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venerdì 7 dicembre 2012

Paralipomena



(immagine tratta da: http://www.foryou.it/is-bin/intershop.static/WFS/MSH-ByMe_Shop-Site/MSH/it_IT/360/000/000/000/000/349/349456_O.jpg)



Nel discutere recentemente l'eresia teologica di Jonas, ho colpevolmente mancato di allargare ulteriormente lo sguardo sull'opzione emerneutica proposta nello specifico. Oltre a scusarmene, me ne occupo adesso.


Jonas sostiene un'idea di Dio profondamente diversa dalla tradizione scolastica ebraica e dalle immagini che possiamo desumere dalla lettura della Bibbia: Dio, nel momento originario ed iniziale della Creazione del mondo ex nihilo, si è ritratto in sé stesso, dando luogo ad una contrazione nel proprio intimo, sprofondando dentro di sé e autolimitandosi in base ad una Sua imperscrutabile quanto libera scelta. 


Come detto in quella precedente occasione, Jonas attinge, nella formulazione di tale idea, a piene mani nel "sottobosco" teologico della Qabbalah, conducendo alle estreme conseguenze le riflessioni di Luria. Infatti, come riconosce lui stesso, il

mito porta alle estreme conseguenze l'idea dello Tzitzùm, concetto cosmogonico centrale nella Qabbalah luriana[1]


Per di più, la contrazione di Dio in sé stesso rende possibile l'esistenza di una realtà ulteriore ad Esso. Come aggiunge, infatti, sempre Jonas:


Senza questo ritrarsi in se stesso, nessuna realtà diversa sarebbe stata possibile al di fuori di Dio e solo un'ulteriore contrazione consente alle cose finite di restare in se stesse, di non perdere nuovamente l'essere che è loro proprio nel divenire “tutto in tutto”[2]


Sin qui l'opzione luriana, vertice speculativa della teologia ebraica marginale e non ufficiale, ma Jonas va anche oltre. Infatti, «Il mio mito va ben oltre questa concezione. La contrazione è totale; in quanto “l'intero” infinito si aliena nel finito, grazie al proprio potere»[3].



In qualche modo, e radicalmente, Jonas concepisce l'atto originario e creativo di Dio come ritrazione di Quest'ultimo dal mondo stesso, dalla medesima Creazione, lasciando che quest'ultimo possa evolvere e svilupparsi in maniera del tutto arbitraria, ossia libera ed indipendente, vincolandola esclusivamente al richiamo “morale” della responsabilità: prendersi cura di sé stesso. Ciò se da un lato rende conto della spiccata curvatura etica di molti autori d'origine ebraica dall'altro fornisce una chiave di lettura universale non soltanto della Shoah, ma anche dell'intera storia umana, costellata e caratterizzata dalla sofferenza, dal dolore, dal male, dall'ingiustizia banale ed arbitraria. Infatti,

Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all'uomo dare. E l'uomo può dare, se nei sentieri della vita si cura che non accada o non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del mondo[4]



La chiave ermeneutica proposta da Jonas consente di rispondere in maniera nuova all'antica domanda di Giobbe, di sortire nuove interpretazioni circa la classica contesa del giusto con Dio. Nelle stesse parole di Jonas:

tale è anche ogni risposta alla domanda di Giobbe. La mia risposta tuttavia è diametralmente opposta a quella del libro omonimo della Bibbia. Mentre essa si richiama alla sua rinuncia alla pienezza di potenza del Dio creatore, la mia si richiama alla sua rinuncia alla potenza[5]



E tuttavia, comunque,

l'una e l'altra intendono lodare e glorificare Dio: la rinuncia avvenne infatti acciocché noi potessimo essere. Anche questa, almeno così a me pare, è una risposta a Giobbe: il fatto che in lui Dio stesso soffre[6]



Come detto in precedenza, la proposta teologica di Jonas, decisamente eretica nel contenuto, e problematica da un punto di vista esclusivamente teologico, affonda le proprie radici in quel sottobosco teologico che è la Qabbalah ebraica. Così,

Jonas propone di pensare Dio dopo Auschwitz a partire dal mito della creazione del mondo secondo la qabbalah: per rendere possibile l'esistenza del mondo e dell'uomo, Dio ha alienato la propria infinità, si è contratto (tzitzùm), ripiegandosi su di sé, sprofondando nella parte più nascosta ed intima del proprio essere, per lasciare spazio alla creazione[7]



Emerge, pertanto, una nuova idea di Dio, nettamente diversa, e distante, da quella comunemente tramandata e narrata nel Libro:

l'immagine di un Dio che rischia con l'uomo, che soffre con le sue creature, che prova forti sentimenti … pena, odio, rancore, pentimento, ira, amore … è un Dio che diviene insieme con l'uomo, si è temporalizzato, si prende cura, si preoccupa[8]



L'idea di un “Dio debole” è molto ricorrente nelle prospettive teologiche del XX secolo, non esclusivamente quelle ebraiche, ma anche cristiane. Forse, molto in parte, ciò è anche dipeso dalla necessità di fare i conti con la sciagura della Shoah, ma soprattutto dalla progressiva erosione morale e spirituale che nelle coscienze degli uomini occidentali ha operato la secolarizzazione, facendo mettere tra parentesi qualsiasi possibile assenso nei confronti delle narrazioni religiose, instillando non tanto il dubbio, quanto piuttosto l'incredulità, non tanto la negazione, quanto piuttosto il distacco.
Ad ogni modo, il discorso di Jonas è puntuale e netto nella sue argomentazioni. Infatti,

Dio ha rinunciato alla propria onnipotenza nel momento in cui si è contratto per fare spazio alla creazione. Dio potrebbe essere onnipotente, fa parte della sua natura: ha scelto di non esserlo per permettere all'uomo di essere pienamente libero e responsabile della propria esistenza[9]





Questo Dio così debole, così impotente davanti alla potenza immane della sua stessa creazione, lo rende, per così dire, certamente “più umano” dal momento che si tratta di «un Essere che condivide il destino delle vittime e soffre con loro»[10], è un «Dio in esilio, un rifugiato nel mondo, impotente ed abbandonato come tutti i profughi»[11], questo stesso Dio, così tratteggiato, «ha bisogno dell'uomo, cui tocca ormai la realizzazione del tiqqun, la restaurazione dell'unità originaria spezzata dalla «rottura dei vasi». L'uomo è pienamente responsabile della creazione»[12].


Da “alleato”, perché a ciò scelto dall'alto, l'uomo diviene così “compagno” delle sorti del mondo stesso, responsabile e chiamato in causa direttamente via la debolezza che Dio si è imposta liberamente. 


Questo Dio, pertanto, ha «affidato all'uomo l'incarico di compiere miracoli»[13], abdicato, una volta e per tutte, alla sua originaria potenza.



Cosa comporta, pertanto, la Shoah per la teologia ebraica? È ancora possibile fare teologia dopo Auschwitz? Secondo Turoldo viene meno la possibilità stessa di una teodicea, ossia di un discorso sulla giustizia in grado di render conto del male nel mondo pur esistendo un Dio buono, onnipotente e comprensibile. Infatti,

Jonas sostiene che se il male esiste, allora Dio non può essere insieme buono, onnipotente e comprensibile. Per questo, egli sceglie di sacrificare l'attributo dell'onnipotenza, spinto anche dalla presunta contraddittorietà di questo concetto[14]



Dopo Auschwitz bisogna «negare alla radice ogni possibile teodicea»[15]. Motivo in più per riconoscere come

il lascito teologico più importante di Jonas non sia tanto l'idea del Dio impotente, da più parti contestata, ma l'idea di un Dio che si affida totalmente all'uomo, rendendolo responsabile della sua creazione[16]



La presente appare, così, più una «teologia della responsabilità»[17] che una teologia della divinità depotenziata.







(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/6/67/Yellow_star_Jude_Jew.svg/150px-Yellow_star_Jude_Jew.svg.png)


Tuttavia, mi sia consentita quest'ultima chiusa per nulla accondiscendente con la sia pur suggestiva ipotesi teologica eretica di Jonas: una divinità siffatta è forse di qualche conforto per il giusto che ad Auschwitz, e in consimili circostanze storiche, ha sofferto ingiustamente? Forse, ha ragione Garaventa quando, proprio commentanto tale costruzione jonasiana, afferma;

In realtà con la sua idea di un Dio impotente Jonas toglie agli uomini ogni speranza in un'autoaffermazione della potenza e della signoria di Dio sui mali di questo mondo (Auschwitz compreso) e, quindi, di riscatto per tutti gli innocenti caduti nel corso della storia[18]

Forse, allora, il "balbettio"[19] di Jonas appare meno neutrale di quanto possa magari sembrare nel condurre il suo discorso "temerario" sulla natura di Dio, buono e comprensibile, ma debole, un'opzione ermeneutica fortemente in contrasto con la lettera stessa della Bibbia ove mai Dio si mostra debole o impotente, e dove si legge come la Creazione stessa avvenga senza autolimitazione divina ma, al contrario, per potenza di Dio, per sovrabbondanza d'essere.

Note

[1] Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 2004, pp. 38 - 9.
[2] Ivi, pp. 39 – 40.
[3] Ivi, p. 40.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 41.
[6] Ibidem.
[7] Cfr. M. Dal Maso, Pensare Dio dopo Auschwitz? Il pensiero ebraico di fronte alla Shoah, Messaggero di Sant'Antonio, Padova, 2007, p. 189.
[8] Ivi, p. 190.
[9] Ivi, pp. 193 – 194.
[10] Ivi, p. 195.
[11] Ibidem.
[12] Supra.
[13] Ivi, p. 196.
[14] Cfr. F. Turoldo, Il concetto di Dio dopo Auschwitz nella riflessione di Hans Jonas, in I. Adinolfi, Dopo la Shoah. Un nuovo inizio per il pensiero, Carocci, Roma, 2011, p. 285.
[15] Ivi, pp. 285 – 286.
[16] Ivi, p. 288.
[17] Ibidem.
[18] Cfr. R. Garaventa, La crisi della teodicea in Wolfang Hildensheimer e Elie Wiesel, in I. Adinolfi,Dopo la Shoah. Un nuovo inizio per il pensiero, Carocci, Roma, 2011, p. 90.
[19] Cfr. H. Jonas, op. cit., p. 41.
[20] Gn 1 - 2.


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