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lunedì 27 gennaio 2014

Oggi come ieri ...

"Nulla di tutto ciò può essere di una qualche utilità per comprendere l'evento che ha nome Auschwitz. Non vi è più posto per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa e pena, o per termini come testi­monianza, prova, e speranza di salvezza, e neppure per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione"

(H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 200413, p. 21)

Meditazione jonasiana su luoghi jobici di "messa alla prova" e di tremendum storico.

Oggi, 27 Gennaio 2014.

Ieri, 27 Gennaio 1945.



(immagine tratta da: http://www.hajrtp.org/images/arbeit_macht_frei_1.jpg)


(per approfondire il discorso jonasiano, clicca qui)

venerdì 7 dicembre 2012

Paralipomena



(immagine tratta da: http://www.foryou.it/is-bin/intershop.static/WFS/MSH-ByMe_Shop-Site/MSH/it_IT/360/000/000/000/000/349/349456_O.jpg)



Nel discutere recentemente l'eresia teologica di Jonas, ho colpevolmente mancato di allargare ulteriormente lo sguardo sull'opzione emerneutica proposta nello specifico. Oltre a scusarmene, me ne occupo adesso.


Jonas sostiene un'idea di Dio profondamente diversa dalla tradizione scolastica ebraica e dalle immagini che possiamo desumere dalla lettura della Bibbia: Dio, nel momento originario ed iniziale della Creazione del mondo ex nihilo, si è ritratto in sé stesso, dando luogo ad una contrazione nel proprio intimo, sprofondando dentro di sé e autolimitandosi in base ad una Sua imperscrutabile quanto libera scelta. 


Come detto in quella precedente occasione, Jonas attinge, nella formulazione di tale idea, a piene mani nel "sottobosco" teologico della Qabbalah, conducendo alle estreme conseguenze le riflessioni di Luria. Infatti, come riconosce lui stesso, il

mito porta alle estreme conseguenze l'idea dello Tzitzùm, concetto cosmogonico centrale nella Qabbalah luriana[1]


Per di più, la contrazione di Dio in sé stesso rende possibile l'esistenza di una realtà ulteriore ad Esso. Come aggiunge, infatti, sempre Jonas:


Senza questo ritrarsi in se stesso, nessuna realtà diversa sarebbe stata possibile al di fuori di Dio e solo un'ulteriore contrazione consente alle cose finite di restare in se stesse, di non perdere nuovamente l'essere che è loro proprio nel divenire “tutto in tutto”[2]


Sin qui l'opzione luriana, vertice speculativa della teologia ebraica marginale e non ufficiale, ma Jonas va anche oltre. Infatti, «Il mio mito va ben oltre questa concezione. La contrazione è totale; in quanto “l'intero” infinito si aliena nel finito, grazie al proprio potere»[3].



In qualche modo, e radicalmente, Jonas concepisce l'atto originario e creativo di Dio come ritrazione di Quest'ultimo dal mondo stesso, dalla medesima Creazione, lasciando che quest'ultimo possa evolvere e svilupparsi in maniera del tutto arbitraria, ossia libera ed indipendente, vincolandola esclusivamente al richiamo “morale” della responsabilità: prendersi cura di sé stesso. Ciò se da un lato rende conto della spiccata curvatura etica di molti autori d'origine ebraica dall'altro fornisce una chiave di lettura universale non soltanto della Shoah, ma anche dell'intera storia umana, costellata e caratterizzata dalla sofferenza, dal dolore, dal male, dall'ingiustizia banale ed arbitraria. Infatti,

Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all'uomo dare. E l'uomo può dare, se nei sentieri della vita si cura che non accada o non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del mondo[4]



La chiave ermeneutica proposta da Jonas consente di rispondere in maniera nuova all'antica domanda di Giobbe, di sortire nuove interpretazioni circa la classica contesa del giusto con Dio. Nelle stesse parole di Jonas:

tale è anche ogni risposta alla domanda di Giobbe. La mia risposta tuttavia è diametralmente opposta a quella del libro omonimo della Bibbia. Mentre essa si richiama alla sua rinuncia alla pienezza di potenza del Dio creatore, la mia si richiama alla sua rinuncia alla potenza[5]



E tuttavia, comunque,

l'una e l'altra intendono lodare e glorificare Dio: la rinuncia avvenne infatti acciocché noi potessimo essere. Anche questa, almeno così a me pare, è una risposta a Giobbe: il fatto che in lui Dio stesso soffre[6]



Come detto in precedenza, la proposta teologica di Jonas, decisamente eretica nel contenuto, e problematica da un punto di vista esclusivamente teologico, affonda le proprie radici in quel sottobosco teologico che è la Qabbalah ebraica. Così,

Jonas propone di pensare Dio dopo Auschwitz a partire dal mito della creazione del mondo secondo la qabbalah: per rendere possibile l'esistenza del mondo e dell'uomo, Dio ha alienato la propria infinità, si è contratto (tzitzùm), ripiegandosi su di sé, sprofondando nella parte più nascosta ed intima del proprio essere, per lasciare spazio alla creazione[7]



Emerge, pertanto, una nuova idea di Dio, nettamente diversa, e distante, da quella comunemente tramandata e narrata nel Libro:

l'immagine di un Dio che rischia con l'uomo, che soffre con le sue creature, che prova forti sentimenti … pena, odio, rancore, pentimento, ira, amore … è un Dio che diviene insieme con l'uomo, si è temporalizzato, si prende cura, si preoccupa[8]



L'idea di un “Dio debole” è molto ricorrente nelle prospettive teologiche del XX secolo, non esclusivamente quelle ebraiche, ma anche cristiane. Forse, molto in parte, ciò è anche dipeso dalla necessità di fare i conti con la sciagura della Shoah, ma soprattutto dalla progressiva erosione morale e spirituale che nelle coscienze degli uomini occidentali ha operato la secolarizzazione, facendo mettere tra parentesi qualsiasi possibile assenso nei confronti delle narrazioni religiose, instillando non tanto il dubbio, quanto piuttosto l'incredulità, non tanto la negazione, quanto piuttosto il distacco.
Ad ogni modo, il discorso di Jonas è puntuale e netto nella sue argomentazioni. Infatti,

Dio ha rinunciato alla propria onnipotenza nel momento in cui si è contratto per fare spazio alla creazione. Dio potrebbe essere onnipotente, fa parte della sua natura: ha scelto di non esserlo per permettere all'uomo di essere pienamente libero e responsabile della propria esistenza[9]





Questo Dio così debole, così impotente davanti alla potenza immane della sua stessa creazione, lo rende, per così dire, certamente “più umano” dal momento che si tratta di «un Essere che condivide il destino delle vittime e soffre con loro»[10], è un «Dio in esilio, un rifugiato nel mondo, impotente ed abbandonato come tutti i profughi»[11], questo stesso Dio, così tratteggiato, «ha bisogno dell'uomo, cui tocca ormai la realizzazione del tiqqun, la restaurazione dell'unità originaria spezzata dalla «rottura dei vasi». L'uomo è pienamente responsabile della creazione»[12].


Da “alleato”, perché a ciò scelto dall'alto, l'uomo diviene così “compagno” delle sorti del mondo stesso, responsabile e chiamato in causa direttamente via la debolezza che Dio si è imposta liberamente. 


Questo Dio, pertanto, ha «affidato all'uomo l'incarico di compiere miracoli»[13], abdicato, una volta e per tutte, alla sua originaria potenza.



Cosa comporta, pertanto, la Shoah per la teologia ebraica? È ancora possibile fare teologia dopo Auschwitz? Secondo Turoldo viene meno la possibilità stessa di una teodicea, ossia di un discorso sulla giustizia in grado di render conto del male nel mondo pur esistendo un Dio buono, onnipotente e comprensibile. Infatti,

Jonas sostiene che se il male esiste, allora Dio non può essere insieme buono, onnipotente e comprensibile. Per questo, egli sceglie di sacrificare l'attributo dell'onnipotenza, spinto anche dalla presunta contraddittorietà di questo concetto[14]



Dopo Auschwitz bisogna «negare alla radice ogni possibile teodicea»[15]. Motivo in più per riconoscere come

il lascito teologico più importante di Jonas non sia tanto l'idea del Dio impotente, da più parti contestata, ma l'idea di un Dio che si affida totalmente all'uomo, rendendolo responsabile della sua creazione[16]



La presente appare, così, più una «teologia della responsabilità»[17] che una teologia della divinità depotenziata.







(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/6/67/Yellow_star_Jude_Jew.svg/150px-Yellow_star_Jude_Jew.svg.png)


Tuttavia, mi sia consentita quest'ultima chiusa per nulla accondiscendente con la sia pur suggestiva ipotesi teologica eretica di Jonas: una divinità siffatta è forse di qualche conforto per il giusto che ad Auschwitz, e in consimili circostanze storiche, ha sofferto ingiustamente? Forse, ha ragione Garaventa quando, proprio commentanto tale costruzione jonasiana, afferma;

In realtà con la sua idea di un Dio impotente Jonas toglie agli uomini ogni speranza in un'autoaffermazione della potenza e della signoria di Dio sui mali di questo mondo (Auschwitz compreso) e, quindi, di riscatto per tutti gli innocenti caduti nel corso della storia[18]

Forse, allora, il "balbettio"[19] di Jonas appare meno neutrale di quanto possa magari sembrare nel condurre il suo discorso "temerario" sulla natura di Dio, buono e comprensibile, ma debole, un'opzione ermeneutica fortemente in contrasto con la lettera stessa della Bibbia ove mai Dio si mostra debole o impotente, e dove si legge come la Creazione stessa avvenga senza autolimitazione divina ma, al contrario, per potenza di Dio, per sovrabbondanza d'essere.

Note

[1] Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 2004, pp. 38 - 9.
[2] Ivi, pp. 39 – 40.
[3] Ivi, p. 40.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 41.
[6] Ibidem.
[7] Cfr. M. Dal Maso, Pensare Dio dopo Auschwitz? Il pensiero ebraico di fronte alla Shoah, Messaggero di Sant'Antonio, Padova, 2007, p. 189.
[8] Ivi, p. 190.
[9] Ivi, pp. 193 – 194.
[10] Ivi, p. 195.
[11] Ibidem.
[12] Supra.
[13] Ivi, p. 196.
[14] Cfr. F. Turoldo, Il concetto di Dio dopo Auschwitz nella riflessione di Hans Jonas, in I. Adinolfi, Dopo la Shoah. Un nuovo inizio per il pensiero, Carocci, Roma, 2011, p. 285.
[15] Ivi, pp. 285 – 286.
[16] Ivi, p. 288.
[17] Ibidem.
[18] Cfr. R. Garaventa, La crisi della teodicea in Wolfang Hildensheimer e Elie Wiesel, in I. Adinolfi,Dopo la Shoah. Un nuovo inizio per il pensiero, Carocci, Roma, 2011, p. 90.
[19] Cfr. H. Jonas, op. cit., p. 41.
[20] Gn 1 - 2.


sabato 1 dicembre 2012

L'eresia di Jonas ...

Nell'affrontare, come parte della cultura ebraica di origine, il problema del Male, che ha assurto a livello inusitato ad Auschwitz, il famoso filosofo Jonas si lascia andare al seguente ragionamento:

Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo sffermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile [...] Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere la presenza del male; e il male c'è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c'è il male[1]

Il ragionamento precedente verte sulla difficoltà di porre in relazione tre diversi, e canonici, attributi divini: 1) l'onnipotenza; 2) la bontà; e, 3) la comprensibilità. Partendo da questa relazione asimettrica, Jonas conclude che se possiamo considerare Dio buono e comprensibile, per poter spiegare la presenza del malum mundi dobbiamo, per forza, rinunciare all'attributo (1): il male è nel mondo perché Dio non è affatto onnipotente.

Si tratta di un ragionamento assolutamente eretico da parte di Jonas che fa a pugni con una tradizione consolidata. Tuttavia, nel fornire il suo frammento di teologia speculativa[2], quel tentativo che lui stesso definì un "balbettio"[3], egli si riallaccia ad una certa tradizione ebraica eterodossa, in special modo alla dottrina dello tzimtzum e alla metafisica luriana, sostenitori di un'idea di divinità fortemente depotenziata, in grado di rendere possibile da un lato la presenza divina e dall'altro la presenza del male.

Sicuramente, infatti, va detto che il tentativo speculativo jonasiano ha origine dalla tragedia ebraica del XX secolo: la Shoah. A partire da questa, molte energie intellettuali, ma anche morali, sono state dirette a ripensare la cultura ebraica dopo i nuovi tremendi segni del tempo, investendo in questa nuova ricerca di senso la stessa teologia. Direzione questa che ha portato la quasi totalità degli intellettuali ebrei a considerare l'Olocausto una vera e propria cesura, un punto di non ritorno, una frattura nella storia del popolo ebraico sulla scena del mondo[4].

Ma il male è nel mondo sin dagli inizi del tempo, e della storia. Il problema della coscienza ebraica è, a mio sommesso parere, la necessità di trovare un senso alla perfetta gratuità con la quale il più colossale tentativo di liquidarne l'esistenza stessa è stato messo in atto. Da qui, di conseguenza, il problema del "silenzio"[5], dell'incomprensibilità insinuatasi dentro il mondo stesso, la scomparsa del linguaggio, l'assenza di Dio dalla storia.

Il temerario discorso Jonasiano sulla natura di Dio incontra gli stessi limiti che è possibile incontrare in un qualsiasi altro discorso sulla natura di Dio: si parla di come Dio dovrebbe essere in sè, in quanto Dio, o di come Dio dovrebbe essere per noi, in quanto Dio secondo noi? La natura ostica della teologia si palesa in questa sede in tutta la sua problematicità: Jonas parla di Dio, in quanto Dio? O ne fa dipendere la tipicità in funzione dell'immanenza storica?


Considerare Dio impotente significa considerarlo soggiogato alla forza della sua creazione, il che è non solo blasfemo, ma anche stupido: quale Dio potrebbe qualificarsi in questi termini?

Penso, piuttosto, che manchi nella coscienza ebraica, per come strutturatasi in così tanti secoli, l'idea della libertà concessa alla creazione, un tema meditato più nella cultura cristiana che in quella ebraica. Infatti, il male potrebbe benissimo essere il risultato dell'interazione libera tra la libertà delle creature, da un lato, e la finitezza delle stesse, dall'altro lato.

Quel che, in tal caso, si rimprovera a Dio, si osa rimproverare a Dio, in una movenza in apparenza blasfema, ma che trova celebri antesignani nella cultura ebraica, si pensi a mero titolo di esempio a Giobbe, di aver eclissato la sua potenza, di aver taciuto davanti ad Auschwitz, di non aver onorato il suo Patto con Israele, con il popolo che Lui stesso ha eletto a garanzia dell'umanità sulla Terra.

Non trovando colpe che giustifichino l'accanimento della Shoah, il problema del male si riflette sull'origine, ossia su Dio, cerando di ridefinirne i contorni: o buono, comprensibile, ma impotente; oppure, onnipotente, comprensibile ma non buono; oppure, ancora, onnipotente, buono, ma incomprensibile. Questo, però, vuol dire commettere l'errore a suo tempo denunciato da Senofane: costruirsi un'immagine troppo umana della divinità. Se i bovini avessero una divinità la penserebbero con fattezze bovine ...

Jonas umanizza così Dio, facendone però la pallida ombra del Dio della Bibbia, concependolo come un oggetto ideale da porre in relazione alla tormentata storia umana, anziché come termine di correlazione per la stessa. Il medesimo errore denunciato da Arata: stiamo facendo un discorso su Dio, in quanto Dio, o su Dio, in quanto termine speculare dell'umanità?[6]

L'eresia di Jonas è presto depotenziata: messo in chiaro che la divinità chiamata in causa non è il Dio della Bibbia, ma il Dio dei filosofi, ecco che i rischi della speculazione in atto vengono meno. Detto altrimenti, a dispetto delle energie spese nella causa, il problema del male rimane dov'era: al centro della creazione, enigmaticamente, misteriosamente quanto potentemente presente in mezzo al creato.

Si può, però, convenire con Jonas, sul fatto che il mistero del male nel mondo costituisce una formidabile sfida per qualsiasi teodicea. Solo che, coerentemente con il presupposto ebraico post Shoah, egli ritiene che non sia più possibile condurre discorsi di teodicea alla stessa maniera con cui li si facevano in precedenza.

Porre limes di questo genere, tra "prima" e "dopo" non facilita le cose, ma le complica in quanto pone una scadenza temporale ai discorsi umani. Sarebbe, forse, più saggio farne a meno, e valutare la bontà delle argomentazioni guardandole in sé.


(immagine tratta da: http://www.filosofico.net/jonas.jpg)


Note

[1] Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dipo Auschwitz. una voce ebraica, Il melangolo, Genova, 2004, p. 35.
[2] ivi, p. 19.
[3] Ivi, p. 41.
[4] Cfr. E. H. Fackenheim, Olocausto, Morcelliana, Brescia, 2012, p. 17.
[5] Cfr. M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie dell'Olocausto», Morcelliana, Brescia, 1998, pp. 20 – 1: «Raccontare è comunicare un senso. È più che scommettere che la propria parola arrivi sensata e credibile all'altro: è un vero e proprio atto di fede. Dubitare di questa narrabilità è dubitare che il narrabile sia sensato e credibile. Se Auschwitz è il regno del non – senso […] ci troviamo dinanzi all'impossibilità strutturale di trovare un linguaggio che risponda ai caratteri propri di ogni linguaggio umano. Siamo condannati al non-linguaggio, al silenzio perpetuo. La cifra del silenzio perpetuo è la stessa cifra del non-senso: è la morte. Chi può negare che qui stia la radice di ogni scacco alla ragione e alla parola? Poiché Auschwitz fu la più grande «festa della morte» che l'uomo abbia allestito per l'uomo nel corso della storia (in così pochi anni!), questo luogo assurge […] a cifra del silenzio perpetuo. Nessuno simbolo ha diritto a rappresentarlo – cioè, nessun simbolo del senso. Dare un senso ad Auschwitz è idolatria, è blasfemia […] Auschwitz è e deve restare la cifra della negazione di ogni senso – umano o divino che sia».
[6] Cfr. C. Arata, Dio oltre il principio di non contraddizione, Morcelliana, Brescia, 2009.