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giovedì 13 dicembre 2012

Il volto cinquestelle ...


(immagine tratta da: http://t1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcROQEIaU-LlUnmMt5wtq6Jt2Gquz4SfB4XI64tHJvSSeqQC6y_pR_fI9dUa)



Sembrava solo questione di tempo ma, con la consueta puntualità, franchezza, e garbo, il qualunquis grillo ha congedato, senza possibilità alcuna di replica, quei due consiglieri, eletti tra le stelle, cinque per la precisione, e che, recentemente, avevano lagnato, in pubblico, con eccesso di visibilità, mediatica prima e web 2.0 successivamente, la mancanza di democrazia interna, di confronto tra le parti, di discussione tra il symbolon del movimento, il grillo (parlante), e gli attivisti alla base.

A mio sommesso parere, sono tre gli elementi illuminanti, ed istruttivi, della faccenda, di questo pasticiaccio brutto brutto:

1. il movimento M5S tutto è tranne che un fulgido esempio di democrazia innovativa, che supera il concetto tradizionale di rappresentanza partitica e politica, aprendo ai professionisti della società civile e attivando processi di formazione "dal basso" di progettualità politica. Detto in soldoni: tutto resta legato all'iniziativa e alla verve attoristica del suo esponente (padrone?) di punta: Grillo. Tolto il quale, l'intera catasta di web politics casca giù, pur con la buona volontà, e tutta l'ingenuità, di quegli anonimi attivisti che in questi anni hanno creduto nell'idea di base: sostituire, tramite il web 2.0, la "vecchia" politica con la "nuova".

2. il movimento M5S presenta i soliti "vizi" del sistema partitico italiano (dagli anni '80 in poi almeno): spettacolarizzazione delle personalità, e detrimento dei contenuti. Per tacere del fatto che qualsiasi linea viene formulata solo dal vertice, senza alcuna possibilità alla base di dissentire o di contribuire spontaneamente. Pertanto, il presunto progetto di politica che passi direttamente nelle mani degli elettori, tramite PC, da nobile sogno rischia di divenire un terribile incubo, con ingenui attivisti trasformati in docile manovalanza volontaria (ossia, senza alcuna retribuzione per i loro servigi).

3. cosa insegna la parabola del movimento M5S? Semplice: che non basta mettere dietro una scrivania del Palazzo qualcuno dei tuoi se questi "tuoi" non sono capaci. Valeva per i vecchi partiti, figuriamoci se il web 2.0 cambia le cose!

Ovviamente, si attende replica di grillo, condita con *vaffa* e ingentilimenti verbali che certamente lo contraddistinguono.

post scriptum

e se l'insulto nascondesse cecità politica? O, ma non vale l'inversa, acume impolitico?


(immagine tratta da: http://www.liberoquotidiano.it/resizer.jsp?img=UpkPfA5XLjjJD1ULV63x%2FyTja8WL9a1%2FT7L%2F0GOtfm0%3D&w=470&h=-1&maximize=true)

mercoledì 12 dicembre 2012

La domanda ...


Il ruolo, senso, e, magari anche possibilmente, funzione della filosofia è il render conto dell'essere, ossia l'addurre delle ragioni che giustifichino l'essere nella sua duplice natura di (1) fondamento dell'esistente (ossia, essentia); e, (2) sostrato materiale di quel che esiste (ossia, corpora).

Così intesa la filosofia, il suo discorso, ovvero quella modalità discorsiva che le è propria, sembra, dunque, aver origine dal tentativo di rispondere ad una domanda fondamentale, singola quanto imprescindibile, particolare quanto ineludibile, essenziale e non trascurabile, ostica eppure esigente, la seguente:

Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla? Ecco la domanda. Non si tratta, presumibilmente, di una domanda qualsiasi. È chiaro che la domanda: «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?» è la prima di tutte le domande[1]

Il ben noto, forse anche giustamente, argomento heideggeriano rende conto di quella inveterata, ed ineludibile, esigenza filosofica di cogliere l'essenza del pensare stesso, in quanto quel che "sta sotto" al reale, la radice silente al fondo di qualsivoglia interrogazione filosofica, l'essere noi-qui-ed-ora. Heidegger si chiede, detto altrimenti, e consapevolmente dopo millenni di ricerca filosofica, la ragione dell'essere: quale sia quell'essenza che rende possibile l'essere (come noi lo esperiamo e lo viviamo). 


Da questo punto di vista, allora, ad essere originale non è la domanda in sé, ma, piuttosto, la piena, e matura, consapevolezza con la quale la stessa è formulata, è avanzata, è posta in essere. Heidegger si limita a ripetere delle idee già presenti in epoche precedenti, pur con il dovuto merito di rendere chiara, e potente, la stessa interrogazione.


In realtà, allora, Heidegger non fa che riprendere una domanda già formulata da Leibniz. Infatti, possiamo leggere quanto segue:

la prima domanda che si ha il diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla? Il Nulla, infatti, è più semplice e più facile del Qualcosa. In secondo luogo, ammesso che debbano esistere delle cose, bisogna allora che sia possibile rendere ragione del perché esse devono essere così e non altrimenti[2]

La distinzione leibniziana tra ragion sufficiente e ragion necessaria, a seconda rispettivamente della meno o maggiore prossimità alla ragione da parte delle entità, ossia degli essenti, di quel che esiste, informa di sè questa strutturazione della domanda, sin troppo simile al medesimo tono che possiamo riscontrare nella formulazione heideggeriana.

Il suo significato, però, è diverso e va colto nella sua reale dimensione, storica in quanto semantica. Come sostiene Natoli: «Leibniz articola la realtà in ordini distinti, dimensionandola secondo i tre classici principi: verità di ragione, verità di fatto, principio di ragion sufficiente»[3]. Come a dire che mentre Heidegger assume l'essere nella sua assoluta generalità, senza porre in essere distinzioni di sorta in possibili gerarchie d'esistenza, l'essere contingente, l'essere possibile, l'essere necessario, Leibniz è fortemente spinto a riconoscere valenze proprio a questa distinzione nella distribuzione di diversi gradi di esistenza, conferendo alla domanda questo senso suo proprio: cos'è quel qualcosa che rende possibile l'essere piuttosto che il nulla? Questo senso ha, però, un corrispettivo speculare, che ne costituisce, però, forse, proprio una sofisticazione di senso, e che possiamo esplicitare, grosso modo, in questa maniera: il qualcosa che fa essere le cose, le fa essere in maniere diverse le une dalle altre.


In merito, appare interessante la semplificazione cui mette capo Givone quando sintetizza come

Heidegger mostra come la formulazione della domanda fondamentale sia decisamente ambigua. Nel senso che l’essenziale è in ciò che, a rigore, la metafisica dovrebbe lasciar cadere e invece stranamente conserva. Qual è infatti il contenuto del domandare? A che cosa si riferisce il «perché?»? evidentemente, al fondamento dell’ente. Questo è in questione: perché l’ente? Ma allora la formulazione dovrebbe essere: «Perché è in generale l’ente?». Il resto - «e non piuttosto il niente» è superfluo. Peggio che superfluo: insensato. Come si fa a parlare di qualcosa che non è? Chi lo fa parla contro se stesso. Eppure … […] siamo portati a chiedere, anzitutto, e indifferentemente: che ne è del nulla? […] e: che ne è dell’essere? […] Indifferentemente, cioè a misura che l’essere e il nulla non possono essere separati. Sennonché per la metafisica […] del nulla non ne è nulla, perché ne è soltanto dell’ente, così come non ne è nulla neppure dell’essere, dal momento che l’essere è ridotto all’ente[4]

Laddove, invece,

nella prospettiva leibniziana la domanda fondamentale può benissimo essere letta come se fosse una risposta. Le si tolga il punto interrogativo, e la si faccia precedere dalla tesi: Dio è il fondamento dell’essere. Otterremo: Dio è il fondamento dell’essere, perché c’è qualcosa piuttosto che niente. Esattamente quel che Leibniz intendeva sostenere[5]

Per Löwith, in ciò interprete di Heidegger, «questa domanda – che già Leibniz e Schelling avevano avanzata – viene detta domanda prima in dignità, perché è la più ampia e profonda e la più vicina all’origine»[6]. 


Ancora più netto appare Pareyson quando si chiede se Leibniz riprenda o meno, pur mutandola nella sostanza, la formulazione democritea: «non esserci piuttosto l’ente che il niente; l’ente non c’è a maggior ragione che il niente; non c’è ragione perché ci sia qualcosa piuttosto che il nulla»[7].


La declinazione dei possibili significati del perché marca la differente sensibilità con la quale di volta in volta suddetta domanda viene svolta, pur rimanendo, però, sempre viva l'esigenza di fondo.


La vulgata coeva, tuttavia, rovescia l’impostazione canonica della metafisica occidentale, ne forza il significato proprio dell’opposizione di essere e non essere, la stessa su cui si basa il divieto parmenideo di pensare l’impossibile.


Da Leibniz in poi questo stesso discorso è diventato il principio di ragion sufficiente: quel che consente agli enti di essere o non essere, di esistere o meno, di poter venir conosciuti o meno. Il nulla non può essere trattato come se fosse qualcosa, questo l'insegnamento originario della filosofia sin dai suoi primi vagiti. 


Questa limitazione, originaria quanto essenziale al pensiero umano, sia pure la sua cosiddetta circoscrizione occidentale, viene oggi aggirata concependo il nulla più reale dell’esistente in quanto regola del divenire: tutto è nulla perché tutto muta. Il nulla, cioè, non sarebbe l’opposto dell’essere, come dovrebbe essere, ma la diversità ontica; il non – essere, più semplicemente, non è l’opposto dell’essere, ma la possibilità del suo essere diverso da come appaia, la possibilità stessa del mutamento, del divenire.


In soldoni, la declinazione attuale, che rovescia del tutto il senso iniziale della stessa domanda, è una facile sofisticazione che non coglie però il fondo del problema metafisico di origine: perché c’è quel che c’è? Cosa fa sì che ci sia essere? E cosa fa sì che il non – essere non sia? Questo è il problema della filosofia, nonostante che Galimberti l’interpreti invece in termini antropologici[8].

E tuttavia mi si consenta ancora di cogliere in questa tendenza, assai forte nel cosiddetto filone postmoderna, forse la ragione della profonda confusione tra realtà e interpretazione. D'altra parte, pervertire la distinzione di essere e nulla è l'anticamera della sostituzione del reale con la finzione, compiendo appieno quella tendenza che icasticamente Ferraris dichiara realitysmo[9]. 


Ma non è questa affatto una conclusione definitiva, solo un esito provvisorio che il futuro solamente potrà dirci se reversibile.

Anche se una mia idea già ce l'ho e l'ho espressa in altra sede.




(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiDI9RxgQ-slIXVThIGlXVa9t3XA6Wz7knaGce2yt88OqZjCZkEEGHx6nQPhlSt1ndu7STYby6vq2PKM64qKxW464P5vyzPz1R5Usy1jUTuHfnEj7EjZhF7IpVDO8ELmHGWsrIyZdVF5F0j/s320/pruden.jpg)



Note
[1] Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 19722, p. 13.
[2] Cfr. G. W. Leibniz, I principi razionali della natura e della grazia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083, p. 47 (§ 7).
[3] Cfr. S. Natoli, op. cit., p. 167.
[4] Cfr. S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Roma – Bari, 1995, pp. 203 – 5.
[5] Ivi, p. 186.
[6] Cfr. K. Löwith, L’Esistenza che si accetta e l’Essere che si dà, in K. Löwith, Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino, 1966, p. 25.
[7] Cfr. L. Pareyson, La libertà e il nulla, in L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995, p. 356.
[8] Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 20032, p. 701.
[9] Cfr. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma – Bari, 20122, p. 29 e sgg.

lunedì 10 dicembre 2012

La crisi politica, il giuoco delle parti e l'equivoco (sempre vivo) del '92



Cosa lega assieme crisi politica, crisi economica e crisi morale nell'Italia del 2012? La risposta è semplice quanto disarmante: l'equivoco del '92!

Cosa intendo con equivoco del '92? Semplice, quell'insieme di desiderata; errori; confusioni; ignoranza che accompagnano i deliri revisionistici nostrani a partire dal 1992 e che malconsigliano all'opinione pubblica il recepimento della vita legislativa del Paese in tutti questi anni, e anche in questi giorni dopo la brevissima stagione dei tecnici.

Il tam tam dei media è già iniziato: Monti si dimetterà, l'esecutivo andrà in scadenza, le Camere verranno sciolte, si tornerà alle urne, lo spread tornerà a salire, l'UE comincerà a trattarci come la Grecia (non ce ne vogliano gli ellenici per il tono del paragone), gli USA diranno che l'instabilità politica non è un bene, etc. etc. etc. Sono rituali ormai obsoleti, parole già sentite, minacce già presentate, personalmente ne ho memoria sin dal 1992 appunto! L'anno in cui l'onda travolgente di un'indagine giudiziaria, abilmente cavalcata da mezzi di comunicazione di massa, in special modo quelli privati che dovevano contendere con quelli pubblici una maggiore visibilità, presentò all'opinione pubblica l'immagine, certo deformata, di un Paese del tutto corrotto e senza alcuna speranza di redenzione futura. Già allora si profilò la controfigura del politico, ossia il tecnico, più capace del primo, più adatto del primo, più onesto del primo, che avrebbe dovuto condurre il Paese fuori dal guado, fuori dal marasma di Tangentopoli, e commettendo da subito il peccato originale di quella stagione: dimenticare che non è il tecnico, ma sempre il politico, che siede in Parlamento, a decidere cosa e come fare.

Così consigliavano i media di allora, in diretta dal Tribunale di Milano. Così gli italiani intesero la faccenda, in maniera ovviamente riduttiva ma, a suo modo, efficace: il Sistema è definitivamente corrotto e va cambiato riscrivendo le regole del gioco politico.

Facendo aggio sulla proverbiale ignoranza politica, per non dire anche giuridica, degli italiani, ossia dell'opinione pubblica del Paese, alle prese in contemporanea con le rigidità di quella crisi economica, che fece assimilare in chiave limitativa il Trattato di Maastricht (sempre del '92), che cominciò a gustare i frutti proibiti del qualunquismo e dell'impolitica, e a considerare, più o meno conseguentemente, l'intera categoria politica come un insieme ben affiatato di ladri.

Moggi era ancora al di là dal guadagnare gli onori della cronaca, più agevolmente vi riuscirono i politici di allora, travolti dalle indagini e da un'opinione pubblica mal informata.

Prese così forma l'equivoco del '92, ossia quell'insieme di aspettative, più o meno legittime, di desideri, più o meno meschini, di progetti, più o meno arditi, che hanno descritto la storia politica del Paese da allora sino ai nostri giorni.

Penso che siano almeno quattro le tendenze diverse che si contendono la palma del comando all'interno dell'equivoco stesso:

1. la sostituzione della legge ordinaria dalla legge costituzionale;
2. la spoliticizzazione della legge ordinaria in guisa di malintese materie tecniche;
3. la riforma della legge ordinaria per via costituzionale;
4. la riforma dei costumi politici attraverso una riforma delle istituzioni.

Queste tendenze, nei loro coaguli particolari, e spontanei, generano tre effetti diversi, ma contemporanei:

a. confondere il comportamento di singoli come un risultato ineluttabile quanto definitivo, ossia irreversibile, del sistema nel suo insieme (da qui l'esigenza di modificare la forma dello Stato);
b. equivocare la fonte del diritto con il braccio esecutivo (da qui l'esigenza di assicurare stabilità ai governi e di rafforzare il vincolo di voto);
c. confondere l'impoliticismo con il comune sentire della gente (da qui l'esigenza di rafforzare il vincolo territoriale e di aumentare la vicinanza tra istituzioni e territori).

Il coagulo (a) ci ha portato al mantra delle riforme costituzionali: l'ossessione, tutta italiana, di dover modificare a tutti i costi la Costituzione, facendovi entrare norme non più assiologiche ma sempre più tecniche (ora anche il pareggio di bilancio!), prefigurando forme futuribili di organizzazione statuale, senza però pensare che il problema stesse magari nella legge ordinaria piuttosto che in quella costituzionale, che descrive la cornice di riferimento, delegando sovente a quella ordinaria il compito di declinare in concreto quanto previsto in termini di valore dalla legge costituzionale.

Il coagulo (b) ci ha condotto al mantra dell'esecutivismo, con tutti i suoi corollari (presidenzialismo; premierato; iniziativa legislativa; poteri del Presidente del Consiglio dei Ministri; durata nel tempo del Governo; aumento delle sue prerogative innanzi al Parlamento; etc.), dimenticando che, sempre secondo la Costituzione, seppur lacerata e strappata in più parti dal coagulo (a), la centralità del Potere in Italia non risiede nel Governo, ma nel Parlamento. Aver dimenticato ciò, consente di vedere necessariamente un male nelle crisi di governo, un danno nelle durate dei governi, un limite alla loro azione il meccanismo delle fiducie/sfiducie (dimenticando anche come il Governo non sia affatto eletto dagli elettori, ma il frutto della rappresentanza parlamentare di questi ultimi). La perduranza di ignoranza da parte dell'opinione pubblica al riguardo e di facili giochi elettorali delle parti fanno sì, come accaduto dal '92 sino ad oggi, che si consideri sempre più negativamente la funzione d'indirizzo politico, da parte del Parlamento, e sempre più con favore un aumento dei poteri del Governo, magari anche diminuendoli al Parlamento. L'insistenza sul meccanismo elettorale, sulla necessità che il Capo del Governo sia eletto, che magari anche i ministri vengano eletti dal popolo, è sintomo di questo coagulo, che non tiene in alcun conto la realtà dei fatti, ossia che per la nostra Costituzione il centro del potere politico non sta nell'esecutivo (Governo) ma nel legislativo (Parlamento). Confondere la normale dialettica parlamentare con il trasformismo è anch'esso un sintomo dell'azione eversiva del coagulo (b). Lo stesso dicasi per la valutazione negativa per i compromessi parlamentarsi, considerati inciuci e non, per come correttamente andrebbero intesi, per accordi che rappresentanti politici raggiungono, anche a prezzo di tempo, sforzi, energie, confronti dialettici.

Veniamo, infine, al coagulo (c): credere, a torto, che la crisi della politica possa venir superata attraverso una maggior vicinanza delle istituzioni al territorio, dimenticando come il problema non stia nella struttura, ossia nell'organigramma istituzionale, ma negli uomini che la vivono e la mandano avanti. Eccoci allora all'ennesimo mantra: decentrare le istituzioni, indebolendo il potere centrale e rafforzando i poteri locali. Passi che ciò sia in gran parte anche l'esito, del tutto previsto, ma in salsa nostrana, del glocalismo, ma è a dir poco imbarazzante pensare che ciò possa aumentare il bene comune il quale, invece, viene del tutto perso di vista in nome di non meglio precisati interessi locali e/o giustizie territoriali, il che, al contrario, significa molto più semplicemente enfatizzare le diversità territoriali prendendo atto della naturale diversità, e sproporzione, tra parti del territorio Nazionale. Ecco, dunque, i frutti avvelenati del coagulo (c): federalismo (che non ha molto senso: federare entità sub-statali come le Regioni?); autonomismo (e il nesso territorio - lobbies locali?); indipendentismo (ma se i problemi non si riesce a risolverli assieme, cosa fa credere che sia possibile risolverli da soli?); et similia.

Ora, pur non volendo rompere le uova nel paniere, credo che siano oramai giunto il momento di sbarazzarci definitivamente dell'equivoco del '92, incapace di risolvere davvero i problemi, che ha contribuito ad aggravare (come ad esempio il disavanzo pubblico, frutto della scellerata scelta di aumentare i centri di potere, dando loro facoltà di mettere le mani nella marmellata), e di tornare finalmente ad occuparci dei veri problemi (la morale dei politici in quanto rappresentanti della volontà popolare), di tornare allo spirito della Costituzione (dare esecuzione alle parti ancora non applicate e migliorare alcuni meccanismi istituzionali già previsti), di occuparci seriamente della moralità pubblica (rimuovendo le cause materiali che, rafforzando le diseguaglianze, spingono molti lungo la strada del "compromesso" morale pur di guadagnare posizioni di vantaggio), e di finirla con un sistema mediatico che enfatizza alcune categorie politiche, a scapito di altre, non informando peraltro adeguatamente l'opinione pubblica sulla realtà dei fatti.            


(immagine tratta da: http://anpibazzano.files.wordpress.com/2009/11/firmacostituzione.gif)