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Dopo una seria reprimenda ed uno scrupoloso e conseguente esame di coscienza, credo di dover rettificare la recensione al volume presente nella maniera che segue:
Il
presente volume intende presentarsi come “contro-altare” al
Manifesto di Maurizio
Ferraris, discutendo il “basso” profilo filosofico scelto ed
indicando alcune delle gravi conseguenze, etiche e politiche, che
fanno seguito all'appello alla realtà.
L'intento appare chiaro sin dalle prime pagine ove Di Cesare accusa
direttamente Ferraris di essersi creato un brand,
ossia un “marchio” (p. 9), di aver cioé inventato di sana
pianta, e a tavolino, l'operazione “nuovo realismo” al fine di
“emergere nel panorama complessivo e frastalgiato della filosofia
contemporanea” (p. 9). Sempre Di Cesare indica una caratteristica
precisa dell'etichetta scelta dal Ferraris, “un prodotto tutto
nostrano” (p. 9), ossia la tristemente nota proprietà della
provincialità. Da nessun'altra parte del mondo, infatti, si
parlerebbe, benché io abbia notizie di segno contrario, di new
realism. Questa notazione
consente alla Di Cesare per insinuare, a mio modesto modo di vedere,
sapientemente il dubbio: se altrove si parla d'altro, di tutto tranne
che di “nuovo realismo”, può essere solo un caso? Sfrondando il
lessico allusivo dell'autrice del primo saggio del presente volume,
sembra d'intuire come si stia cercando di far passare il seguente
messaggio: il nuovo realismo
è ben poca cosa. D'altra parte, come spiegarsi altrimenti tale
marginalità alle discussioni internazionali tra philosophes?
Il Nuovo realismo va
“preso sul serio – non come filosofia, bensì come antifilosofia”
(p. 13), come uno strumento
che avvicina tanto grossolanamente quanto malamente il vasto pubblico
alla filosofia, ma che evita di scendere in profondità nelle
discussioni. Per l'autrice questo elemento è rivelativo. Il suo
pubblico, infatti, è fatto di gente che ha “difficoltà con i
testi dei filosofi” (p. 13) al quale offre “poche pagine, pochi
pensieri” (p. 13) ma anche grandi “certezze” (p. 13). Cosa
offre, dunque, Ferraris al grande pubblico, digiuno e allergico
all'astrattezza filosofica? Per Di Cesare “a poco prezzo, realtà
e verità” (p. 13).
Detto altrimenti, non richiede sforzi e ricompensa con il richiamo a
due sole certezze,
sempre promesse mai mantenute, si premura di precisare per inciso
l'autrice presente. Questo perché il nuovo realista “non dialoga
con il pubblico dei suoi lettori, trattati piuttosto come spettatori
il cui ruolo è limitato al plauso” (p. 14). In un mondo sempre più
provvisorio ed ansiogeno, il nuovo realista, alla stregua di un
qualunque altro populista,
strappa applausi da un pubblico poco esigente e superficiale cui
importano esclusivamente appigli saldi
e certezze. Così
Ferraris urla a squarciagola “Bentornata realtà!” e di
conseguenza “l'intento populistico è raggiunto, il plauso
assicurato” (p. 14). A fronte delle inquietudine che si sommano ed
aumentano esponenzialmente, il nuovo realismo “intercetta il
bisogno di certezze” (p. 14), e piuttosto di sottoporre a critica
la testimonianza dell'esperienza, difende quest'ultima occultadola
sotto la coltre impenetrabile della realtà.
Questo perché Ferraris imporrebbe una sostanziale “sudditanza alla
realtà” (p. 20), mostrando così il suo volto reazionario: non
distinguere “tra illusione e immaginazione” (p. 21). D'altra
parte, “cerca di inchiodare l'avversario al fatto” (p. 23),
“mitizza il reale” (p. 23), facendone un idolo e “dietro
questa idolatria si trincera facendone il suo baluardo” (p. 23).
Ecco che negando qualsiasi possibilità al dialogo, Ferraris “non
ha nulla di filosofico” (p. 24). Quali sono allora le conseguenze
pratiche del nuovo realismo?
La risposta è agile e succinta: le sue fantasticherie sviano “dai
temi urgenti” (p. 24), “distraggono dalle grandi questioni
filosofiche, etiche, politiche” (p. 24).
Il
secondo saggio, a firma di Fabio Milazzo. Dopo una rapida difesa
delle esigenze genealogiche del postmodernismo,
vilipeso dal Manifesto
di Ferraris, l'autore presente sostiene come il fondatore del nuovo
realismo si lasci sfuggire la
concretezza dei temi e degli autori contro i quali polemizza. In
realtà, infatti, il postmodernismo,
che fa da sfondo polemico al Manifesto
è una “maschera carnevalesca” (p. 29), “una sorta di bufala”
(p. 29), peraltro costruita “a tavolino” (p. 29). Il tono di
Milazzo è severo e non parco di giudizi taglienti. Non pago,
aggiunge come “solo la reificazione del postmoderno in qualcosa di
più che una semplice presa di distanza dalle esaltazioni del
razionalismo moderno, fa sentire il bisogno di rinnovate e ingenue
forme di doxa” (p.
30). L'appello all'esperienza
viene inteso come un appello alla scienza laddove,
al contrario, correttamente si dovrebbe riconoscere, e senza
difficoltà, che “ci sono sicuramente fatti,
ma ci sono soprattutto le interpretazioni”
(p. 31). Milazzo sembra identificare nelle pagine del Manifesto,
ossia nella visione propria del Ferraris, “il riconoscimento della
verità nella forma unica della teoria della corrispondenza” (p.
31). Si tratta di un riferimento generico e vago, a volerla dire
tutta. L'autore presente si sforza anche di decostruire l'esempio
della ciabbatta, addotto dal Ferraris per spiegare la sua nozione di
inemendabilità del
reale, al fine di ricostruire due dei caratteri che ritiene di poter
desumere dalla visione di Ferraris: 1) attenzione per il mondo
esterno, indipendentemente dagli schemi conoscitivi del soggetto
conoscente; e, 2) la coincidenza tra realismo
ed ontologia. Senza
alcuna possibilità di riscontro oggettivo nel testo, si dice
succintamente che il realismo
di Ferraris equivale ad un'ontologia.
Si tratta di un'interpretazione che, a certe condizioni, potrebbe
starci. Ma in questo passaggio è vaga. Infatti, sarebbe lecito
chiedersi: quale esattamente? Milazzo non lo dice, propendendo per
una sua sola versione. L'autore sostiene, infatti, che l'ontologia
consista nel predisporre “un catalogo universale di tutti gli enti
esistenti” (p. 32). Ritengo che l'autore intenda ribaltare la
distinzione realista tra fatti e
interpretazioni, e
mostrare come queste ultime, sia pure messe alla porta, rientrino di
straforo dalla finestra. Infatti, si distingue,
e, quindi, s'include o
si esclude, tra enti
solo dopo aver proceduto ad interpretare
la conoscenza conseguita. Questo basterebbe di per sé a screditare
il discorso realista, ma Milazzo non si ferma certo qui. Pertanto, si
prodiga nel mostrare come dietro ad ogni nostra conoscenza vi sia un
apparato potente di valutazione
che partecipa attivamente al medesimo processo conoscitivo. Ragion
per cui, non vi sarebbe più alcuna conoscenza. Il mondo, pertanto,
non va assunto com'è,
ma bisogna indagnarne “le condizioni di esistenza, le esigenze
inconsce a cui rispondono” (p. 39). Più che di verità cosale,
l'autore in questione ritiene che i fatti siano tali “alla luce di
una certa interpretazione prospettica” (p. 39). La ciabatta di
Ferraris è così solo un'oscena fantasia ingenua, effetto di
“un'illusione costituente, di una retroprioezione paradossale, di
una ricerca sempre fallita” (p. 40). In soldoni, una follia
consistente “nella presunzione che questa immagine dogmatica sia
quella della sostanza “ciabatta”, quella naturale” (p. 40). A
questo punto, l'autore conclude il suo saggio additando, a suo
modesto modo di vedere, le conseguenze pratiche del new
realism: “un delirio
totalitario che si serve di una pericolosa alleanza, quella tra il
senso comune e una presunta natura retta del pensiero” (p. 40).
Il
terzo autore del volume, Laura Cervellione, intende smascherare
Ferraris, mostrando come sotto la maschera del neorealista si
nasconda il “caro vecchio pragmatista” (p. 41). Anche nel caso
presente, si fornisce un'immagine icastica della filosofia
neorealista, e, segnatamente, del Ferraris dopo la Kehre.
Così, dovendo condensare in uno slogan efficace,
l'autrice definisce il neorealismo “una filosofia Polaroid”
(p. 42). Detto in breve, Ferraris metterebbe in scena una filosofia
delle istantanee in forza delle quali, ma in realtà con un canone
occulto, distinguere tra quanto è reale e quanto no. Per
Cervellione, par di capire, il nuovo realismo
è una filosofia vintage,
che ripropone idee e concetti “vecchi”. Così, individua tre
differenti, ma non anche irrelati, ritorni al passato: 1) “il
vecchio corrispondentismo di tomistica memoria” (p. 43); 2) “la
riabilitazione dell'esperienza” (p. 43); e, dulcis in
fundo, 3) Cartesio, e
cartesianesimi di varia natura. Sul primo elemento, penso che tutti
gli autori collettanei presenti abbiano omologato il richiamo alla
realtà, inteso anche come assunzione di responsabilità veridica per
i propri pensieri, le proprie esperienze ed anche le proprie
enunciazioni, all'adeguazione tomista. In che termini, poi,
quest'ultima venga riportata esattamente, non è dato sapere.
L'elemento (2), invece, è più interessante perché consente a
Cervellione di cogliere una contraddizione in Ferraris: la correzione
della percezione ha luogo se, e solo se, “sono inserite in un
assetto teorico” (p. 43). Al riguardo, trovo la prospettiva di
Ferraris molto debole, e facilmente criticabile. Tuttavia, mi pare
arbitrario porre una tale inserzione in forza della quale, appunto,
riesce la confutazione di Ferraris. Veniamo, ora, all'elemento (3), a
mio sommesso parere, il meno originale. Ferraris sarebbe reo, a suo
dire, di “andare a cercare certezze nelle nostre autoconoscenze”
(p. 44), collocando proprio il fondamento saldo di ogni certezza
nell'ontologia. La mia impressione è che Cervellione pensi più a
ironizzare sul Ferraris che a porre a critica il rimando ontico di
Ferraris. Certo per trovare la “realtà” non è certo sufficiente
richiamare ad essa né tantomeno darle il “bentornato”. Come dice
l'autrice, “a trovarla questa realtà” (p. 45). Se Ferraris non
dice nulla, ma proprio nulla, su cosa dovrebbe appunto essere tale
realtà, il suo richiamo, esattamente ciò in cui consiste il new
realism, si trasforma in una
banalità, in un
truismo, ossia in un
riferimento generico alla nostra comune realtà, senza alcun davvero
impegno conoscitivo ulteriore. Peraltro, se così è, l'oggetto del
nuovo realismo, la pretesa realtà, sarebbe un “atteggiamento, non
realtà” (p. 45). Esattamente come nessuno può negare che la
realtà esista, parimenti nessuno può limitarsi a questa semplice, e
banale, verità. A questo punto, l'autrice intende rovesciare
l'accusa che Ferraris muove al postmodernismo, e secondo la quale il
“populismo”, anche quello che attanaglia i nostri destini
nazionali, è il degno figlio del postmoderno, addossando infine al
Ferraris stesso la paternità di questo stato, ossia di giustificare
appunto il populismo.
Peraltro, ritengo sia vero che Ferraris ecceda nei suoi sconfinamenti
in terra straniera, per cui, in certa qual misura, credo che
Cervellione sia nel giusto quando afferma che il nuovo
realismo sovrastimi “la
potenza delle attività cerebrali” (p. 51), nel senso che davvero è
difficile accettare l'idea che la mente possa produrre realtà e
dominare per intero quest'ultima.
Il
saggio di Ocone è, a mio modesto modo di vedere, quello più
attrezzato da un punto di vista teorico. Nell'incipit
si chiede l'autore presente: e “se il nuovo realismo non fosse
altro che l'ultima e più compiuta forma di postmodernismo, o meglio
di “pensiero debole”?” (p. 55). Questo è vero, e non negato
nemmeno da Ferraris. Il punto, però, è un altro: voler confutare
l'intento propositivo dell'autore del Manifesto
al fine di far collassare l'intero progetto neorealista. Infatti, se
il nuovo realismo è
una variante del postmodernismo, con che coraggio si propone come
alternativo a quest'ultimo? La stringatezza delle pagine in cui Ocone
argomenta al riguardo, però, tradiscono subito l'interesse che
suscitano. L'autore passa velocemente alla trattazione della sua idea
fondamentale, ossia che Ferraris “manipoli” la storia della
filosofia in maniera da far apparire vincente il suo “paradigma”
(p. 56). Ocone aggiunge anche che “pur negandolo, il pensiero di
Ferraris ha molti legami con certa filosofia medievale, in primo
luogo con quella di Tommaso d'Aquino” (p. 57). Egli ritiene,
infatti, che “ripristina non solo una rigida distinzione fra
pensiero ed essere, ma anche e soprattutto quella logica tomistica
che concepisce la verità come adaequatio rei et
intellectus” (pp. 57 – 8). A
mio modo di vedere, risulta apprezzabile il rilievo critico che Ocone
solleva in merito al rimando ontologico di Ferraris. Infatti,
“sull'idea che non possa esistere una realtà separata dal
pensiero, e viceversa, si può anche essere in disaccordo […]
tuttavia, glissare sul fatto che comunque vi sia un problema di
pensabilità del presupposto oggettivante […] è veramente, in
senso descrittivo e non vlautativo, non filosofico” (p. 59). In
merito, l'autore presente ha certamente ragione. D'altra parte, la
natura non argomentativa del Manifesto
non consente di giustificare appieno le proprie presupposizioni e
teorie. Non basta rimandare alla realtà, intesa, e vissuta, come
separata dal pensiero, bisogna anche porsi il problema di come
giustificare la pensabilità della prima da parte della seconda, e
proprio a causa della separazione dell'una e dell'altra. Non
ponendosi la questione, Ferraris compie un atto non
filosofico dal momento che
esclude, peraltro arbitrariamente, dalla discussione alcuni elementi
portanti del suo edificio speculativo. Ma la mancanza di tale
approccio critico è fatale nel voler prendere sul serio l'impresa di
Ferraris. Infatti, un realista che non riflette davvero sui limiti
della propria azione è un realista solo di facciata. Questo è, per
Ocone, sintomo di una discutibile maniera di procedere in forza
della quale Ferraris “piega” la storia della filosofia a suo
piacimento. Un difetto, a ben guardare, che rende non credibile la
sua critica alle manipolazioni operate dai postmoderni dal momento
che “anche quelle dei “nuovo realisti” sono a dir poco
spregiudicate” (p. 64).
Lorenzo
Magnani è il quinto autore del presente volume. La sua chiarezza
espositiva oltre che il suo rigore analitico sono a dir poco
apprezzabili. In modo particolare, è degna di nota la scoperta di
una fallacia nascosta tra le righe del Manifesto, la cd.
fallacia ad Hitlerum. Infatti, i neorealisti dicono “se non
si sottoscrive la posizione del realismo ingenuo […], allora
vinceranno sempre i Berlusconi, i Bush” (p. 71). Si tratta, a ben
guardare, di una retorica “che designa una strategia comunicativa
che mira a squalificare qualcosa (in questo caso il postmoderno)
comparandolo ad Adolf Hitler (nel nostro caso al populismo e al
declino dell'Occidente)” (p. 71). Sebbene, veemente a prima vista,
si tratta di un'argomentazione “frolla, astratta e velleitaria”
(p. 71). Per Magnani, infatti, la prospettiva neorealista provoca
scetticismo dal momento che del tutto pretestuosa appare la polemica
con il postmodernismo rispetto al quale, al contrario, tutti noi
dovremmo essere grati per aver reso disponibili all'analisi
filosofica “molti aspetti della realtà umana” (p. 67). Benché
l'autore ritenga comunque utile il discorso neorealistico, tuttavia
“molti suoi obiettivi sembrano mancati” (p. 77). Anzi, proprio
attraverso la querelle postmodernismo – neorealismo “non
si intacca minimamente il populismo, e la filosofia rischia veramente
alla fin fine di essere caricaturizzata e/o banalmente ostracizzata”
(pp. 78 – 9).
Simone
Regazzoni è l'ultimo autore del presente volume collettaneo e si
propone di decostruire il nuovo realismo. I suoi elementi
fondamentali sarebbero, a detta sua, solamente due: a) il ritorno di
“una certa idea di realtà” (p. 83), peraltro nemmeno nuovissima
o originale; e, b) la ripresa del paradigma corrispondentista di
verità. Elementi “sapientemente incorniciati in una potente
operazione mediatica ed editoriale” (p. 83). Sulla potenza
mediatica dell'operazione, credo di poter concordare. A causa della
sua vena profondamente anti-filosofica, però, il nuovo realismo “è
un'ontologia che sogna di cancellarsi come discorso teorico e
filosofico per diventare, magicamente, “ciò che c'è”: la realtà
stessa, senza discorso” (p. 84). In questo modo, Regazzoni affonda
il colpo finale sostenendo che si tratta di un movimento interessante
ma non per le tesi che sostitene, quanto, piuttosto, per il “modo
in cui è stato sapientemente incorniciato in una potente narrazione
mediatica ed editoriale” (p. 85). Un giudizio severo e, sotto molti
aspetti, liquidatorio. In effetti il nuovo realismo è anche
questo. Ma Regazzoni si riserva ancora un'ulteriore stoccata: “il
primo caso di mockumentary filosofico […] che si presenta
come una fotografia di un ritorno della realtà che in verità
produce” (p. 86). Essendo ben poca cosa, sia da un punto di vista
teorico che storico, il nuovo realismo può esistere solo nella
misura in cui racconta “un sacco di storie” (p. 88) e il suo
mentore si professa “in missione per conto di Dio” (p. 90).
Secondo Regazzoni, quel che emerge soprattutto nel new realism
è “l'ossessione per la realtà” (p. 89), “una questione di
fede” (p. 89), di cui Ferraris si fa carico “per il bene di
tutti” (p. 89). Se così stanno le cose, come mai tanta visibilità?
Per il presente autore, il successo mediatico si deve all'aver
sapientemente intercettato un bisogno editoriale. Infatti, in fin dei
conti, il nuovo realismo è “una filosofia giornalistica,
una filosofia che incorpora il modello critico di un certo
giornalismo di inchiesta che evoca in modo ingenuo i fatti e che
negli ultimi anni, in Italia, è stato l'unico discorso […] a
partire dal cui si è pensato di poter criticare il fenomeno del
berlusconismo come discorso menzognero” (p. 92). Non grandi mete né
alte vette, ma una misera “filosofia giornalistica cresciuta
all'ombra del berlusconismo” (p. 93) del quale Ferraris ha assunto
su di sé l'onere, oltre che l'onore, di tradurre filosoficamente
l'opera del giornalista Travaglio.
Terminato il
resoconto, di per sé inevitabilmente parziale ed educolcorante, del
volume presente, penso di poter spendere alcune riflessioni ulteriori
a commento. In modo particolare, ammetto di rimanere perplesso. Trovo
ingenuo giudicare come ingenua l'operazione di Ferraris, che ha le
sue pecche, per carità, ma non tali da giustificare un simile
giudizio. In più, mi sembra infondata anche la concezione di verità
che (quasi) tutti gli autori presenti muovono all'autore del
Manifesto. A mia memoria, non mi risulta che Ferraris sostenga
la concezione tomista di verità secondo la quale la verità sarebbe
un luogo terzo a partire dal quale poter giudicare della prossimità
tra cose e intelletto. Ancora, ritengo ingenerosa l'obiezione rivolta
in vario modo dagli autori presenti, di ridurre la realtà ad
ontologia. Anche al riguardo non credo vi siano conferme di tale
giudizio nel testo del Ferraris. Sono propenso, piuttosto, a credere
che sia un'interpretazione decontestualizzata. Infine, nutro una
obiezione radicale che penso possa riassumersi brevemente nella forma
seguente: se il nuovo realismo è poca cosa, perché spendere
così tanto in tempo e risorse per dirlo?
Concludendo,
penso si sia persa un'occasione per far germinare un sano dibattito
filosofico, limitandosi solamente a collocarsi in uno dei due termini
della polarità nuovo realismo – contro il nuovo realismo.
(versione precedente qui)
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