Tommaso Moro è passato alla storia non solo per il noto attrito con il sovrano Enrico VIII, ma anche per averci regalato una gustosa narrazione fantasiosa di un’isola tanto lontana quanto affascinante.
Il nome di Moro è stato così associato per sempre alla splendida realtà di Utopia.
Riflettiamo sul senso dell’operazione compiuta da Tommaso Moro. L’isola è un parto della fantasia del Nostro, non esiste da nessuna parte e il suo stesso nome è già un gioco nel gioco. Utopia significa, appunto, non – luogo, vale a dire una realtà inesistente, impossibile da trovare nella realtà. Ma v’è un altro aspetto ai miei occhi rilevante, e vale a dire l’etimologia del personaggio che narra appunto degli usi e costumi di tale improbabile isola, lontana dagli occhi e lontana dal cuore. Di Utopia non narra Moro, ma il suo doppio sulla scena, vale a dire tal Raffaele Itlodeo. Anche in questo caso, siamo di fronte ad un gioco nel gioco. L’etimologia ci svela ancora il piano meta – narrativo reso palese dall’autore, ossia che nulla v’è da temere nei racconti di Raffaele dal momento che chi narra è, sotto ogni punto di vista, un “contrafrottole”, un bugiardo, un vanesio, un mentitore. In altri termini, è Moro l’itlodeo, non Raffaele, è Moro a raccontar frottole, mica Raffaele, vero e proprio doppio letterario.
Pertanto, parliamo adesso di Moro, l’itlodeo, e del suo viaggio nell’isola che non c’è.
Nelle schermaglie iniziali, Moro discute con un cardinale delle condizioni sociali dell’Inghilterra del tempo e paragona le pecore belanti ad animali “voraci” ed “aggressivi” capaci di “divorare perfino gli uomini”. In altri termini, l’inglese se la prende con il noto fenomeno delle enclosure che, sui primi del XVI secolo hanno caratterizzato il mutamento delle libertà feudali in privative per alcuni. Così, improvvisamente, per favorire la nascente industria mercantile e dei tessuti, i poveri contadini inglesi venivano privati di libertà antiche. I prati inglesi vengono recintati e sottratti all'usufrutto comune. Così, le pecore, da animali docili, diventano mangiatori di uomini. Esse fagocitano “campi, case, città”. Fiutato l’affare della lana, nobili e proprietari terrieri si “danno da fare per recintare le terre e destinarle al pascolo, impedendone la coltivazione”. Impoveriti, ai poveri non resta che delinquere. Il costo sociale della modernizzazione è drammaticamente vivo agli occhi di Moro: cosa resta loro a quel punto “se non rubare” o “darsi all’accattonaggio?”.
La feroce analisi moriana della situazione sociale dell’Inghilterra del tempo apre al rovesciamento di prospettiva, e, quindi, attiva l‘inversione valoriale del modello negativo offerto dalla felice isola di Utopia.
Quel che davvero Moro compie è un felice rovesciamento della realtà vigente. l’Inghilterra del suo evo. Il viaggio, pertanto, non è compiuto in un Paese diverso da quello inglese, ma segnatamente nelle disgrazie e sciagure del proprio Paese. Utopia è solo il pretesto per sottoporre a critica feroce gli usi e i costumi inglesi. Utopia non è il contraltare felice dell’Inghilterra o il nobile ideale di qualche sognatore umanista, e nemmeno il recupero di un genere letterario antico, quello delle narrazioni di luoghi ideali, ma l’immagine riflessa, sia pure in negativo, della società inglese del suo tempo.
Moro non narra di Utopia, ma dell’Inghilterra, non celebra le sorti magnifiche di un luogo inesistente, ma deplora le sorti infime di un luogo realissimo, l’Inghilterra del XVI secolo. Utopia, così, diviene espressione di un gioco letterario particolarissimo quanto sofisticato, non un discorso escatologico sul miglior mondo che verrà, ma un discorso escatologico inverso. Non un altrove distinto e migliore, ma il luogo ove siamo, dove dimoriamo. E però rovesciato: il male in bene, il brutto in bello, il corrotto in retto, e così via. Moro formula un’escatologia che non narra già di quel che verrà al termine del tempo, ma di quel che potrebbe avvenire già oggi nelle nostre sciagurate città.
E scopriamo subito che i suoi abitanti indossano “uniformi di un particolare colore”. E la cosa pare strana: inquadrati in uno schema sociale ben preciso, i singoli non sono liberi, ma mere manifestazioni della bontà suprema del modello stesso.
Tuttavia, nella sua stessa utopia, Moro è pur sempre figlio del proprio tempo e proprio non riesce a distaccarsi da una certa organicità di pensiero moderno.
Utopia, oltre che essere un’isola che non c’è, è pure la migliore forma possibile di Stato? Moro si rifà al modello platonico che lui stesso non manca di citare quando fingendo di implorare Raffaele di narrare di quell’altro mondo fantastico, scrive che “afferma il vostro amico Platone: non vi saranno società felici fino a quando i filosofi non diventeranno re, o questi ultimi non si daranno allo studio della filosofia”. Precorrendo gli ameni sogni degli illuministi, Moro ci narra la menzogna ideale del miglior Stato possibile! Per Moro, gli utopiani sono “gente felice. Forse perché seguano l’idea di Platone? Raffaele appare netto, “non c’è posto a corte per la filosofia”, e, quindi, sembrerebbe proprio di no. Ma Moro insiste e replica che l’unica filosofia inadatta al rango di guida della politica è “la filosofia accademica”, vale a dire la filosofia che si chiude in una torre d’avorio. Quella stessa filosofia miope ed ottusa che non tiene “conto delle circostanze”, e che preferisce recintarsi in un mondo rarefatto e perfetto. Ma il contafrottole parte da lontano per colpire nel segno. Infatti, al bando la filosofia accademica, ma pure la vita di corte distante dal mondo reale, incurante degli uomini e della storia, che non tiene debitamente conto delle circostanze reali.
E qui per pararsi dal rischio di veder riconosciuta la sua diretta critica allo status quo Moro, alias Raffaele, alias Itlodeo, mette le mani avanti dicendo che non cerca “di convincere nessuno ad adottare il sistema proposto da Platone” né tantomeno “quello vigente attualmente in Utopia”. Ma allora, e proprio per questo, perché parlarne? Non è piuttosto normale paragonare il sistema proprio con un altro quando se ne abbia notizia? A che gioco sta giocando Moro? È solo un’astuta mossa per evitare spiacevoli conseguenze oppure il contafrottole ha perso il bandolo della matassa narrativa?
Moro mostra che la vita europea non è affatto buona o la migliore possibile, e, quindi, che potrebbe essere cambiata in meglio. Ma come? Non potendo criticare direttamente il sovrano o, comunque, i potentati del tempo, non può fare altro che dislocare in un altrove tanto retorico quanto fittizio la sua utopia politica, il suo progetto di palingenesi morale e sociale degli inglesi. Così, ai potenti sfugge la potenza sovversiva della sua pungente critica agli ordinamenti politici coevi, e ai correlati assetti sociali, mentre Moro fa esattamente quel che aveva in mente di fare sin dal primo momento, ovvero sottoporre a feroce critica lo stato vigente.
Assistiamo, così, aL gioco delle parti con Raffaelle che mette le mani avanti e svaluta, a parole, il modello che tanto a cuore sta invece a Moro stesso, ovvero la Repubblica utopiana. Un elemento di disvalore decisamente strano, quasi una nota stonata, ma la strategia moriana mi pare chiara: rassicurare i potenti del tempo, facendo credere che Utopia sia solamente un pio sogno di qualche stravagante pensatore piuttosto che una precisa minaccia al loro potere.
Moro, nascondendosi dietro la creazione fantastica, mette ancora in bocca a Raffaele la clausola che segue: “A meno di non trovare giusto che le migliori condizioni di vita tocchino alla peggiore gente, e di considerare prospero un paese nel quale la ricchezza è divisa tra un’esigua minoranza, il cui benessere è commisurato alla miseria degli altri”. Strano che i poteri del tempo non si siano sollevati di fronte a cotanta sfrontata lesa maestà. Eppure, in pochi hanno colto la potenza sovversiva delle parole di Raffaele, in pochi hanno scorto la potenza del gioco escatologico di Moro, della sua escatologia rovesciata, inventata appositamente per criticare liberamente senza esporsi o senza correre seri pericoli.
Reggendo il gioco delle parti, e al fine anche di confondere ancora di più l’ignaro lettore o il miope potente di turno, Moro interrompe il vagheggiamento di Raffaele per negare recisamente che il comunismo sia un assetto migliore di società. Infatti, in un siffatto regime vi “sarebbe penuria di beni” perché “nessuno lavorerebbe con il dovuto impegno” e tutti tenderebbero “a impigrirsi”. Ma il viaggiatore replica accorto e serafico all’obiezione: “logico che la vediate in questo modo”. Infatti, “non potete immaginare come sarebbe in realtà […] una società del genere”; tuttavia, “se foste stato con me in Utopia sareste il primo ad ammettere di non aver mai visto un paese organizzato meglio”. A quel punto, l’esca è stata gettata e Moro vi si getta subito, chiedendo di descrivere l’isola.
A questo punto non resta che mettere tra parentesi qualsiasi obiezione così come qualsiasi influenza di esperienze storiche, e prestare solamente attenzione al lungo racconto di Raffaele.
Benché Raffaele racconti delle bugie, Moro le rende verosimili. Ovviamente, non nel modo che saremmo subito pronti ad immaginare, ma nel senso che il processo di estraneazione messo in campo trasforma il dispositivo in un doppio meccanismo: da un lato, un esperimento retorico di mera immaginazione ideale; e, dall’altro lato, un rovesciamento simbolico della nostra stessa realtà politica, sociale, giuridica.
Il primo libro del volume costituisce la cornice, tanto cara alla letteratura di un tempo, mentre il secondo libro contiene la descrizione estesa di Utopia, dell’isola che non c’è, e che potrebbe, a questo punto, anche esserci.
Ovviamente, per ovvie ragioni, non mi dilungo su tutti gli elementi che costituiscono l’estraneazione moriana, ma ne prendo in esame alcuni.
(url immagine: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/3/34/Utopia.jpg/233px-Utopia.jpg)
L’isola conta cinquantaquattro città “quasi tutte uguali per lingua, costumi, ordinamenti e leggi”. È sicuramente strano che Moro immagini Utopia come l’unione di più stati anziché come un unico stato. La ragione, però, potrebbe essere che Moro abbracci una visione rinascimentale di universalità, imbevuta di fratellanza evangelica. Così, il modello positivo di Utopia può andare bene per ciascun paese europeo, e non per l’Inghilterra soltanto!
Le terre sono divise tra le città ma nessuna desidera “accrescere il proprio suolo, poiché gli abitanti si considerano coltivatori più che padroni del terreno che possiedono”. Le stesse sono coltivate da colonie agricole distinte in famiglie le quali, a rotazione, cedono il compito a nuove famiglie. L’agricoltura è “comune a tutti”. Tuttavia, “ognuno si sceglie un mestiere, un’arte che gli sia congeniale”, ivi comprese le donne nonostante che vengano loro affidati compiti più leggeri, riservando agli uomini i “mestieri più pesanti”. Nonostante l’apparente libertà di scelta della professione, però, quale mestiere svolgere viene ereditato per linea paterna. E questo appare un deciso controsenso rispetto a quanto asserito poco sopra. Insomma, ciascuno può professare l’arte che preferisce oppure no? In ogni caso, però, lavorare non è un diletto, ma un preciso obbligo: a nessuno è consentito rimanere in ozio. La concezione organicista di Moro è, su questo punto, del tutto esplicita: affinché l’organismo statuale funzioni e resti efficiente, è necessario che ogni sua parte, benché minuta, faccia quel che deve, e non per sé stessa, ma per il bene comune. In fin dei conti, infatti, gli abitanti di Utopia sono mezzi per la virtù del sistema generale.
Non è concessa la mobilità libera, ma prima bisogna chiederne l’autorizzazione a sifogranti e tranibori. Si viaggia “senza bagaglio” perché “dovunque si fermino sono tutti a casa propria”. Se, però, decidono di fermarsi in un luogo per più di un giorno, sono “tenuti a lavorare”. Ogni sorta di vizio o qualsiasi invito al vizio è bandito. La dittatura morale che Moro immagina, ed intimamente desidera, fa la sua sfoggia nella tenuta civica degli utopiani. Non esistono “osterie, locande, bordelli, locali malfamati, case equivoche”. L’utopiano deve lavorare per gli altri, non può né evadere né perdere tempo in ozio. Di conseguenza, non esiste la povertà e, quindi, manca la piaga europea dell’accattonaggio. Gli utopiani trovano inconcepibile che gli occidentali si prostrino “ai piedi di qualcuno che non è loro padrone né creditore, per il solo fatto ch’è ricco”. In altri termini, forse, noi occidentali abbiamo dimenticato che la nobiltà dev’essere d’animo, e non di riserva aurea. Questo, ovviamente, non significa che disdegnino le discussioni sui beni e sulla felicità. Anzi, essi trovano nella religione il fondamento per la loro morale vagamente edonistica. Così, gli utopiani sostngono che “sia la natura stessa ad imporre la felicità nella vita, cioè il piacere, in quanto fine di tutte le azioni”. La virtù consiste appunto “nel vivere secondo le leggi della natura”. Di conseguenza, in sapiente equilibrio, la saggezza “consiste nel ricercare il proprio beneficio senza violare tali norme”.
Gli utopiani non disdegnano i piaceri, ma di gran lunga “prediligono i piaceri dell’anima”. E questa predilezione per la dimensione intellettuale o spirituale la si scorge anche nella vita activa ove si scopre che la gente di Utopia “è cordiale, gentile, laboriosa”, che ama “il riposo” ma sa pure “affrontare di buon grado le fatiche” quando ciò sia necessario. Ad ogni modo, è “instancabile nel tenere occupata la mente”.
In questa sorta di paradiso, tuttavia, si registra la strana presenza di un’incongruenza, vale a dire di un neo che Moro non smacchia. Mi riferisco alla schiavitù che è presente ad Utopia e che consiste non nell’imprigionare i prigionieri di guerra “ma soltanto gli autori di azioni scellerate” o di “crimini compiuti all’estero per i quali sarebbe prevista la pena di morte”. Quindi, ad Utopia i rei esistono ma fanno una bruttissima fine: resi schiavi per sempre! O, per dirla altrimenti, funzionalizzati al bene supremo della collettività. E, quindi, si rende sempre più manifesta la natura totalitaria dell’universo utopico. Per di più, ma questo in ossequio al dispositivo di rovesciamento escatologico, gli utopiani sono felici di farsi carico di schiavi all’estero i quali, nei loro paesi subirebbero la pena capitale, ma ad Utopia diventano schiavi per il superiore bene collettivo. Questi schiavi, infatti, “sono destinati ai lavori forzati per tutta la vita”.
La precisa direzione virtuosa viene anche sostenuta in maniera attiva, e non soltanto reprimendo le cattive condotte, ma anche concedendo “onori per chi pratica la virtù”. Una tale cura della virtù singola e collettiva, non può che avere ricadute virtuose. Infatti,essendo quello utopiano un popolo progredito, sono sufficienti poche leggi per organizzare la società, e, quindi, la ripartizione di diritti e doveri, o l’equilibrio tra interessi e tutele, oppure ancora tra ruoli e funzioni. Inevitabilmente, allora, essi contestano agli altri popoli “l’eccesso di leggi e di glosse”.
Ma veniamo alla parte finale delle elucubrazioni di Moro, quella relativa al credo religioso degli utopiani e il quale, ovviamente, costituisce un monito alle guerre di religione del tempo. Innazitutto gli utopiani hanno molti dei, anche se la maggior parte, “che è anche la più saggia”, ripone la propria fede “in un dio sconosciuto, eterno ed infinito, presente in tutto l’universo ma non materialmente”. Non è il dio cristiano, ma l’eco paolino appare difficilmente occultabile. Ad ogni modo, quanti “non condividono la dottrina cristiana”, che Raffaelle ha introdotto colà, non tentano “di dissuaderne gli altri” né “perseguitano in alcun modo chi vi aderisce". Sin dagli inizi, infatti, Utopo ha "sancito il diritto per chiunque alla libera scelta della religione da praticare, avendo appreso che prima della sua venuta le genti dell’isola erano continuamente in lotta per motivi religiosi”. Dunque, l’eroe eponimo di Utopia aveva pacificato le lotte religiose sull’isola che non c’è. A chi sta parlando Moro? Sicuramente agli europei del tempo. Libertà religiosa significa non poter costringere gli altri “a riconoscere per vero, con la violenza e le pressioni”ciò che ciascuno crede vero.
(url immagine: http://www.liberliber.it/online/wp-content/uploads/2015/03/thomas_more_ritratto.jpg)
Non può dirsi Utopia senza tener conto della sua particolare trama narrativa. In precedenza, vi ho accennato parlando di dispositivo di straniamento così come di escatologia rovesciata. Riprendo, in conclusione, le fila del discorso, anche al fine di migliorare la comprensione di quel che intendo dire. Al termine del suo racconto “fantastico”, Raffaele asserisce “vorrei proprio vedere chi mai oserebbe paragonare una tale giustizia a quella degli altri popoli, nella quale ch’io possa morire se riesco a scorgere il benché minimo segno di equità”. Dunque, Utopia non è la realtà, ma è il regno della giustizia, mentre lo stesso non può certo dirsi della realtà. D’altra parte, che giustizia può dirsi di un sistema sociale ove aristocratici, speculatori, strozzini vivono negli agi “senza fare nulla che possa servire allo stato”? Le cose vanno diversamente sull’isola che non c’è mentre nella nostra realtà, evidentemente, v’è “una cospirazione dei ricchi i quali, nel nome e per conto dell’autorità pubblica, non fanno altro che curare i propri interessi privati”. Eppure, basterebbe poco per curare i mali della nostra società, ovvero bandire “l’uso del denaro”.
Allora, Moro narra di una realtà fittizia ma la costruisce in contrasto con la nostra stessa realtà. Pertanto, il gioco narrativo può dissimulare solo fino ad un certo punto la sua natura velata di critica feroce alla realtà presente. Anziché parlare delle cose ultime, Itlodeo racconta quelle possibili lungo la linea del tempo, ovvero cosa si potrebbe fare per migliorare la società del suo tempo, La linea escatologica non è, quindi, diretta fuori del tempo, ma dentro il tempo stesso. L’intento è evidente nella pagina conclusiva del volumetto. In essa, infatti, si legge che Moro, terminata l’esposizione di Raffaele, ha parecchi dubbi su alcuni costumi di Utopia, in modo particolare sulla guerra, sulla fede, sulla religione, ma, e soprattutto, sulla natura collettivista di quegli ordinamenti. Come a dire che figurarsi se Utopia possa essere una concreta realtà storica! Eppure, eppure, però, “non ho alcuna reticenza a riconoscere che mi piacerebbe venissero adottate qui nei nostri stati molte cose esistenti nella repubblica di Utopia”. Allora, l’isola che non c’è è lo specchio simbolico che riflette i difetti e cosa non va nelle società storiche. È, propriamente, un discorso intorno alle cose ultime delle società storiche e su cosa si potrebbe fare per migliorarle!
(url immagine: http://www.orizzonteuniversitario.it/wp-content/uploads/2012/10/Utopia.jpg)
Un discorso, però, pericoloso, e sotto molti punti di vista, e tale da richiedere un mascheramento narrativo consistente nel sigillare fuori del tempo e fuori dello spazio una tale realtà pericolosa per i delicati equilibri della società inglese del XVI secolo, e per Moro in modo particolare, dato il suo ruolo politico attivo. Infatti, quasi a confortare i turbamenti e le nascenti preoccupazioni dei potenti, lo stesso aggiunge di non avere “molta speranza che avvenga”. Sì, non va bene ed è irrealistico, utopico appunto, intanto però Moro ne parla, innescando inevitabili comparazioni e riflessioni intorno alla bontà del sistema storico in vigore.