un dilemma morale è una situazione problematica all'interno della quale il signolo agente è incapace di optare per un corso d'azione piuttosto che l'altro (vale a dire che l'agente non può razionalmente, in assenza di altre informazioni o di altri valori morali, scegliere sensatamente l'uno piuttosto che l'altro);
  2. un dilemma morale è un conflitto tra due obblighi di eguale importanza ma del tutto eterogenei e reciprocamente esclusivi (vale a dire che solo uno dei due può concretamente essere mandato ad effetto);
  3. un dilemma morale è quella condizione per l'azione umana in forza della quale un agente è chiamato a scegliere tra due alternative pur non potendo mandare ad effetto entrambe (vale a dire che pur non potendo realizzarle entrambe è vincolato comunque a sceglierne una).

La storia della filosofia è piuttosto copiosa di esempi.


Abbiamo così Platone con la la seguente descrizione di un dilemma: «Ti faccio un caso: se uno ha ricevuto armi da un amico sano di mente e se le sente richiedere da quell’amico impazzito, chiunque dovrebbe dire, a mio avviso, che non bisogna ridargliele e che non sarebbe giusto chi gliele ridesse»[3].


Oppure, abbiamo, in tempi più vicini, Sartre il quale narra la seguente situazione problematica: «citerò il caso di un mio allievo, venuto a chiedermi consiglio nelle circostanze seguenti. Nella sua famiglia i rapporti tra il padre e la madre si erano guastati e d’altra parte il padre tendeva a collaborare con i tedeschi; il figlio maggiore era caduto durante l’offensiva germanica del ’40, mentre il figlio minore, i mio allievo, giovane dotato di sentimenti un po’ primitivi ma generosi, lo voleva vendicare. La madre viveva sola con l’unico figlio rimastole, affranta per il mezzo tradimento del marito e per la fine dell’altro figlio, e vedeva in lui la sola consolazione. Quel giovane in quel momento poteva scegliere tra partire per l’Inghilterra e arruolarsi nelle Forze Francesi di Liberazione – e quindi abbandonare la madre – o restare presso la madre e consolarne l’esistenza. Si rendeva ben conto che la donna viveva solo per lui e che il suo andarsene via – e forse la sua morte – l’avrebbero gettata nella disperazione»[4].


Esaminiamo adesso la faccenda nei due casi riportarti, Platone e Sartre. Abbiamo:

  1. due opposte possibilità fattuali;
  2. due opposte possibilità normative;
  3. due opposti corsi d'azione;
  4. impossibilità di mandarli ad effetto entrambi;
  5. incapacità da parte del soggetto di optare per uno o per l'altro corso d'azione;
  6. inazione finale come risultato di (4) e (5);
  7. sensazione normativa comunque che spinge il decisore a compiere una scelta.

Preciso anche come le due possibilità fattuali siano nello stesso tempo anche possibilità normative e due possibili corsi d'azione. Siccome, però, si tratta di due alternative di pari importanza, nell'alternativa secca il decisore razionale non può scegliere. Infine, l'agente finisce con il non poter scegliere anche se continua a percepire distintamente la sensazione di dover comunque compiere una scelta, di fatto non disponibile.


Come mai l'agente non può scegliere tra le due possibilità? Penso che il problema risieda nell'elemento (2), ossia nel significato normativo che la situazione cerca di riflettere: le due possibili azioni vengono recepite come moralmente obbligatorie. Il problema, però, è che in entrambi I casi abbiamo due obblighi morali di eguale importanza, ossia equipotenti e siccome sono l'uno opposto all'altro, è impossibile che l'agente possa mandarli ad effetto entrambi.


Ma per lo stesso motivo, egli non può nemmeno preferirne uno piuttosto che l'altro.


Si può, allora, considerare il dilemma morale in maniera del tutto analoga al dilemma normativo, almeno per come lo concepisce Kelsen il quale scrive «tra due norme esiste un conflitto quando ciò che una stabilisce come dovuto è inconciliabile con ciò che l’altra pure stabilisce come dovuto e l’osservanza o l’applicazione di una norma comporta necessariamente o possibilmente la violazione dell’altra»[5].


Dunque, ha sicuramente ragione McCord quando afferma che «we can never face conflicting obligations»[6]. Infatti, nella situazione cristallina delineata, più ideale che reale, ossia in una situazione depurata, l'agente non può compiere alcuna scelta, pur volendo: due obblighi paritetici ma contrari non possono venir soddisfatti contemporaneamente. Forse, nemmeno in un mondo deonticamente perfetto.



Per quale ragione accade ciò?

D'altra parte, per Weber «a moral dilemma is a conflict between all-things-considered obligations»[7] mentre secondo De Haan «a moral dilemma is a situation in which the agent morally ought to do A and morally ought to do B, while he cannot do A as well as B» oppure «a moral dilemma is a situation in which the agent morally ought to do either A and B, while he cannot do both A and B. In other words, there is a disjunctive moral ought to do A and B»[8].


Ma è Ohlsson a spiegarci chiaramente la natura del problema: «In a moral dilemma, the agent acts wrongly whatever she does. Either all avaible alternatives are forbidden, or two or more actions that cannot conjointly be performed are morally required in the same situation, or one and the same action is both forbidden and absolutely obligatory»[9].


Questo dice il discorso teorico, ma possiamo davvero pensare che nella pratica, quotidiana e dei casi eccezionali, l'agente finisca con l'inazione, ossia con la non scelta, perché indisponibile? Aristotele non sarebbe d'accordo: la pratica viene comunque sempre prima della teoria. Peraltro, la non – scelta è davvero qualcosa di eterogeneo rispetto alla scelta? Francamente, ho I miei umanissimi dubbi. Ma questo è un altro discorso che consegno alle nebbie del mare.

Note
[1] Cfr. H. N. CastañedaThinking and Doing, Reidel, Dordrecht, 1975, p. 27.
[2] Cfr. J. HolboMoral Dilemmas and the Logic of Obligation, “American Philosophical Quarterly”, 3, 2002, p. 259.
[3] Cfr. PlatoneLa Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 200610, p. 33 (I, 331 c).
[4] Cfr. J. P. SartreL’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1996, pp. 43 – 4.
[5] Cfr. H. KelsenTeoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985, p. 193.
[6] Cfr. G. S. McCord, Deontic Logic and the Priority of Moral Theory, “Mind”, 20, 1986, p. 180.
[7] Cfr. T. B. WeberThe Moral Dilemmas Debate, Deontic Logic, and the Impotence of Argument, “Argumentation”, 16, 2002, p. 461.
[8] Cfr. J. De HaanThe Definition of Moral Dilemmas: a Logical Problem, “Ethical Theory and Moral Practice”, 4, 2001, p. 269.
[9] Cfr. R. OhlssonWho Can Accept Moral Dilemmas?, “The Journal of Philosophy”, 8, 1993, p. 405.

Bibliografia

H. N. CastañedaThinking and Doing, Reidel, Dordrecht, 1975.
J. De HaanThe Definition of Moral Dilemmas: a Logical Problem, “Ethical Theory and Moral Practice”, 4, 2001, pp. .
J. Holbo, Moral Dilemmas and the Logic of Obligation, “American Philosophical Quarterly”, 3, 2002, pp. 259 – 274.
H. KelsenTeoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985.
G. S. McCord, Deontic Logic and the Priority of Moral Theory, “Mind”, 20, 1986, pp. 179 – 197.
PlatoneLa Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 200610.
R. Ohlsson, Who Can Accept Moral Dilemmas?, “The Journal of Philosophy”, 8, 1993, pp. 405 – 415.
J. P. SartreL’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1996.
T. B. Weber, The Moral Dilemmas Debate, Deontic Logic, and the Impotence of Argument, “Argumentation”, 16, 2002, pp. 459 – 472.




(immagine tratta da: http://www.psychomedia.it/pm/human/epistem/panza1.gif)