Nell'affrontare, come parte della cultura ebraica di origine, il problema del Male, che ha assurto a livello inusitato ad Auschwitz, il famoso filosofo Jonas si lascia andare al seguente ragionamento:
Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo sffermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile [...] Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere la presenza del male; e il male c'è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c'è il male[1]
Il ragionamento precedente verte sulla difficoltà di porre in relazione tre diversi, e canonici, attributi divini: 1) l'onnipotenza; 2) la bontà; e, 3) la comprensibilità. Partendo da questa relazione asimettrica, Jonas conclude che se possiamo considerare Dio buono e comprensibile, per poter spiegare la presenza del malum mundi dobbiamo, per forza, rinunciare all'attributo (1): il male è nel mondo perché Dio non è affatto onnipotente.
Si tratta di un ragionamento assolutamente eretico da parte di Jonas che fa a pugni con una tradizione consolidata. Tuttavia, nel fornire il suo frammento di teologia speculativa[2], quel tentativo che lui stesso definì un "balbettio"[3], egli si riallaccia ad una certa tradizione ebraica eterodossa, in special modo alla dottrina dello tzimtzum e alla metafisica luriana, sostenitori di un'idea di divinità fortemente depotenziata, in grado di rendere possibile da un lato la presenza divina e dall'altro la presenza del male.
Sicuramente, infatti, va detto che il tentativo speculativo jonasiano ha origine dalla tragedia ebraica del XX secolo: la Shoah. A partire da questa, molte energie intellettuali, ma anche morali, sono state dirette a ripensare la cultura ebraica dopo i nuovi tremendi segni del tempo, investendo in questa nuova ricerca di senso la stessa teologia. Direzione questa che ha portato la quasi totalità degli intellettuali ebrei a considerare l'Olocausto una vera e propria cesura, un punto di non ritorno, una frattura nella storia del popolo ebraico sulla scena del mondo[4].
Ma il male è nel mondo sin dagli inizi del tempo, e della storia. Il problema della coscienza ebraica è, a mio sommesso parere, la necessità di trovare un senso alla perfetta gratuità con la quale il più colossale tentativo di liquidarne l'esistenza stessa è stato messo in atto. Da qui, di conseguenza, il problema del "silenzio"[5], dell'incomprensibilità insinuatasi dentro il mondo stesso, la scomparsa del linguaggio, l'assenza di Dio dalla storia.
Il temerario discorso Jonasiano sulla natura di Dio incontra gli stessi limiti che è possibile incontrare in un qualsiasi altro discorso sulla natura di Dio: si parla di come Dio dovrebbe essere in sè, in quanto Dio, o di come Dio dovrebbe essere per noi, in quanto Dio secondo noi? La natura ostica della teologia si palesa in questa sede in tutta la sua problematicità: Jonas parla di Dio, in quanto Dio? O ne fa dipendere la tipicità in funzione dell'immanenza storica?
Considerare Dio impotente significa considerarlo soggiogato alla forza della sua creazione, il che è non solo blasfemo, ma anche stupido: quale Dio potrebbe qualificarsi in questi termini?
Penso, piuttosto, che manchi nella coscienza ebraica, per come strutturatasi in così tanti secoli, l'idea della libertà concessa alla creazione, un tema meditato più nella cultura cristiana che in quella ebraica. Infatti, il male potrebbe benissimo essere il risultato dell'interazione libera tra la libertà delle creature, da un lato, e la finitezza delle stesse, dall'altro lato.
Quel che, in tal caso, si rimprovera a Dio, si osa rimproverare a Dio, in una movenza in apparenza blasfema, ma che trova celebri antesignani nella cultura ebraica, si pensi a mero titolo di esempio a Giobbe, di aver eclissato la sua potenza, di aver taciuto davanti ad Auschwitz, di non aver onorato il suo Patto con Israele, con il popolo che Lui stesso ha eletto a garanzia dell'umanità sulla Terra.
Non trovando colpe che giustifichino l'accanimento della Shoah, il problema del male si riflette sull'origine, ossia su Dio, cerando di ridefinirne i contorni: o buono, comprensibile, ma impotente; oppure, onnipotente, comprensibile ma non buono; oppure, ancora, onnipotente, buono, ma incomprensibile. Questo, però, vuol dire commettere l'errore a suo tempo denunciato da Senofane: costruirsi un'immagine troppo umana della divinità. Se i bovini avessero una divinità la penserebbero con fattezze bovine ...
Jonas umanizza così Dio, facendone però la pallida ombra del Dio della Bibbia, concependolo come un oggetto ideale da porre in relazione alla tormentata storia umana, anziché come termine di correlazione per la stessa. Il medesimo errore denunciato da Arata: stiamo facendo un discorso su Dio, in quanto Dio, o su Dio, in quanto termine speculare dell'umanità?[6]
L'eresia di Jonas è presto depotenziata: messo in chiaro che la divinità chiamata in causa non è il Dio della Bibbia, ma il Dio dei filosofi, ecco che i rischi della speculazione in atto vengono meno. Detto altrimenti, a dispetto delle energie spese nella causa, il problema del male rimane dov'era: al centro della creazione, enigmaticamente, misteriosamente quanto potentemente presente in mezzo al creato.
Si può, però, convenire con Jonas, sul fatto che il mistero del male nel mondo costituisce una formidabile sfida per qualsiasi teodicea. Solo che, coerentemente con il presupposto ebraico post Shoah, egli ritiene che non sia più possibile condurre discorsi di teodicea alla stessa maniera con cui li si facevano in precedenza.
Porre limes di questo genere, tra "prima" e "dopo" non facilita le cose, ma le complica in quanto pone una scadenza temporale ai discorsi umani. Sarebbe, forse, più saggio farne a meno, e valutare la bontà delle argomentazioni guardandole in sé.
Note
[1] Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dipo Auschwitz. una voce ebraica, Il melangolo, Genova, 2004, p. 35.
[2] ivi, p. 19.
[3] Ivi, p. 41.
[4] Cfr. E. H. Fackenheim, Olocausto, Morcelliana, Brescia, 2012, p. 17.
[5] Cfr. M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie dell'Olocausto», Morcelliana, Brescia, 1998, pp. 20 – 1: «Raccontare è comunicare un senso. È più che scommettere che la propria parola arrivi sensata e credibile all'altro: è un vero e proprio atto di fede. Dubitare di questa narrabilità è dubitare che il narrabile sia sensato e credibile. Se Auschwitz è il regno del non – senso […] ci troviamo dinanzi all'impossibilità strutturale di trovare un linguaggio che risponda ai caratteri propri di ogni linguaggio umano. Siamo condannati al non-linguaggio, al silenzio perpetuo. La cifra del silenzio perpetuo è la stessa cifra del non-senso: è la morte. Chi può negare che qui stia la radice di ogni scacco alla ragione e alla parola? Poiché Auschwitz fu la più grande «festa della morte» che l'uomo abbia allestito per l'uomo nel corso della storia (in così pochi anni!), questo luogo assurge […] a cifra del silenzio perpetuo. Nessuno simbolo ha diritto a rappresentarlo – cioè, nessun simbolo del senso. Dare un senso ad Auschwitz è idolatria, è blasfemia […] Auschwitz è e deve restare la cifra della negazione di ogni senso – umano o divino che sia».
[6] Cfr. C. Arata, Dio oltre il principio di non contraddizione, Morcelliana, Brescia, 2009.
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