D. Di Cesare – C. Ocone – S.
Regazzoni, Il nuovo realismo è un populismo,
Il Melangolo, Genova, 2013, pp. 110, € 12,00
Il volume
collettaneo che intendo recensire ha solleticato non poco alcune mie
corde umorali, costingendomi a passare repentinamente per stati
emotivi del tutto opposti, dallo “sedgno” al “risentimento”,
dalla “sorpresa” alla “noia”. In modo particolare, e per i
motivi che diverranno chiari in seguito, esso presenta una globale
mancanza di argomenti degni di questo nome a sostegno delle idee che
vengono addotte e uno stile comunicativo a dir poco aggressivo, più
consono, forse, agli sfoghi “da blog” che ad una pubblicazione
che desidera quantomeno il riconoscimento all'attendibilità
scientifica. Ma lo si può benissimo considerare un segno dei
tempi nel senso che è proprio questo grado basso di speculazione e
di comunicazione che incontriamo quasi sempre nella nostra vita
quotidiana. Pertanto, mettiamo da parte queste considerazione, e
concentriamo l'attenzione solamente su quel che di buono penso sia
possibile trovarvi, anche se ciò non comporta il dover sospendere
(quasi) del tutto la buona coscienza critica.
Il
presente volume intende presentarsi come “contro-altare” al
Manifesto di Maurizio
Ferraris, discutendo il “basso” profilo filosofico scelto ed
indicando alcune delle gravi conseguenze, etiche e politiche, che
fanno seguito all'appello alla realtà.
L'intento è chiaro sin dalle prime pagine ove Di Cesare accusa
direttamente Ferraris di essersi creato un brand,
ossia un “marchio” (p. 9), di aver inventato di sana pianta, e a
tavolino, l'operazione “nuovo realismo” al fine, molto
probabilmente, di “emergere nel panorama complessivo e frastalgiato
della filosofia contemporanea” (p. 9). Se comprendo il senso
generale dell'accusa, del tutto incomprensibile mi risulta invece lo
specifico dell'accusa: Ferraris può benissimo essersi inventato
qualcosa nota come “nuovo realismo” ma stento a credere che debba
ancora emergere al di sopra del dibattito filosofico coevo. Non
contenta, la Di Cesare indica subito una caratteristica
dell'etichetta scelta dal Ferraris, “un prodotto tutto nostrano”
(p. 9), ossia la proprietà italiota della provincialità. Da
nessun'altra parte del mondo si parla di new realism,
solo da noi. La Di Cesare insinua sapientemente il dubbio: se altrove
si parla d'altro, di tutto tranne che di “nuovo realismo”, sarà
forse un caso? Non è che, piuttosto, il nuovo realismo
è ben poca cosa? Peraltro, il fatto che non si facciano conferenze o
non si disponga di monografie sull'argomento non è forse indice di
scarsa influenza sul dibattito filosofico? Se così stanno le cose,
come spiegarsi proprio tale marginalità alle discussioni tra
philosophes? Il Nuovo
realismo va “preso sul serio –
non come filosofia, bensì come antifilosofia” (p. 13), come uno
strumento che avvicina
grossolanamente, quanto malamente, il vasto pubblico alla filosofia
ma che evita accuratamente di scendere in profondità. Il suo
pubblico è fatto di gente che ha “difficoltà con i testi dei
filosofi” (p. 13) al quale offre “poche pagine, pochi pensieri”
(p. 13) ma anche grandi “certezze” (p. 13). Cosa offre, dunque,
Ferraris al grande pubblico, digiuno e allergico all'astrattezza
filosofica? Per Di Cesare “a poco prezzo, realtà
e verità” (p. 13).
Detto altrimenti, non richiede chissà che sforzi e ricompensa con il
richiamo a due sole certezze, sempre promesse mai mantenute, si
premura di precisare per inciso l'autrice presente. Questo perché il
nuovo realista “non dialoga con il pubblico dei suoi lettori,
trattati piuttosto come spettatori il cui ruolo è limitato al
plauso” (p. 14). in un mondo sempre più “liquido” ed
ansiogeno, il nuovo realista, alla stregua di un qualunque altro
populista, strappa
applausi da un pubblico poco esigente e superficiale cui importano
esclusivamente appigli saldi
e certezze. Così
Ferraris urla a squarciagola “Bentornata realtà!” così che
“l'intento populistico è raggiunto, il plauso assicurato” (p.
14). A fronte delle inquietudine che si sommano ed aumentano
esponenzialmente, il nuovo realismo “intercetta il bisogno di
certezze” (p. 14), e piuttosto di sottoporre a critica le
(presunte) verità dell'esperienza personale, difende queste ultime
nascondendole di per sé sotto la coltre impenetrabile della realtà
di per sé non disponibile ad alcuna discussione e/o analisi.
Ferraris impone unoa sostanziale “sudditanza alla realtà” (p.
20), mostrando il suo volto reazionario: non distinguere “tra
illusione e immaginazione” (p. 21). D'altra parte, “cerca di
inchiodare l'avversario al fatto” (p. 23), “mitizza il reale”
(p. 23), facendone un idolo e “dietro questa idolatria si trincera
facendone il suo baluardo” (p. 23). negando del tutto qualsiasi
possibilità al dialogo, all'interlocuzione, al dibattito, alla
discussione, Ferraris “non ha nulla di filosofico” (p. 24). A
questo punto, Di Cesare strizza l'occhio agli insoddisfatti
dall'operazione di Ferraris, comprendendo “l'imbarazzo,
l'insofferenza e il malumore suscitati tra quanti hanno preferito non
rispondere, nella speranza e nell'attesa che la fiction volga al
termine” (p. 24). Quali sono allora le conseguenze pratiche del
nuovo realismo? La
risposta è agile e succinta: le sue fantasticherie sviano “dai
temi urgenti” (p. 24), “distraggono dalle grandi questioni
filoosofiche, etiche, politiche” (p. 24). E tuttavia questa
obiezione mi pare facilmente ribaltabile: se il nuovo
realismo è tutto ciò ed ha
queste conseguenze, non sarebbe meglio non parlarne affatto? Invece,
ci troviamo innanzi ad un volume intero il quale, per di più,
dovendo condensare molti spunti non consente di svolgere in maniera
più piana le stesse idee che intende esprimere.
Il
secondo saggio, a firma di Fabio Milazzo, è, credo, l'esempio più
sorprendente ed insieme sconcertante del presente volume. Dopo una
rapida difesa delle esigenze genealogiche del postmodernismo,
così vilipeso dal Manifesto
di Ferraris, Milazzo sostiene come il fondatore del nuovo
realismo parli lasciandosi
sfuggire la concretezza dei temi e degli autori contro i quali
polemizza, ora Lyotard ora Foucault. In realtà, infatti, il
postmodernismo, che fa
da sfondo polemico al Manifesto
è una “maschera carnevalesca” (p. 29), “una sorta di bufala”
(p. 29), peraltro costruita “a tavolino” (p. 29). Il tono di
Milazzo è severo e non parco di giudizi taglienti. Resta da vedere,
però, a mio sommesso parere, se proprio quel che si dice del
Ferraris non possa dirsi di sé stessi. Non pago, aggiunge come “solo
la reificazione del postmoderno in qualcosa di più che una semplice
presa di distanza dalle esaltazioni del razionalismo moderno, fa
sentire il bisogno di rinnovate e ingenue forme di doxa”
(p. 30). Se Ferraris sostituisce al postmodernismo una sua fiction,
non potrebbe forse dirsi altrettanto di questi contributi nei
confronti stavolta del nuovo realismo?
Par si faccia orecchie da mercanti. E qui veniamo ad uno dei
riferimenti più sorprendenti e pure sconcertanti. L'appello
all'esperienza viene
inteso dai presenti autori come un arcaico appello alla scienza
(come a vagheggiare un impossibile ritorno alla modernità).
In forza di ciò, Milazzo espone la sua concezione di scienza:
“accertamento protocollare dei dati di esperienza” (p. 31). Non
ho riletto di recente Ferraris, ma non mi pare che questa sia la sua
concezione di scienza. Che sia la concezione del Milazzo? Ad ogni
buon conto, urge allontanare da sé subito questo pericolo,
addebittando proprio questa “strana” concezione al “realismo
ingenuo” (p. 31). Ed anche qui colgo dei problemi. Infatti, chi
sarebbe tale realista ingenuo? Molto probabilmente, l'autore ha in
mente Ferraris, ma l'attributo 'ingenuo' da dove deriva? In fondo, i
vari autori del presente volume hanno tutti un elemento in comune:
considerare 'ingenuo' il nuovo realismo.
E così facendo, a mio sommesso parere, mancano del tutto l'obiettivo
che sta a cuore del Ferraris. O, per dirla alla maniera cara ai
postmodernisti stessi, tradiscono la verità
del Manifesto. E
tuttavia giudicare ingenuo il richiamo alla realtà fa buon gioco nel
ridurre il realismo al mero riscontro con il reale, chiosando che “ci
sono sicuramente fatti,
ma ci sono soprattutto le interpretazioni”
(p. 31), rigirando cioè a proprio piacimento, e spudoratamente,
proprio la fallacia del sapere-potere
denunciata dal Ferraris. E adesso, last but not least,
Milazzo produce un altro dei riferimenti sorprendenti e pure
sconcertanti dal momento che identifica nelle pagine del Manifesto,
ossia nella visione propria del Ferraris, “il riconoscimento della
verità nella forma unica della teoria della corrispondenza” (p.
31). Si tratta di un riferimento del tutto generico e vago: dire che
una conoscenza è vera se, e solo se, procede ad adeguamento
di pensiero e di realtà temo sia solamente una conoscenza
inadeguata, ossia “per sentito dire”, del canone tomista,
ignorando, molto probabilmente, l'intera discussione che ne è stata
fatta nel corso del XX secolo. Peraltro, se davvero Ferraris aderisce
alla teoria della verità per corrispondenza,
penso non possa derivarsene la sua “ingenuità”. Vale a dire che
la teoria di per sé non è ingenua. Tutto può dirsi, eccetto che
sia ingenua. Allora, perché giudicare ingenuo il realismo se se ne
vale? Delle due l'una: o Milazzo ignora la riflessione epistemologica
sulle teorie della verità oppure non la padroneggia adeguatamente.
Ad ogni buon conto, però, è una grave mancanza che danneggia in
maniera permanente il suo discorso, legato proprio al carattere
deteriore del new realism,
ossia la superficialità
che può produrre solo conoscenze ingenue. Sempre Milazzo
decostruisce poi l'esempio della ciabbatta, addotto dal Ferraris per
spiegare la sua nozione di inemendabilità
del reale per ricostruire due dei caratteri che ritiene di poter
desumere dalla visione di Ferraris: 1) attenzione per il mondo
esterno, indipendentemente dagli schemi conoscitivi del soggetto
conoscente; e, 2) la coincidenza tra realismo
ed ontologia. Ecco che
incontriamo un'altro dei riferimenti sorprendenti e sconcertanti che
affollano in maniera imbarazzante questo testo. Si dice succintamente
che il realismo di Ferraris equivale ad un'ontologia. Benissimo:
quale esattamente? Milazzo non appare in grado di dirlo, propendendo
per una sua sola versione, non a caso, però, considerata esemplare
della disciplina in generale. L'autore sostiene, così, che
l'ontologia consista nel predisporre “un catalogo universale di
tutti gli enti esistenti” (p. 32). A parte il fatto che questa è
l'idea di lavoro, e non ancora una teoria, dell'ontologia cd.
Formale, a sua volta
una parte piccola della metafisica cd.
analitica, non mi pare
che Ferraris sostenga una cosa del genere. D'altra parte, dire
'realtà' non significa affatto repertare gli enti esistenti. Ma,
come accade spesso nella lettura del presente volume, gli autori
sentono subito l'imbarazzo del riferimento incauto (Ferraris dice
questo?) o poco preciso (cosa sarebbe di grazia questa ontologia?) e
scaricano sull'idolo polemico ogni responsabilità teoretica.
Infatti, Milazzo ci dice subito come questa sia l'idea “di
ontologia cara al Manifesto”
(p. 32). E perché? Perché l'autore intende ribaltare la distinzione
realista tra fatti e
intepretazioni, e
mostrare come queste ultime, sia pure messe alla porta, rientrino di
straforo dalla finestra. Infatti, si distingue, e, quindi, s'include
o si esclude, tra enti solo dopo aver proceduto ad interpretare
la conoscenza conseguita. Questo basterebbe di per sé a screditare
il discorso realista, ma a Milazzo non basta. Pertanto, egli si
prodiga nel mostrare come dietro ad ogni nostra conoscenza vi sia un
apparato potente di valutazione
che partecipa attivamente al medesimo processo conoscitivo. Ragion
per cui, dove sta più la conoscenza neutrale? E, di conseguenza, chi
può più dire che una cosa siano i fatti
ed un'altra le interpretazioni?
Ma l'autore non diceva prima che vi sono i fatti e vi sono pure, e in
maniera più importante, le interpretazioni?
Evidentemente preso dalla vis
polemica, deve non essersi accorto della ridondanza espositiva. Più
che un ritorno alla realtà, Milazzo propone un ben più originale, e
non ingenuo, ritorno a
Nietzsche. Così, il mondo non va assunto com'è,
ma bisogna indagnarne piuttosto “le condizioni di esistenza, le
esigenze inconsce a cui rispondono” (p. 39). Più che di verità
cosale, Milazzo ritiene che i fatti siano tali “alla luce di una
certa interpretazione prospettica” (p. 39). La ciabatta di Ferraris
è solo un'oscena fantasia ingenua, effetto di “un'illusione
costituente, di una retroprioezione paradossale, di una ricerca
sempre fallita” (p. 40). In soldoni, una follia consistente “nella
presunzione che questa immagine dogmatica sia quella della sostanza
“ciabatta”, quella naturale” (p. 40). A questo punto, come nel
caso precedente, l'autore conclude il suo saggio additando, a suo
modesto modo di vedere, le conseguenze pratiche del new
realism: “un delirio
totalitario che si serve di una pericolosa alleanza, quella tra il
senso comune e una presunta natura retta del pensiero” (p. 40). Se
così è, per fare cosa? La visione di Milazzo è limpida e netta,
quasi pre – moderna
verrebbe da aggiungere: “per affermare una certa immagine del
pensiero come principio assoluto” (p. 40). Ora che le pagine del
Manifesto denotino una
certa atmosfera eterea, una prosa rarefatta, un apparato documentario
decisamente criptico è sicuramente vero, si tratta di un giudizio
che sento di poter sottoscrivere, ma da qui a mettere capo ad una
costruzione idealistica credo ce ne corra. Ma Milazzo ha l'urgenza
retorica di concludere enfaticamente
il suo contributo, equivocando
in fondo tra 'evidenza' del reale con 'evidenzialismo', concezione di
deciso sapore idealistico ma assente in Ferraris.
Il
terzo autore del volume, Laura Cervellione, intende smascherare
Ferraris, mostrando come sotto la maschera del neorealista si
nasconda il “caro vecchio pragmatista” (p. 41). Anche nel caso
presente si verifica lo spiacevole modo di procedere degli autori
presenti: fornire un'immagine icastica della filosofia neorealista,
e, segnatamente, del Ferraris dopo la Kehre.
Così, dovendo condensare in uno slogan efficace,
per strappare il plauso del vasto pubblico della filosofia pop,
l'autrice definisce il neorealismo “una filosofia Polaroid”
(p. 42). Detto in breve, Ferraris mette in scena una filosofia delle
istantanee: questo è reale; quest'altro no! La pretesa è
commovente, ma stucchevole. Per Cervellione, in sostanza, par di
capire che il nuovo realismo
sia solamente una filosofia vintage,
che ripropone idee e concetti “vecchi”. Si sa, viviamo in tempi
di crisi, riutilizzare potrebbe essere vantaggioso. Così, individua
ben tre differenti ritorni al passato: 1) “il vecchio
corrispondentismo di tomistica memoria” (p. 43); 2) “la
riabilitazione dell'esperienza” (p. 43); e, dulcis in
fundo, 3) Cartesio, e
cartesianesimi di varia natura. Sul primo elemento, penso di aver già
detto quanto v'era da dire, anche se la presenza di questo accenno,
peraltro già operante in Milazzo, e ritornante in seguito negli
altri contributi al volume, mi dà da pensare sulla facilità con la
quale, in generale, tutti gli autori collettanei abbiano omologato il
richiamo alla realtà, inteso anche come assunzione di responsabilità
veridica per i propri pensieri, le proprie esperienze ed anche le
proprie enunciazioni, all'adeguazione tomista. In che termini, poi,
quest'ultima venga riportata esattamente, non è dato sapere.
L'elemento (2), invece, è più interessante perché consente a
Cervellione di cogliere una contraddizione in Ferraris: la correzione
della percezione ha luogo se, e solo se, “sono inserite in un
assetto teorico” (p. 43). Al riguardo, trovo la prospettiva di
Ferraris molto debole, e facilmente criticabile. Tuttavia, mi pare
del tutto arbitrario porre una tale inserzione, o rimando all'amato
modello teorico, in forza della quale, appunto, riesce la
confutazione di Ferraris, a causa della contraddizione in cui
cadrebbe. Il Manifesto
non presenta questo rimando ad un assetto teorico, caro ai
postmodernisti, e che
rende possibile tanto la decostruzione quanto la costruzione.
Veniamo, ora, all'elemento (3), forse, a mio sommesso parere, il meno
originale. Possiamo distinguere tra realtà
e sogno? Questo si
chiedevano gli animi barocchi del '600, e a questi orizzonti pre –
moderni, appunto, l'autrice desidera inchiodare Ferraris, reo, a suo
dire, di “andare a cercare certezze nelle nostre autoconoscenze”
(p. 44), collocando proprio il fondamento saldo di ogni certezza
nell'ontologia. Peccato, però, che Cervellione pensi più a
ironizzare sul Ferraris che a porre a critica il rimando ontico di
Ferraris. Certo per trovare la “realtà” non è certo sufficiente
richiamare ad essa né tantomeno darle il “bentornato”. Come dice
l'autrice, “a trovarla questa realtà” (p. 45). Se Ferraris non
dice nulla, ma proprio nulla, su cosa dovrebbe appunto essere tale
realtà, il suo richiamo, esattamente ciò in cui consiste il new
realism, si trasforma in una
banalità, in un
truismo, ossia in un
riferimento generico alla nostra comune realtà, senza alcun davvero
impegno conoscitivo ulteriore. Peraltro, se così è, l'oggetto del
nuovo realismo, la pretesa realtà, sarebbe un “atteggiamento, non
realtà” (p. 45). Esattamente come nessuno può negare che la
realtà esista, parimenti nessuno può limitarsi a questa semplice, e
banale, verità. A questo punto, l'autrice intende rovesciare
l'accusa che Ferraris muove al postmodernismo, e secondo la quale il
“populismo”, anche quello che attanaglia i nostri destini
nazionali, è il degno figlio del postmoderno, addossando infine al
Ferraris stesso, in una nota figura dialettica del contraddire –
confutare, con rovescio delle posizioni iniziali, la paternità di
questo stato, ossia di giustificare appunto il populismo.
Peraltro, ritengo sia vero che Ferraris ecceda nei suoi sconfinamenti
in terra straniera, per cui, in certa qual misura, credo che
Cervellione sia nel giusto quando afferma che il nuovo
realismo sovrastimi “la
potenza delle attività cerebrali” (p. 51), nel senso che davvero è
difficile accettare l'idea che la mente possa produrre realtà e
dominare per intero quest'ultima. Eccessi che, comunque, davvero è
possibile riscontrare nella confraternita neorealista, che “non
mira a capire la realtà,
quanto piuttosto a trascinarla davanti al giudizio universale” (p.
52). In fondo, infatti, (auto)benedicendosi con l'adeguazione di cosa
e intelletto, mostrarsi come la Ragione “è certamente più facile
di dimostrare di avere ragione” (p. 53).
Il
saggio di Ocone è, a mio modesto modo di vedere, quello più
attrezzato da un punto di vista teorico. Già dall'incipit
trova conferma una mia semplice opinione personale sgorgata dalla
lettura del Manifesto:
e “se il nuovo realismo non fosse altro che l'ultima e più
compiuta forma di postmodernismo, o meglio di “pensiero debole”?”
(p. 55). Questo è vero, e non negato nemmeno da Ferraris. Il punto,
però, è un altro: voler confutare l'intento propositivo dell'autore
del Manifesto al fine
di far collassare l'intero progetto neorealista. Infatti, se il nuovo
realismo è una variante del
postmodernismo, con che coraggio si propone come alternativo a
quest'ultimo? La stringatezza delle pagine in cui Ocone argomenta al
riguardo, però, tradiscono subito l'interesse che suscitano.
L'autore passa velocemente alla trattazione della sua idea
fondamentale, ossia che Ferraris “manipoli” la storia della
filosofia, ovviamente a suo uso e consumo, in maniera da far
risultare alla fine vincente il suo “paradigma” (p. 56). Un tal
modo di procedere, però, mi lascia perplesso, anche perché capisco
le esigenze di spazio, ma un passaggio così brusco può solo far
pensare ad un allusione
che termina esattamente dove comincia. Ma non è certo possibile
pretendere di avere ragione muovendosi solo con allusioni.
Interessante, anche per comprendere il rimando all'adeguazione
tomista tanto in Milazzo quanto in Cervellione è l'inizio della
seconda sezione: “pur negandolo, il pensiero di Ferraris ha molti
legami con certa filosofia medievale, in primo luogo con quella di
Tommaso d'Aquino” (p. 57). Pur mantenendo salva la mia
considerazione al riguardo, Ocone compie un passo in più rispetto ai
colleghi collettanei che l'hanno preceduto dal momento che esplicita
maggiormente questo richiamo. In che senso Ferraris sarebbe tomista?
Nel senso che “ripristina non solo una rigida distinzione fra
pensiero ed essere, ma anche e soprattutto quella logica tomistica
che concepisce la verità come adaequatio rei et
intellectus” (pp. 57 – 8).
Tuttavia non posso che osservare come il paradigma, qui chiamato
tomista, pur molto questionato in tempi non lontani, continui ad
essere considerato come il “più robusto”, e a detta di un
autrice, la D'Agostini, certamente estranea al progetto
neorealistico. D'altra parte, richiamare alla responsabilità
dell'impegno ontologico in nessun caso può venir considerato un
ritorno al passato, un invito retrò
oppure ancora una curiosità antiquaria e bizzarra. Intanto, però,
questo rimando, o, se si preferisce, questa eredità del lessico
filosofico occidentale, sembra disturbare parecchio i difensori
collettanei del postmodernismo.
A parte questo piccolo problema storiografico, comunque, è, a mio
modo di vedere, apprezzabile il rilievo critico che Ocone solleva in
merito al rimando ontologico di Ferraris. Infatti, “sull'idea che
non possa esistere una realtà separata dal pensiero, e viceversa, si
può anche essere in disaccordo […] tuttavia, glissare sul fatto
che comunque vi sia un problema di pensabilità del presupposto
oggettivante […] è veramente, in senso descrittivo e non
vlautativo, non filosofico” (p. 59). In merito, Ocone ha pienamente
ragione. D'altra parte, la natura non argomentativa del Manifesto
non consente di giustificare appieno le proprie presupposizioni e
teorie. Non basta rimandare alla realtà, intesa, e vissuta, come
separata dal pensiero, bisogna anche porsi il problema di come
giustificare la pensabilità della prima da parte della seconda, e
proprio a causa della separazione dell'una e dell'altra. Non
ponendosi la questione, Ferraris compie un atto non
filosofico dal momento che
esclude, peraltro arbitrariamente, dalla discussione alcuni elementi
portanti del suo edificio speculativo. Ma la mancanza di tale
approccio critico è fatale nel voler prendere sul serio l'impresa di
Ferraris. Infatti, un realista che non riflette davvero sui limiti
della propria azione è un realista solo di facciata, oppure un
realista fantastico il quale si accontanta della realtà così com'è,
o, meglio, che si diletta di subire la realtà come viene. Sintomo
questo di una discutibile maniera in forza della quale Ferraris
“piega” la storia della filosofia a suo piacimento. Cosa che
rende non credibile la sua critica alle manipolazioni operate dai
postmoderni dal momento che “anche quelle dei “nuovo realisti”
sono a dir poco spregiudicate” (p. 64).
Lorenzo
Magnani è il quinto autore del presente volume. La sua chiarezza
espositiva oltre che il suo rigore analitico sono a dir poco
apprezzabili. In modo particolare, è degna di nota la scoperta di
una fallacia nascosta tra le righe del Manifesto, la cd.
fallacia ad Hitlerum. Infatti, i neorealisti dicono “se non
si sottoscrive la posizione del realismo ingenuo […], allora
vinceranno sempre i Berlusconi, i Bush” (p. 71). Si tratta, a ben
guardare, di una retorica “che designa una strategia comunicativa
che mira a squalificare qualcosa (in questo caso il postmoderno)
comparandolo ad Adolf Hitler (nel nostro caso al populismo e al
declino dell'Occidente)” (p. 71). Sebbene, veemente a prima vista,
è un'argomentazione in realtà “frolla, astratta e velleitaria”
(p. 71). Per Magnani, infatti, la prospettiva neorealista provoca
scetticismo dal momento che del tutto pretestuosa appare la polemica
con il postmodernismo rispetto al quale, al contrario, tutti noi
dovremmo essere grati per aver reso disponibili all'analisi
filosofica “molti aspetti della realtà umana” (p. 67). Benché
l'autore ritenga comunque sia pur minimamente utile il discorso
neorealistico al mulino della filosofia, tuttavia “molti suoi
obiettivi sembrano mancati” (p. 77). Anzi, proprio attraverso la
querelle postmodernismo – neorealismo “non si intacca
minimamente il populismo, e la filosofia rischia veramente alla fin
fine di essere caricaturizzata e/o banalmente ostracizzata” (pp. 78
– 9).
Simone
Regazzoni è l'ultimo autore del presente volume collettaneo. L'ex
sodale del collettivo Blitris, si propone di decostruire il
nuovo realismo. I suoi elementi fondamentali sarebbero solamente due:
a) il ritorno di “una certa idea di realtà” (p. 83), peraltro
nemmeno nuovissima o originale; e, b) la ripresa del paradigma
corrispondentista di verità. Elementi “sapientemente incorniciati
in una potente operazione mediatica ed editoriale” (p. 83).
Sull'elemento (b) faccio presenti le mie perplessità, peraltro già
debitamente esposte. Invece, sulla potenza mediatica dell'operazione
sento di non poter che concordare: cosa sarebbe stato altrimenti il
nuovo realismo? Solo a queste condizioni, può presentarsi
come ingenuo, e, quindi, godere dei favori del grosso
pubblico. Ma a causa della sua vena profondamente anti-filosofica,
esso “è un'ontologia che sogna di cancellarsi come discorso
teorico e filosofico per diventare, magicamente, “ciò che c'è”:
la realtà stessa, senza discorso” (p. 84). In questo modo,
Regazzoni affonda il colpo finale sostenendo che si tratta di un
movimento certamente interessante ma non per le tesi che sostitene,
quanto, piuttosto, per il “modo in cui è stato sapientemente
incorniciato in una potente narrazione mediatica ed editoriale” (p.
85). Un giudizio severo e, sotto molti aspetti, liquidatorio. In
effetti il nuovo realismo è anche questo, tra le altre cose.
Ma Regazzoni si riserva ancora un'ulteriore stoccata, degna figlia di
questo colpo da maestro: “il primo caso di mockumentary
filosofico […] che si presenta come una fotografia di un ritorno
della realtà che in verità produce” (p. 86). Essendo ben poca
cosa, sia da un punto di vista teorico che storico, il nuovo realismo
può esistere solo nella misura in cui racconta “un sacco di
storie” (p. 88) e il suo mentore si professa “in missione per
conto di Dio” (p. 90). Secondo Regazzoni, quel che emerge
soprattutto nel new realism è “l'ossessione per la realtà”
(p. 89), “una questione di fede” (p. 89), di cui Ferraris si fa
carico “per il bene di tutti” (p. 89). Se così stanno le cose,
come mai tanta visibilità? Per Regazzoni le cose sono
semplici nella loro naturalità: il successo mediatico si deve
all'aver sapientemente intercettato un bisogno editoriale. Infatti,
in fin dei conti, il nuovo realismo è “una filosofia
giornalistica, una filosofia che incorpora il modello critico di un
certo giornalismo di inchiesta che evoca in modo ingenuo i fatti e
che negli ultimi anni, in Italia, è stato l'unico discorso […] a
partire dal cui si è pensato di poter criticare il fenomeno del
berlusconismo come discorso menzognero” (p. 92). Non grandi mete né
alte vette, ma una misera “filosofia giornalistica cresciuta
all'ombra del berlusconismo” (p. 93) del quale Ferraris ha assunto
su di sé l'onere, oltre che l'onore, di tradurre filosoficamente
l'opera del giornalista Travaglio.
Ammetto che le
mie iniziali impressioni si sono evolute nel corso della lettura e
via via che il presente lavoro di recensione progredisse. Tuttavia,
resto comunque perplesso. Tra le molte obiezioni possibili, solo una
resta in piedi in tutta la sua fermezza, oltre che radicalità: se il
nuovo realismo è poca cosa, perché spendere così tanto in
tempo e risorse per dirlo?
L'impressione è che, pur disprezzandolo,
si avverta il bisogno comunque di porsi alla sua ombra,
quantomeno per appagare il medesimo bisogno di visibilità che
si denuncia. Non si tratta di mera critica di deprecabili tendenze
ipocrite, ma riconoscere il legittimo bisogno di una sponda
editoriale, oggi più che mai dato che con la crisi si è deciso di
non investire più – non tantissimo, in verità – come si faceva
prima sulla cultura.
Ma si richiedono adesso ben altro impegno
e ben altro spessore per dire qualcosa di più importante, anche più
del nuovo realismo.