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mercoledì 5 settembre 2012

L'enigma dei numeri primi



Recensione a: M. Du Santoy, L’enigma dei numeri primi, Rizzoli, Milano, 2004



Come spesso accade, i libri migliori sono quelli che casualmente capitano tra le mani. Quel che è rilevante è che l’Enigma dei numeri primi è una lettura stimolante e in gran parte affascinante. Volendola definire in qualche modo, si potrebbe dire che si tratta di una storia romanzata della matematica occidentale. Oppure, si potrebbe non volerla definire, e considerarla soltanto quale una presentazione dell’avventurosa ricerca matematica compiuta dal genere umano. Forse così entrambe le esigenze sono fatte salve. Comunque, il testo scritto da Du Santoy è certamente una perla, divorata avidamente dal momento della scoperta, ma scoperta solo qualche anno dopo la pubblicazione italiana. Questo a ragione della provvida casualità che ha reso possibile l’incontro con una pubblicazione da tenere religiosamente presente assisa nella propria biblioteca.


È interessante per la filosofia una disamina della ricerca matematica? Per di più, intorno ad un argomento oltremodo settoriale e specialistico quale quello della natura dei numeri primi? Ai tempi dei primi filosofi certamente sì, oggi, quando, cioè, in molti asseriscono essersi separate le vie della prima e le vie della seconda, ugualmente sì. Infatti, sebbene si tratti di materie diverse, non altrettanto si può sostenere che siano due materie irrelate tra loro. Anzi, si farebbe un torto alla propria intelligenza pensandola così. Peraltro, la separazione succitata, tra scienze esatte e scienze umane, è sottoposta ad una continua critica e ad un biasimo crescente. Forse, dopo il tempo dell’enfasi posta sulla specializzazione, e conseguente divisione del lavoro, ci s’è accorti che, in realtà, la separazione porta non solo buoni frutti ma anche frutti avvelenati, tali da richiedere un parziale passo indietro, un parziale ritorno all’unità originaria. Infatti, matematica e filosofia promanano dall’unica e comune funzione universale dell’essere umano: l’intelligenza. Così, secondo il presente punto di vista, calcolare e pensare non possono venir considerate in abstracto come due funzioni separate, ma, al contrario, vanno intese intimamente relate.


È interessante per la filosofia l’argomento del libro, e per uno svariato numero di ragioni, succintamente: (1) vigente la succitata unità di matematica e filosofia, il problema dei numeri primi è importante per il pensiero; (2) la continua sfida posta all’intelligenza dall’enigma dei numeri primi necessita un ulteriore progresso dell’intelligenza e dei suoi relativi strumenti formali; (3) la continua sfida posta all’intelligenza dalla natura problematica dei numeri primi comporta un continuo tornare a pensare da parte della razionalità umana. Come si vede, la serie di ragioni addotte (1) – (3), alcune tra le tanti che si potrebbero indicare, impone che la filosofia si ponga il problema dei numeri primi, e come una questione di (filosofia della) matematica e come un problema attinente più strettamente ai limiti formali del pensiero umano.



Forse, capita di osservare come la nostra giornata sia regolata secondo un ritmo ben preciso: giorno e notte. Lo sapevano bene anche gli antichi, ma quando ce ne accorgiamo, uscendo dalla mera ripetitività quotidiana, ecco allora che si può fare esperienza dell’aristotelica meraviglia. Se si considera che questo ritmo si ripete per un intero anno, ossia per 365 volte, ecco che la bellezza assume un aspetto diverso da prima. Se poi si aggiunge che ciò accade per secoli, ossia per centinaia di altre volte, l’esperienza estetica assume connotazioni ulteriori. Se poi si riflette anche sul fatto che il singolo momento di tale ritmo, ad esempio il giorno, è calibrato su sottofasi, a loro volta secondo sequenze ben ordinate, ecco allora che il concetto stesso di ritmo deve essere riformulato. Un suo esempio certamente caratteristico è costituito dalla musica: esecuzione regolata di battiture in maniera armonica. Anche in questo caso, lo sapevano bene gli antichi, al punto che un tale Alcmeone di Crotone, certamente un adepta della setta pitagorica, formulò lo strano pensiero secondo il quale mediante la musica sarebbe possibile curare la gente. Infatti, l’armonia musicale avrebbe potuto ristabilire l’armonia perduta del corpo malato. Oggi, appare una scempiaggine, con l’evidente peccato dell’ingenuità. Tuttavia, è bene osservare come questo pensiero sia alla base della cosiddetta musicoterapia. Certo non si tratta più di ristabilire armonie perdute, ma solo di costituire delle comunità di relazioni. La bellezza di un’armonia è data da un ritmo, ossia da una sequenza precisa che si ripete nell’arco di un certo tempo. Questo in termini molto generali. Pensando alla matematica, si sa bene che i numeri assumono una sequenza precisa: 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, etc. Un divenire cumulativo frutto della successiva addizione di ciascun numero al numero uno. Per esempio, avendo 2 vi si somma 1 e si ottiene il numero successivo della serie: 3. E così via. Si sa anche che alla sinistra di 0 v’è una numerazione opposta, di natura negativa: -1, -2, -3, -4, -5, -6, -7, -8, -9, -10, etc. Questi ultimi prendono il nome di numeri negativi mentre i precedenti il nome di numeri positivi. Immaginando ora di disporre graficamente i numeri positivi e i numeri negativi, si ha la seguente retta dei numeri:


  • ∞ ... -8 | -7 | -6 | -5 | -4 | -3 | -2 | -1 | 0 | +1 | +2 | +3 | +4 | +5 | +6 | +7 | +8 … +∞


Stando così le cose, sembrerebbe che di nessuna importanza sia la questione dei numeri primi. Al contrario, «L’ipotesi di Riemann è un problema centrale per l’intera matematica» (p. 9). Infatti, con la suddetta ipotesi si tenta «di comprendere gli oggetti più fondamentali della matematica: i numeri primi» (p. 14). È tramite di essi che si costruisce l’intero edificio dell’aritmetica, essi «hanno il potere di costruire tutti gli altri numeri» (p. 15). Infatti, qualsiasi numero intero che non sia primo «può essere costruito moltiplicando questi elementi di base primari» (p. 15), «ogni numero è un prodotto di numeri primi» (p. 69). Ma nonostante la loro apparente semplicità, «i numeri primi restano gli oggetti più misteriosi studiati dai matematici» (p. 15). Oltre alla loro capacità di produrre l’intero spettro dei numeri, sinora non si è riuscito a formulare un modello completo che consenta di spiegarne l’origine numerica. Se, infatti, si pone mente per un attimo alla loro sequenza si avrà l’impressione di un ordine casuale, non matematicamente quantificabile:


2
3
5
7
11
13
17
19
23
29
31
37
41
43
47
53
59
61
67
71
73
79
83
89
97
101
103
107
109
113
127
131
137
139
149
151
157
163
167
175
179
181
191
193
197
199
211
223
227
229
233
239
241
251
257
263
269
271
277
281
283
293
307
311
313
317
331
337
347
349
353
359
367
373
379
383
389
397
401
409
+∞











In Wikipedia, l’enciclopedia libera di internet, è presente una gif animata (reperibile all’indirizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Animation_Sieve_of_Eratosth-2.gif) che simula la ricerca dei numeri primi.



Fu Riemann il primo ad intravedere la presenza di una nascosta armonia dietro tale ordine. Un’intuizione sfortunatamente rimasta senza dimostrazione matematica e tale da affascinare nei secoli i matematici. Chi sarà in grado di dimostrarla «sarà in grado di spiegare perché i numeri primi danno un’impressione così convincente di casualità» (p. 23), in modo da trovare «una spiegazione all’apparente caos dei numeri primi» (p. 24), «una procedura molto rapida e assolutamente certa per individuare un numero primo» (p. 26). Prima di Riemann già i greci nel IV sec. a. C. compresero «che ogni numero primo poteva essere creato moltiplicando fra loro dei numeri primi» (p. 46). Ma restava loro occulta la ragione di ciò. In particolar modo, quale dovesse essere il numero seguente nella successione. Molti secoli dopo, lo stesso Gauss, nei suoi studi astronomici si scontrò con la medesima difficoltà dei numeri primi: «non riusciva a scorgere alcuna regola che gli dicesse di quanto avrebbe dovuto saltare per trovare il numero primo successivo» (p. 48). I matematici hanno, allora, cercato una procedura che consentisse di individuare l’ordine di successione dei numeri primi. In termini filosofici, ciò consiste anche nel rendere conto della natura stessa dei numeri primi. Si cercava un algoritmo, una funzione, una formula matematica adatta all’uopo. Un esempio è costituito dalla formula di Fibonacci: «si calcola ciascun numero sommando i due che lo precedono» (p. 52). In questo modo, avendo i numeri 2 e 3 il prossimo della lista sarà 5. Successivamente, avendo i numeri 3 e 5 il successivo sarà 8. E così via. Solo che i numeri di Fibonacci non corrispondono puntualmente ai numeri primi. In effetti, la «formula per generare i numeri di Fibonacci si basa su un numero speciale chiamato rapporto aureo, un numero che comincia con 1,618 03…» (p. 53). Una sorta di π per generare la sequenza numerica. La quasi ossessione dei matematici per la formulazione di una funzione in grado di spiegare l’ordine dei numeri primi si spiega con la necessità di dimostrare un’ipotesi che è colta intuitivamente. Infatti, fintantoché non viene dimostrata un’intuizione resta relegata nell’alveo dell’irrazionale, e non può in alcun modo entrare a far parte del regno della conoscenza. Sebbene esistano regole e metodi ben precisi per produrre dimostrazioni, la «matematica è un’arte creativa» (p. 67). Nello specifico, poi, i «numeri primi sono come le note di una scala musicale, e ciascuna cultura ha scelto di suonare queste note nel proprio modo specifico» (p. 67). Ora trovare una procedura certa di individuazione dei singoli numeri primi in un punto imprecisato della serie consente di «conoscere il modo per salire una scala infinita senza dover portare a termine fisicamente l’impresa» (p. 71). Da qui, dunque, l’importanza della sfida matematica: mettere a punto una procedura che spieghi la struttura dei numeri primi. Il primo a darle la caccia fu Euclide. Successivamente, vi provarono Hardy, Gauss, Fermat ed Eulero. Fu, tuttavia, Bernhard Riemann a cogliere l’essenza del problema, e lo fece interessandosi inizialmente ai numeri immaginari, via per ovviare allo scandalo pitagorico dei numeri irrazionali. Infatti, i «numeri irrazionali e i numeri negativi ci permettono di risolvere molte equazioni diverse» (p. 127). In più, arrischiscono la retta dei numeri. Ad esempio, √2 si colloca tra il numeri +1 e +2. Invece, ½ tra i numeri 0 e +1. Introdurre i numeri immaginari, a dispetto dell’iniziale impressione fantastica, consente di risolvere un maggior numero di equazioni, ossia di combinazioni numeriche, finendo con l’arricchire l’insieme dei numeri. Infatti, a seguito della loro scoperta, si è etichettato l’insieme complessivo dei numeri con il nome di numeri reali, comprendendo in essi, quelli positivi, negativi e irrazionali. Così, il problema dei numeri irrazionali veniva superato. Infatti, ogni «equazione aveva una soluzione che consisteva in una combinazione di ordinari numeri reali (cioè le frazioni e i numeri irrazionali) e di questo nuovo numero, i» (p. 129). Così, l’importanza di Riemann è presto detta: «aveva scovato un passaggio che conduceva dal mondo familiare dei numeri a una matematica che sarebbe parsa assolutamente aliena ai matematici greci che avevano studiato i numeri primi duemila anni prima di lui» (p. 155). In altri termini, era come passare attraverso lo specchio, per dirla elegantemente con Lewis Carroll, non a caso ingegno logico. I matematici «hanno usato il linguaggio della matematica per allenare le loro capacità di visualizzazione mentale, in modo che li aiuti a «vedere» simili strutture» (p. 157). D’altra parte, la matematica, come qualsiasi altra scienza rigorosa, è un linguaggio formale che mediante un lessico adeguato sia in grado di render conto delle ragioni dei numeri. Il problema, semmai, è stato quello di costruire di volta in volta, passo per passo, tale linguaggio.


Il contributo di Riemann è stato quello di spostare il discorso dai numeri primi «situati a livello del mare» (p. 179) ai numeri primi collocati «sulla mappa del mondo immaginario» (p. 179). Ciascun punto consisteva in un’onda, «una nota emessa da un qualche strumento matematico» (p. 179). Il segreto dell’armonia nascosta dei numeri primi, «Riemann aveva finalmente individuato la misteriosa struttura che per secoli e secoli i matematici avevano desiderato ardentemente di scorgere mentre osservavano i numeri primi» (p. 182), di colpo «l’enigma della casualità dei numeri primi nel mondo reale è stato sostituito dal tentativo di comprendere l’armonia di questo paesaggio immaginario oltre lo specchio» (p. 183). In altri termini, «Riemann aveva capito che cercare di comprendere le strutture e gli schemi alla base del mondo matematico era più proficuo che concentrarsi su formule e calcoli noiosi» (p. 196). Prima di Riemann, comunque, fu Hilbert ad indirizzare la scienza matematica verso le equazioni e le formule non esplicite. Egli, infatti, «considerava irrilevante la realtà fisica degli oggetti» (p. 201), indirizzandosi a «studiare le connessioni e le strutture astratte» (p. 201). Un aiuto gli venne dalla precedente scoperta delle cosiddette geometrie non euclidee. Infatti, Hilbert «capì che un forte nesso logico legava geometria non euclidea e geometria euclidea» (p. 204): le geometrie non euclideee potevano contenere delle contraddizioni nel caso in cui «anche la geometria euclidea ne conteneva» (p. 204). In altri termini, la modifica dell’assiomatica euclidea, in particolar modo quello relativo «all’esistenza di rette parallele» (p. 201), non comportava l’incoerenza della conoscenza matematica, ma il suo potenziamento. Infatti, «la scoperta di Hilbert significava che quei modelli non euclidei dovevano poggiare sulle stesse fondamenta logiche» (p. 204) dei modelli euclidei. Le sue considerazioni «sui fondamenti stessi della disciplina gli fornirono la piattaforma da cui lanciare questa nuova pratica di una matematica astratta» (p. 206). Partecipando, poi, al Congresso Internazionale di Matematica del 1900 egli indicò nella soluzione del problema dei numeri primi una delle principali sfide della matematica. Una sfida, però, tutt’oggi non vinta. Una possibile strategia vincente è stata intuita da Riemann, ma senza che si sia tradotta in una accettabile dimostrazione matematica.


Nel XX sec. la ricerca continuò, ma senza quell’ingegno che la prematura scomparsa di Riemann privò per sempre la matematica. Su questa linea si collocano i tentativi di Ramanujan, Siegel e Selberg. Poi, come spesso accade, il vento di guerra interruppe bruscamente l’evoluzione della matematica europea, spostando negli USA la ricerca vera e propria, anche per venire incontro ad esigenze di sostentamento assai più impellenti di quelle della conoscenza.


Un’ultima eccezione è costituita dall’estro di Turing, genio a disposizione della causa alleata contro il nazismo, e si suoi codici militari di comunicazione. Il suo nome, infatti, «sarà sempre associato alla decifrazione di Enigma, il codice segreto usato dai tedeschi durante la Seconda Guerra mondiale» (p. 321). Perché Turing nell’attuale problematica? Perché il «suo sogno era che quel marchingegno meccanico potesse avere il potere di dimostrare l’infondatezza del problema che, fra i suoi ventitré problemi, Hilbert preferiva: l’ipotesi di Riemann» (p. 322). L’idea di Turing era di trasferire in una macchina l’idea formulata anni prima da Hilbert: «una procedura meccanica che potesse essere applicata all’equazione e rispondere «sì» oppure «no» alla domanda «questa equazione ha soluzioni?» senza bisogno di alcun intervento da parte di un operatore» (p. 335). In altri termini, Hilbert aveva concepito un software in assenza dell’hardware, ossia della macchina in grado di mandarlo in esecuzione. Turing, invece, si rivolse alla progettazione del modello di una macchina universale in grado di computare, ossia di calcolare in maniera analoga al pensiero umano, «una macchina calcolatrice universale che potesse essere programmata per eseguire una gran varietà di compiti» (p. 352). Un passo importante nella storia dell’informatica, un momento della ricerca attorno ai numeri primi. Infatti, il «successo di Turing nella progettazione delle macchine per decrittare Enigma deve qualcosa al suo apprendistato nel calcolo degli zeri della funzione zeta di Riemann» (p. 351). Il retroterra culturale sul quale si muoveva Turing comunque era quello introdotto da Gödel, secondo cui «la matematica non era stata in grado di dimostrare l’ipotesi di Riemann perché i suoi assiomi non erano sufficienti a farlo» (p. 333). L’idea di Turing avrebbe aiutato in ciò? Sicuramente sì, visto che dato «un insieme di assiomi e alcune regole di deduzione, è possibile istruire un computer in modo che sforni teoremi matematici a bizzeffe» (p. 387). E non è un caso, infatti, che i principali avanzamenti nella ricerca sui numeri primi siano provenuti dai laboratori di ricerca dei colossi informatici, l’AT&T in primis: è mediante la potenza di calcolo degli apparati informatici che il lavoro creativo del matematico può essere potenziato. La decrittografia di Turing prima, la crittografia oggi al tempo di Internet, richiede potenza di calcolo che solo le macchine sono in grado di fornire. Ma la struttura di calcolo alla base dei procedimenti di decrittazione dei codici e di crittografia è il medesimo algoritmo fondamento della trasmissione delle informazioni, in poche parole: dell’informatica. E gli stati elettrici alla base del trattamento informatico delle informazioni si realizzano in termini matematici. E qui si torna al problema di partenza: qual è la struttura dei numeri primi?


Stranamente, un aiuto provenne alla teoria dagli straordinari progressi della fisica. Infatti, un avanzamento nella ricerca sui numeri primi fu reso possibile dalla teoria del caos quantistico. In altri termini, la frequenza dei numeri primi poteva essere considerata alla stregua di altrettanti quanti di energia. Un ritmo musicale che si colloca al punto di congiunzione tra i livelli energetici e gli elettroni di un atomo. Alla stessa maniera, la progressione matematica mostrava un’evidente analogia statistica, secondo la visione di Diaconis. Tuttavia, l’incontro di matematica e fisica quantistica condusse ad interpretare in termini fisici l’ipotesi di Riemann: «l’esistenza di una musica insita nei numeri primi» (p. 517). Infatti, «Riemann aveva trasformato i numeri primi in funzioni d’onda» (p. 517), mentre Berry, da fisico, tradusse queste onde in suoni reali. Era, forse, la dimostrazione principale «del fatto che l’ipotesi di Riemann ha qualcosa a che fare con il caos quantistico» (p. 523)? Probabilmente sì.


Ad ogni modo, è certo che «nel corso degli ultimi cinquant’anni, lo stesso linguaggio della matematica è andato incontro ad una profonda evoluzione che è tuttora in corso, e molti ricercatori sono convinti che fino a quando questo processo non sarà completato, non avremo a disposizione un linguaggio sufficientemente avanzato per articolare una spiegazione del perché i numeri primi si comportano secondo quanto predetto dall’ipotesi di Riemann» (p. 538).


Per concludere, Riemann ha sollevato parzialmente il velo d’ignoranza sui numeri primi, ma ha lasciato ai posteri il compito, tutt’ora inevaso, di fornire una dimostrazione matematica della sua ipotesi sulla loro natura. Un impegno che non manca di affascinare l’umana intelligenza.




(immagine tratta da: http://img3.libreriauniversitaria.it/BIT/240/843/9788817008433.jpg)

domenica 2 settembre 2012

Obnubilamento da mass – media … ovvero, sull'omologazione (di comodo)


(immagine tratta da: http://m2.paperblog.com/i/99/996459/il-cardinale-martini-il-valore-di-un-legame-t-L-cKoYLr.jpeg)



Il Card. Martini è morto. Questa la notizia in sé. Ma qual è il significato che, socialmente, vi si è costruito sopra? Ecco, a mio modesto modo di vedere, il punto cruciale. Da ogni parte si è registrata un'ovazione postuma, meritata sì ma “strana” per quanto concerne tempi e modalità. “L'uomo del dialogo”, l'uomo “del rispetto”, l'uomo “vigile sino alla fine”, un uomo “cosciente sino alla fine”. E poi “ha rifiutato l'accanimento terapeutico”. Strano. È tutto molto strano. E per (almeno) due motivi, diversi ma, forse, in qualche modo occulto, connessi: (1) un uomo di fede è di per sé (e se non lo è, dovrebbe farsi un sano e accurato esame di coscienza) un “uomo del dialogo”; (2) un uomo di fede è chiamato a scelte coerenti, specie davanti all'orizzonte ultimo e definitivo della morte. Perché questi due motivi rendono strana la vulgata mediatica attuale? Perché nascondono l'uomo di fede, nel binomio indissolubile di una scelta radicale e irrevocabile, il vivere per Dio, dietro etichette “di comodo”: il dialogo; la sapienza; gli studi; l'arguzia; l'eloquenza; la sagacia; l'operosità; etc. etc. E cosa resta senza? Solo un uomo, appunto. Il soggetto del quale poi poter declinare la qualità che più fa piacere. Ma così facendo si fa solo torto al Card. Martini il quale vorrebbe essere ricordato per quello che era: un uomo sì, ma di fede. In che cosa? Nel Dio rivelato e tramandato dalla Madre Chiesa. E forse questo sì risulta “strano”, “disturbante”, “equivoco”, “inutile”, “superfluo”, nel senso che nel Paese, forse, al mondo più ipocrita, disturba che un uomo così potesse far parte integrante e coerente della Chiesa Apostolica Romana. Può un uomo così grande essere parte di Santa Romana Ecclesia? Questo il pensiero di tanti, l'uomo del dialogo per tutti … etichetta di comodo e retropensiero rimosso. E dovrebbe far riflettere questa curiosa scissione tra la dimensione pubblica dell'uomo (del dialogo) Martini e la dimensione interiore dell'uomo (di fede) Martini. Ma presentarlo nella sua veste edulcorata di uomo del (solo) dialogo, lo rende simpatico a (quasi) tutti, non imbarazzando, di conseguenza, la sua radicale e completa adesione alla tavola dei valori di Madre Chiesa. Eh sì, perché o Martini lo si apprezza integralmente, uomo del dialogo perché uomo di fede, o Martini lo si apprezza parzialmente, lodando l'uomo del dialogo che fu (anche ignorando però le ragioni di fede che lo spinsero sulla difficile strada del confronto, con atei, con altre religioni, e così via … d'altra parte non diceva questo anche il Concilio Vaticano II? Ah, questo sconosciuto!)

Ma il preferire una versione “laica” del Card. Martini oltre ad essere più facile da mandar giù, consente anche di porre in questione la sua stessa coerenza davanti alla morte, magari anche lasciando intravedere delle crepe tra la dottrina ufficiale della Chiesa e la condotta singola di suoi esponenti. Incoerenza, però, assente, nonostante l'erroneità, e la profonda confusione generale che vi regna sopra, della notizia acclusa “ha rifiutato l'accanimento terapeutico”. Si crede infatti che l'etichetta presente “accanimento terapeutico” comprenda molte cose, dall'eutanasia attiva (operare concretamente per anticipare la morte di un soggetto) a quella passiva (omettere di operare concretamente per curare qualche malattia grave e debilitante di un soggetto), dal rifiuto delle cure in sé stesse alla dignità del malato. L'opinione pubblica italiana al riguardo è mal informata: accanimento terapeutico vuol dire solamente prolungare arbitrariamente una vita umana nel momento in cui, invece, il naturale decorso della stessa si è ormai concluso. Tutto qui. Il Card. Martini non ha chiesto l'eutanasia né tantomeno ha chiesto di essere lasciato morire. Al riguardo, si percepisce una sorta di deja vù. Infatti, quando morì il Pontefice Giovanni Paolo II si disse tempo dopo che chiese insistentemente di essere lasciato andare e che gli furono somministrati antidolorifici. Qual è l'intento neanche tanto velato di una simile strategia comunicativa? Mettere in luce (presunte) incoerenze nel Magistero della Chiesa la quale da un lato proibisce tali metodiche (eutanasia; accanimento terapeutico; etc.) e dall'altro le tollera per alcuni suoi “alti” esponenti. Ma la confusione al riguardo è massima: rifiutare delle cure che non hanno alcun beneficio per l'ammalato, prolungandone artificialmente l'esistenza, non sono uguali al far di tutto perché l'ammalato cessi di soffrire morendo oppure astenersi da cure, che potrebbero essere efficaci, lasciando che il malato muoia simpliciter. La memoria può facilmente riandare a due episodi della recente cronaca che hanno fatto, diciamo, “giurisprudenza” in merito.
Poteva il Card. Martini rifiutare l'accanimento terapeutico senza venir meno alla coerenza di vita con la dottrina della Chiesa? Sì. Poteva il Card. Martini rifiutare l'accanimento terapeutico, chiedendo anche di accelerare l'avvento della morte, senza venir meno alla coerenza di vita con la dottrina della Chiesa? No. Ma questa è solo Accademia perché questa fattispecie non s'è verificata.
Allora, smettiamola di guardare a singole parti dell'uomo Martini, e cominciamo a guardarlo nella sua integrità di uomo di fede. Altrimenti, non si comprenderebbero né la sua incredibile fama né tantomeno il fascino che la sua figura, coscientemente o meno, ha esercitato su tanti (credenti o meno, pensanti o meno, come direbbe lui stesso). Condizione questa sulla quale parrebbe opportuno quantomeno meditare, in un senso che almeno pallidamente si avvicini a quello da lui propugnato e difeso in vita (stare in comunione con Dio).
Ma le strade degli uomini sovente sono diverse da quelle di Dio.


martedì 28 agosto 2012

Aristotele ... l'ingannatore! Dialettica nell'elenchos


[Quanto segue riprende idealmente un discorso già avviato ed espresso in questo post. Il presente, invece, desidera analizzare in termini dialettici la dimostrazione indiretta che Aristotele offre del principio di non contraddizione. SI tratta ancora di una bozza, ma presenta già molti aspetti interessanti]

Il dilemma della “prima mossa” nell'elenchòs aristotelico

Il topos classico, per quanto concerne il principio di (non) contraddizione (PDNC) è certamente Metafisica IV. ove Aristotele cerca di dimostrare la natura fondamentale dello stesso, evitando nel contempo di cadere in una facile petitio principii, data la sua strutturazione esigenziale.
Possiamo leggere, nella traduzione del Reale, come

Ci sono alcuni […] i quali affermano che la stessa cosa può essere e non essere, e, anche, che in questo modo si può pensare […] Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più sicuro di tutti i principi. Ora alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato: infatti è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all'infinito, e in questo modo, per conseguenza non ci sarebbe affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una dimostrazione, essi non potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione [1]

Solo chi ignora il (PDNC) potrebbe, a detta dello stagirita, desiderarne anche una dimostrazione. Questo, però, è impossibile dato che esso è il principio alla base di tutto. Anzi, Aristotele sembra anche dire che è proprio grazie all'esistenza del (PDNC) che è possibile fornire dimostrazione di altri principi. Di conseguenza, il (PDNC) regge l'intero edificio speculativo, assicurando sensatezza, coerenza, credibilità, verità alle proposizioni di quest'ultimo. La stessa metafisica, in quando scienza che mira a studiare l'essere in quanto essere, si fonda sul (PDNC), a sua volta, pertanto, garanzia di dimostrazione. Pertanto, come può il (PDNC) esaudire i desideri degli ignoranti i quali, non convinti della bontà dello stesso, chiedono una sua dimostrazione? Simpliciter, il (PDNC) non può dimostrare il (PDNC): un procedere in questo modo sarebbe vizioso, circolare. Se il (PDNC) cercasse di dimostrare sé stesso avremmo la situazione paradossale, quanto innaturale, seguente: lo strumento della dimostrazione che desidera dimostrare sé stesso. Come può il (PDNC) dimostrare il (PDNC)? Come può lo strumento farsi a sua volta fine? E come può darsi, in ultima istanza, questo fine se si dovrebbe realizzare la condizione seguente: uno strumento che si fa strumento di sé? Per questo motivo, solo per ignoranza, dià apaideusían, si può volere una dimostrazione del (PDNC), chiederne una prova: è solo in virtù del (PDNC) che è possibile dare dimostrazione. Come chiedere dimostrazione dell'organo di ogni dimostrazione? Semplicemente, non è possibile, è insensato farlo.
In precedenza, sempre Aristotele aveva sottolineato la natura essenziale del (PDNC) per una scienza dell'essere in quanto essere, episthéme tis hé theoreî tò òn hê òn [2], e, per lo stesso motivo, i medievali hanno coniato la famosa espressione firmissimum principium, ossia il principio più saldo (di tutti), peraltro traduzione latina dell'espressione aristotelica bebaiotáte archè, principio saldissimo [3].

Come mai lo stagirita, se il (PDNC) è a fondamento di qualsiasi conoscenza possibile, avverte il bisogno di dimostrare, entro certi limiti, proprio tale natura? Non dovrebbe, forse, essere già evidente? Lo stesso aveva precisato in precedenza come

il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto […] e deve essere un principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere una mera ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. È evidente,dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti [4]

Appare la doppia la determinazione essenziale che Aristotele attribuisce al (PDNC): (i) la non ipoteticità (e, quindi, l'apoditticità); e, (ii) l'essenzialità. Con (i), Aristotele intende asserire come il (PDNC) sia apodittico nel senso che un'ipotesi non faccia né conoscenza né condizione di possibilità per quest'ultima. Piuttosto, il (PDNC) è condizione stessa di possibilità per qualsivoglia conoscenza. Ragion per cui, non può essere una mera ipotesi. Con (ii), Aristotele intende affermare come il (PDNC) è l'essenza della conoscenza, ossia il fondamento (infondato) del pensiero umano. Senza il (PDNC) non può esservi conoscenza in un duplice senso, e conseguente alla determinazione doppia di cui sopra: (a) senza l'apoditticità del (PDNC), non v'è pensiero; e, (b) senza pensiero fondato sul (PDNC), non v'è conoscenza. Solo gli ignoranti (di queste ultime cose, doppia determinazione e duplice senso) possono, a torto, chiedere soddisfazione del (PDNC). Almeno ad Aristotele le cose appaiono chiare e piane.
Eppure, anche al suo tempo, non mancavano i detrattori dello stesso secondo i quali, grosso modo, era la contraddizione stessa l'anima delle cose, il dissidio insanabile tra negazioni a reggere le cose del mondo, a configurarsi quale principium della realtà. Da qui il doppio problema che Aristotele cerca di affrontare nella Metafisica: (1) da un alto, dimostrare come erri chi nega la vigenza del (PDNC); e, (2) dall'altro lato, indicarne la natura essenziale, senza però autoconfutarsi. Affrontare il problema (1) sembrerebbe, a prima vista, cosa più facile rispetto a superare il problema (2) dato che chi non rispetta il (PDNC) non dice cose sensate, ossia cose da prendere sul serio, cose coerenti, cose razionali, cose comprensibili. Questa la gamma di valori che Aristotele racchiude entro le formulazioni epistemica, logica e metafisica, del (PDNC): si riesce a dire cose comprensibili anche da altri se, e solo se, si rispetta il divieto di contraddizione. Pertanto, impossibile sarà: (a) credere entrambe vere due negazioni in contraddizione; (b) asserire come entrambe vere due negazioni contraddittorie; e, (c) vedere due principi l'uno negazione dell'altro (ma si potrebbe parlare al riguardo anche di molti più principi). Queste tre impossibilità si raccordano ovviamente (e come potrebbe essere diversamente) con la doppia determinazione (i) – (ii) e con il duplice senso (a) – (b). anzi, si potrebbe anche dire che si tratti di dovute conseguenze.
Ma se gli stolti, gli ignoranti [5], possono sbagliarsi nel chiedere conto di offrire una dimostrazione anche per la condizione di possibilità della dimostrazione in sé stessa, nondimeno Aristotele non si perde d'animo ed offre quella che, a suo dire, è una dimostrazione indiretta del (PDNC):

Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l'impossibilità in parola per via di confutazione [6].

E siamo così alla famosissima, a mio sommesso parere, anche giustamente tale, dimostrazione per confutazione di Aristotele, meglio nota anche come elenchòs (che, a dire il vero, significherebbe solamente confutazione). Ricapitolando, però, per ovvie esigenze di chiarezza espositiva, Aristotele nega che sia possibile una dimostrazione diretta del (PDNC), perché ciò comporterebbe l'assurdo teoretico di un (PDNC) che operi sul (PDNC), ossia su sé stesso, un oltrepassamento epistemico di confini che nemmeno il (PDNC) può permettersi di sognare. Sempre, lo stagirita, per, reputa possibile una dimostrazione indiretta del (PDNC), ossia una sorta di dimostrazione che, in parola, consenta mostrare l'erroneità della richiesta del negatore del principio. Questo dimostra l'elenchòs: che è impossibile fare a meno del (PDNC), per indimostrato che quest'ultimo resti. Se il (PDNC) non può dimostrare sé stesso, allora sarà possibile dimostrare che è in errore chi nega il (PDNC). Un altro modo, ai tempi di Aristotele, per realizzare il brocardo seguente: se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. Si tenga però in considerazione la limitazione che Aristotele pone a tale dimostrazione per confutazione: in parola e per via di confutazione, deïxai elenctikōs. Come a dire che non si tratta di una vera e propria dimostrazione, di per sé impossibile da realizzarsi, ma di una simulazione dimostrativa la quale ha palesemente il carattere della sconfessione per quanti neghino la validità del (PDNC). Detto altrimenti, quanto Aristotele si accinge a fare è ingaggiare uno scontro dialettico con i nemici del (PDNC) al fine di mostrare come questi ultimi siano in errore poiché per negare la validità al (PDNC) bisogna utilizzare proprio il (PDNC), ossia quanto si vorrebbe eliminare. Pertanto, sono contraddittori gli stessi negatori del (PDNC): per dimostrare la contraddittorietà di qualcosa bisogna pur adoperare il (PDNC). Di conseguenza, come si può pretendere di farne a meno? Ma non anticipiamo troppo gli esiti e il filo del discorso, procediamo con più metodo.
La situazione attuale è, grosso modo, la seguente: vi sono due interlocutori in contrasto tra loro, l'uno asserisce la natura essenziale del (PDNC), l'altro, invece, nega la natura essenziale del (PDNC). Per dirimere la controversa vi sarebbe una strada obbligata, la dimostrazione del (PDNC). Ma nel caso presente, la cosa appare quantomeno problematica: può il (PDNC) dimostrare il (PDNC)? Una dimostrazione diretta, pertanto, appare una strada non percorribile. Resta un'unica alternativa: una dimostrazione indiretta. Cosa s'intende con quest'ultima locuzione? Sicuramente, una dimostrazione che si concluda con la sconfitta dialettica di una delle due parti. Lo stagirita propone di procedere in questo modo:

(A) esiste il (PDNC) (posizione del primo interlocutore);
(B) non esiste il (PDNC) (posizione del secondo interlocutore).

Chi ha ragione (e chi torto)? Aristotele percorre un sentiero contorto al termine del quale appare inequivocabile l'errore di (B), ossia del secondo interlocutore, altrimenti del negatore del (PDNC). Infatti, come può reggersi (B) senza far ricorso al medesimo (PDNC) che vorrebbe negare? DI conseguenza, la posizione del secondo interlocutore, del negatore del principio, dei nemici del (PDNC) è contraddittoria: o si fa del tutto a meno del (PDNC), dato che non vi si crede, e, quindi, qualsiasi proposizione asserita diventa arbitraria, opinabile, oppure ci si giova del (PDNC), si evita di asserire proposizioni erronee, di assumere comportamenti contraddittori. Per negare che esista il (PDNC), alla fin fine, risulta necessario far uso dello stesso (PDNC), ossia di quanto si desiderava fare a meno, negare, confutare. Qui Aristotele celebra la sua vittoria dialettica: (B) perde perché si contraddice, ossia, in parola, si autoconfuta, utilizzando proprio quello che voleva confutare.
Forse, però, è bene cedere il passo al ben noto discorso aristotelico:

[…] per via di confutazione: a patto, però, che l'avversario dica qualcosa [échonta lógon]. Se, invece, l'avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad una pianta. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell'esigere che l'avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è […] ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece, l'avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, egli sia avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c'è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione[7]

Aristotele ha descritto in questo passo le movenze di un gioco dialettico che, proprio per il suo non essere un “gioco cooperativo”, ma competitivo, pone in competizione due attori i quali sostengono due posizioni contrarie, quanto esclusive. La situazione così descritta è tale da comportare che solo una delle due posizioni risulterà vera. Il problema, però, è dato dal dilemma seguente: chi giocherà per primo? Infatti, stante la natura della tesi in gioco, come mostrato dalla coppia (A) – (B), il successo finale arriderà solamente a chi muoverà per primo. Di conseguenza, è lo stagirita a fare la prima mossa, esigendo che l'avversario “dica qualcosa”. Dire qualcosa, però, significa utilizzare proprio il (PDNC) che l'avversario, invece, intende negare. Pertanto, pur non volendo, l'avversario è costretto ad utilizzare proprio quanto nega. A questo punto, infatti, Aristotele ha buon gioco nel riscontrare la contraddittorietà dell'avversario il quale prima sostiene di voler negare il (PDNC) e dopo finisce con l'affermare (ossia: utilizzare) il (PDNC). Ragion per cui, l'avversario si autoconfuta, cade in contraddizione, commette una petizione di principio: per confutare il (PDNC) utilizza il (PDNC). Ammessa quella clausola così apparentemente “neutra”, Aristotele compie per primo la mossa e si assicura il successo finale: l'avversario non è credibile in quanto adopera proprio quello che vorrebbe negare. La mossa dello stagirita è strategica perché impone all'avversario la sconfitta dialettica. La limitazione pretesa, dire qualcosa che abbia significato e per lui e per gli altri, allà shemaínein gé ti kaì autö kaì állo, segna la direzione che assumerà l'intera contesa. Ed è ben strano che l'avversario lo faccia, che conceda tanto. Basterebbe, infatti, che rimanesse in silenzio, senza operare movenze di assenso e/o di dissenso, per non fare il gioco di Aristotele. Se, invece, come sembra, l'avversario concede sia pure solamente questo, di dire qualcosa di sensato e per lui e per (tutti) gli altri, ecco che, sia pure inconsciamente, si sottomette alla signoria del (PDNC) che prima non riconosceva come tale. Siccome così facendo cade in una petizione di principio, su di lui ricade l'onere della colpa, ossia la responsabilità della petizione stessa. Argomentando di conseguenza, Aristotele decreta la fine della contesa a suo vantaggio indicando nell'avversario l'intera responsabilità della confutazione. Infatti, egli dice che il responsabile della petizione non sarà colui che dimostra, ossia Aristotele stesso, ma colui che provoca la dimostrazione, ossia l'avversario. Riutilizzando la nostra coppia dialettica, la colpa della confutazione, della petizione, dell'errore, chi è nel falso, in soldoni, non è (A), ossia il sostenitore del (PDNC), ma (B), ossia il negatore del (PDNC), paradossalmente proprio colui che chiede la dimostrazione, e non colui che dimostra. D'altra parte, (B) appare, alla fin fine, uno sciocco perché per confutare il (PDNC) finisce con l'utilizzarlo. Ma è abile Aristotele a fargli ingoiare questo amaro boccone perché chi concede la clausola di dire qualcosa di sensato e per sé e per (tutti) gli altri, concede pure che v'è qualcosa di vero, ossia che il (PDNC) esiste, indipendentemente dalla dimostrazione. L'interlocutore (B) cade proprio dove avrebbe dovuto tenere, passando, e contraddittoriamente, da un atteggiamento negativo ad un atteggiamento affermativo, prima nega, poi afferma, il (PDNC).
Tuttavia, quanto Aristotele intendeva, però, affermare con il gioco dialettico qui rappresentato, è che il sofista, qualunque negatore del (PDNC), sbaglia in partenza dato che il (PDNC) è la condizione stessa di possibilità di discorsi sensati e per sé stesso e per tutti gli altri. Ma solo nel momento in cui chiede, erroneamente, e fatalmente, conto, ossia dimostrazione, può accorgersi del suo errore: l'autoconfutazione è infatti la sanzione definitiva del “salto mortale” al quale dovrebbe insanamente affidarsi per riuscire nel suo intento, fare a meno del (PDNC). Come abbiamo visto, però, il significato del (PDNC) ruota attorno a doppie movenze particolari, (i) – (ii) e (a) – (b), le quali descrivono il ruolo non emendabile dello stesso nello strutturare un pensiero razionale, ove 'razionale' sta per 'sensato', avente, cioè, un significato che possa venir compreso da tutti. L'essenzialità del (PDNC), infatti, si riverbera sull'intersoggettività dello stesso: in quanto fondamento del pensiero, il (PDNC) viene adoperato, e compreso, da tutti, senza che qualcuno possa pretendere di farne a meno.


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 Note

[1] Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 145 (1005b 35 – 1006a 1 – 10).
[2] Ivi, p. 131 (1003a 20).
[3] Ivi, p. 143 (1005b 15).
[4] Ibidem.
[5] In Metafisica 1005b e sg., Aristotele precisa come un discorso più articolato sul (PDNC) sia già stato svolto negli Analitici, opera confluita nel cosiddetto corpus detto Organon, ossia strumento (presumibilmente, di conoscenza). Pertanto, l'allusione all'ignoranza, come causa della richiesta, in sé assurda, di dimostrare la dimostrazione, ossia il (PDNC), il principio più noto, più saldo, di tutti, è sottilmente ironica: chi chiede conto del (PDNC), non ha (mai) letto gli Analitici.
[6] Ivi, p. 147 (1005b 11 – 15).
[7] Ibidem.