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venerdì 13 febbraio 2015

Che fine farà il sostegno scolastico?



Scorrendo la proposta di legge presentata nella versione di Ottobre 2014 da FISH e FAND, salta agli occhi l’art. 4 il quale, ad un’attenta disamina, sembra prefigurare la nascita di una classe di concorso specifica e dedicata al sostegno scolastico. Condizione per accedervi è, addirittura, la laurea magistrale di pedagogia e didattica speciale. I commi (7) e (8) mirano a imporre restrizioni alla possibilità per i docenti in organico di diritto, vale a dire assunti a tempo indeterminato sui posti disponibili, di “fuggire” dal sostegno verso altri insegnamenti.
Tralasciando le ovvie finalità dei formulatori della presente proposta di legge, si rendono doverose alcune considerazioni, specie da chi si trova già in ruolo e conosce il sostegno scolastico “dall’interno”, vale a dire nel concreto farsi delle cose.

Prima considerazione. Il futuro insegnante di sostegno viene visto non più come un “tuttologo” che cerca di mediare gli apprendimenti curriculari, ma come l’esperto biomedico. Ne consegue, probabilmente, salvo sorprese o modifiche in sede di conversione in legge della stessa, che il docente di sostegno diverrà a breve un mediatore speciale. Una sorta di assistente alla mediazione didattica tra la classe e l’alunno disabile. Se così fosse, non parlerei di progresso del ruolo del sostegno didattico ma di mero scadimento in una sorta di servizio alla persona. Ma se così è, non  appare allora punitivo imporre ex lege il conseguimento di un titolo formativo così “alto” e dispendioso? Vero è che i disabili sono, prima di ogni cosa, persone e, dunque, necessitano di supporti adeguati per superare gli ostacoli socio-culturali che ne impediscano il concreto sviluppo, ma perché il docente di sostegno dovrebbe divenire un simbiotico badante? A quale pedagogia speciale corrisponde tale assunto? Credo, in tutta sincerità, a nessuna. E se così è, a cosa si dovrebbe addebitare tale investimento emotivo da parte delle associazioni dei disabili e dei loro familiari? Ho una risposta anche a tale interrogativo, ma vi arriverò in seguito.



Seconda considerazione. L’art. 5 contempla l’aggiornamento alle tematiche e tecniche del sostegno per il personale curriculare. In modo particolare, il comma (3) impone ai docenti in anno di prova il conseguimento di almeno 30 CFU sull’«inclusione scolastica». Anche qua si evince una tendenza “punitiva”, forse eccessivamente rigorosa sui futuri operatori dell’inclusione scolastica. Il seguente comma (5) estende tale tendenza imponendo a tutti i docenti con alunni disabili nelle loro classi di frequentare almeno un corso annuale “sugli aspetti della didattica dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali non inferiore a 25 ore” tenuti da Università. Problema: chi sarà chiamato a foraggiare tale imposizione ex lege di formazione di livello universitario? La P.A. forse? Non scherziamo. Al massimo, potrebbe darsi il caso che se ne facciano carico singole istituzioni scolastiche particolarmente “illuminate” e “ricche”. Tutte le altre, ovviamente, non potranno. E, dunque, sarà infine il medesimo operatore scolastico, già vessato sotto altri aspetti e per altri capitoli di spesa, a doversi sobbarcare anche questo ulteriore onere formativo. È giusto? Chissà! Il comma (6), poi, impone l’uso ad hoc delle ore funzionali all’insegnamento: “programmazione per una presa in carico collegiale della didattica della classe”. Questo, forse, potrebbe essere utile, ma suscita più di un sospetto l’imposizione autoritaria.



Terza considerazione. L’art. 6 della succitata proposta di legge, “lega” il docente di sostegno, iperformato, plurispecializzato, al proprio alunno, innescando una catena termporale di rinforzo negativo ad un legame simbiotico tra i due: il docente di sostegno c’è perché c’è l’alunno disabile. E, in una sorta di matrimonio infelice, il primo segue il secondo ovunque vada, nella buona come nella cattiva sorte, nella cattiva come nella buona scuola … Ora, beninteso, la continuità didattica è un argomento delicato e ne comprendo le ragioni didattiche. Ma la soluzione mi pare peggiore del male. Infatti, una delle cause peggiori alle disfunzioni dell’attuale regime è dato dall’isolamento disciplinare del docente di sostegno il quale finisce per instaurare con l’alunno disabile una doppia e biunivoca relazione ambivalente. Due termini insolubili, irriducibili al contesto di riferimento, costituenti un negativo rapporto simbiotico. Ora, santificare ex lege tale rapporto, migliora forse l’integrazione scolastica? Ho i miei dubbi, anche molto seri. L’art. 9 è, a mio sommesso parere, interessante dal momento che istituisce l’organico di rete su più scuole.



Considerazione conclusiva. L’art. 16 blocca qualsiasi rischio di aumento della spesa corrente. Quindi, il sostegno scolastico, come tanti altri capitoli della politica scolastica, dovrebbe migliorare a saldi invariati. Ma trattandosi di un provvedimento generale, ne tralascio ogni altra considerazione limitandomi al destino del sostegno scolastico, dal momento che è questo che mi interessa direttamente. Sono, a mio avviso, tre gli elementi portanti della presente proposta di legge: a) l’imposizione normativa severa; b) l’eccesso formativo; c) il peggioramento del ruolo del docente di sostegno. Le tre cose vanno di pari passo e si confermano a vicenda. Il docente di sostegno deve possedere un bagaglio formativo e di nozioni superspecializzato sulla didattica speciale. Ma questo come favorisce la pratica inclusiva? Per di più, l’accento posto sulla mediazione “speciale” suscita più di un sospetto. Infatti, molta importanza viene attribuita alla mediazione didattica la quale, dirigendosi verso utenti “speciali” non può ricalcare le stentate e ripetitive pratiche di mediazione didattica curriculare. Ma, allora, e di conseguenza, cosa verrebbe a fare infine il docente di sostegno? Non più il docente, regista dell'integrazione scolastica, ma una sorta di mediatore, un trasmissore, un canale comunicativo tra la classe (il docente di classe) e l’alunno disabile. Questo è, sotto ogni punto di vista, uno scadimento qualitativo del ruolo del docente di sostegno. Purtroppo, però, tale dequalificazione è inversamente proporzionale al potenziale formativo che viene richiesto: tanto più è la “specialità” di informazioni imposte ex lege, tanto maggiore è il suo basso livello professionale. Registriamo, cioè, un eccesso di specializzazione che, però, non si genera valore aggiunto, ma una riduzione del tipo di prestazioni professionali richieste. L’inflazione formativa, infatti, regge il gioco alla falsa impressione dei proponenti della presente proposta di legge secondo la quale un personale iperspecializzato e pluriformato dovrebbe fornire un servizio decisamente migliore. Ma così non è, non può essere dal momento che la sua funzione scade decisamente al rango di un assistente alla comunicazione, alla pratica didattica ordinaria, ai bisogni speciali del proprio alunno, e non, beninteso, dell’intera classe. Veniamo, così, all’ultimo spunto generato dalla lettura della presente proposta di legge. Il futuro docente di sostegno assume la funzione finale di un erogatore permanente e per l’intero ciclo di istruzione di servizi alla persona disabile … cioè, in breve, il docente di sostegno cessa di essere un docente contitolare della classe ove è iscritto l’alunno disabile per divenire l’assistente personale di quest’ultimo. Ma l’assistenza non comporta nulla in termini di miglioramento del servizio di inclusione scolastica. Forse, migliorerà l’igiene personale o l’autostima dei fruitori finali ma dovremmo chiederci se ne valga la pena. E qui concludiamo le presenti riflessioni. Infatti, la deriva inscenata nella presente proposta di legge non è avulsa dal contesto generale. Cioè, gli utenti come le loro famiglie vivono le medesime tendenze generali degli altri utenti del servizio pubblico di istruzione: le famiglie non vogliono affatto istruzione e docenza, ma sorveglianza ed assistenza. Una sorta di supplenza mattutina del loro ruolo genitoriale per pargoli incapaci di intendere e di volere, ma distruttivi. Allora, se sono le famiglie degli studenti normodotati a chiedere una scuola che assista i propri figli, per quale motivo non dovrebbero chiedere altrettanto le famiglie di figli disabili? Prova generale ne sia la richiesta, a mezza voce, di una progressiva estensione del tempo scuola, nell’arco della giornata e lungo l’anno stesso: non più solo la mattina e non più solo sino ad inizio giugno. La logica è la medesima: sorvegliare, assistere, tenere compagnia ai propri figli perché i genitori non si fidano di lasciarli soli a casa. Non si chiedono né istruzione né formazione, per quelle ci sono internet e i corsi certificati, ma un servizio accettabile, da un punto di vista qualitativo, e non costoso di baby sitteraggio. La stessa dinamica si verifica puntualmente per l’insegnamento di sostegno: non formazione, ma compagnia e soddisfattore di bisogni speciali. 


Così, mi sia permesso il pensiero "ardito", oltre che aulico, muore l’istanza stessa dell’integrazione scolastica, muore il sogno democratico della scuola di Comenio, del “tutto per tutti”, e ci incamminiamo spediti verso la scuola separata e speciale, del “qualcosa ad alcuni”. Tutti contenti, però. E come in tutte le rivoluzioni, ciò accade sotto scroscianti applausi.




giovedì 28 febbraio 2013

Il futuro delle democrazie


M. C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 168.


Secondo la Nussbaum “Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale. Non mi riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008 […] Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell'istruzione” (p. 21). Le democrazie, osserva la Nussbaum, sono sempre più attratte dall'idea del profitto, dell'utile economico. In questo modo, “i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché di cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie è appeso ad un filo” (pp. 21 – 22). Da un lato la strettoia imposta dalla crisi economica, dall'altro lato, però, un'idea perniciosa di indirizzamento curriculare delle giovani generazioni verso i settori richiesti dall'economia stessa, con una trasformazione dell'intero comparto istruzione in una sorta di avviamento professionale o di tirocinio lavorativo, con cancellazione di tutti quegli argomenti e tutte quelle discipline tese, piuttosto, a formare le persone, a sviluppare in queste ultime il senso critico, il libero pensiero. Le nazioni stanno, così, tagliando tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale” (p. 22), i governi, cioè, preferiscono inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico-scientifici più idonei a tale scopo”(p. 22).



Il rischio è quello di perdere del tutto il riconoscimento che consente di guardare all'altro come una persona, e non come un mero oggetto da utilizzare per trarre profitto personale. Infatti, “ci stiamo dimenticando cosa significa considerare un'altra persona come un'anima, anziché come un mero strumento utile, oppure dannoso, per il conseguimento dei propri progetti; di cosa significa rivolgersi, in quanto possessori di un'anima, a qualcun altro che si percepisce come altrettanto profondo e complesso” (p. 25). Stiamo perdendo di vista quell'essenziale che ci rende umani, e che Nussbaum sintetizza con il termine 'anima'. Cosa ci rende umano? Sicuramente, “le capacità di pensiero e immaginazione” (p. 25) le quali “fanno delle nostre relazioni qualcosa di umanamente ricco, non relazioni di semplice uso e manipolazione” (p. 25).



Così, le nostre democrazie sono destinate a cadere una volta che non siamo più abituati o capaci di “immaginare le reciproche capacità di pensiero ed emozione” (p. 25), una volta che sia venuto meno il riconoscimento dell'alterità, della differenza, di altri come me. Una democrazia, infatti, è costituita sul rispetto e la cura, e questi “sono costruiti sulla capacità di vedere le altre persone come esseri umani, e non come oggetti” (p. 25).



La corsa al profitto, o la tentazione vincente di credere nel progresso di una nazione esclusivamente nei termini di produttività o di Prodotto Interno Lordo, svaluta questi valori, rendendo impossibile in futuro il riconoscimento degli altri, in quanto tali, e non come meri strumenti per il proprio tornaconto personale. Questi valori consistono in conoscenze, ossia saperi che stiamo eliminando dai nostri curriculi per far spazio a saperi tecnico – scientifici, inseguendo il mito del “profitto” (p. 26). Si tratta dei saperi umanistici, ossia “la capacità di pensare criticamente; la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali […] la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell'altro” (p. 26). L'ossessione “della crescita economica” (p. 27) conduce “a cambiamenti nei programmi di studio, nella pedagogia e anche nel sistema dei finanziamenti” (pp. 27 – 8). eppure, rileva l'autrice, vi sono saperi che, pur non essendo direttamente spendibili nella vita pratica, per via delle loro particolare natura, contribuiscono in maniera efficace a formare i soggetti umani. Pertanto, il suo scopo diventa dimostrare “che le capacità intellettuali di riflessione e pensiero critico sono fondamentali per mantenere vive e ben salde le democrazie” (p. 28). Solo lo sviluppo adeguato delle facoltà di pensiero e di ragionamento consente di potersi muovere all'interno di una realtà multiforme e camaleontica, riuscire a destreggiarsi entro un mondo siffatto, per far fronte “ai problemi” (p. 28) che attendono le democrazie. Questo non può fare, ad esempio, un'educazione modellata sul perseguimento del profitto materiale a tutti i costi. Peraltro, non è affatto vero che sia impossibile conciliare un'educazione modellata sul profitto e un'educazione modellata sui saperi umanistici. D'altra parte, si è incapaci di coniugare formazione delle persone e ricchezza sociale, finendo con il legare, quasi del tutto esclusivamente, profitto e Prodotto Interno Lordo. La ricchezza materiale non porta affatto con sé tutto il resto, sanità, istruzione, diminuzione delle diseguaglianze. Aumentare la ricchezza materiale non comporta in automatico un miglioramento della democrazia, un qualcosa che va comunque sempre alimentato e coltivato. Esiste oggi un bisogno di diritti di cittadinanza per i quali il profitto non sortisce alcuna resa effettiva. Solo abituando “la mente a diventare attiva, competente e responsabilmente critica verso le complessità del mondo” (p. 35) è possibile tentare di dare risposa adeguata a tale bisogno, senza, di conseguenza, ignorarne l'appello, la necessità, senza differirne, per motivazioni di forza maggiore, il perseguimento, il soddisfacimento.



É un modello antico, che trova in Socrate un suo illustre precedente, ma che, a detta della Nussbaum, ha informato di sé l'intero modello educativo statunitense, profondamente umanistico, e non tecnico-scientifico, come invece percepito in Europa.



La prospettiva che si sta imponendo nelle agende politiche di mezzo mondo è estremamente riduttiva su cosa debba intendersi per formazione delle nuove generazioni. Infatti, tende a selezionare molto le materie e gli argomenti sui quali i giovani devono formarsi, solo quelli che “servono al successo economico, personale o nazionale che sia” (p. 40). Non si tratta, però, di mera volontà di ignorare tutte quelle discipline che potrebbero educare alla creatività, al pensiero critico e alla capacità di argomentare e sostenere pubblicamente una posizione personale. I partigiani del “profitto” come meta finale delle agenzie formative temono le arti perché “la sensibilità simpatetica coltivata e sviluppata è un nemico particolarmente pericoloso per l'ottusità, e l'ottusità morale è necessaria per realizzare programmi di sviluppo economico che ignorano le diseguaglianze” (p. 40), è alla fine più facile manipolare le persone che dialogare con queste ultime. I sostenitori del modello del progresso hanno così messo in funzione un'offensiva in grande scala contro “l'inclusione delle materie letterarie e artistiche fra gli ingredienti dell'istruzione di base” (p. 41).



Un modello educativo incentrato solo sulla capacità strumentale di trarre profitto dalla realtà circostante può solo costituire un danno per le democrazie perché non riconosce più una “dignità umana inalienabile” (p. 41) a tutti gli individui, guardando non più alla parità di accesso dei singoli, ma alle possibilità di potere degli aggregati. Anziché perseguire lo sviluppo umano delle persone, si finisce con il perpetuare poteri sociali consolidati. Tolta l'umanità, resta ben poco di quanto siamo soliti chiamare come 'democrazia'. Infatti, l'autrice elenca quelli che a suo dire sono i nuclei fondamentali di un'educazione mirante allo sviluppo umano:

  1. la capacità di ragionare sui problemi riguardanti la nazione, di esaminare, riflettere, discutere e giungere a conclusioni senza delegare alla tradizione o all'autorità;
  2. la capacità di riconoscere nei concittadini persone con pari diritti, di guardare loro con rispetto, “in quanto fini, non in quanto strumenti da manipolare per il proprio tornaconto” (p. 42);
  3. la capacità di preoccuparsi per la vita degli altri, di cogliere quali politiche siano significative per le opportunità e le esperienze dei propri concittadini ed anche delle persone al di fuori della propria nazione;
  4. la capacità di “raffigurarsi la varietà dei problemi della vita umana così come essa si svolge” (p. 42);
  5. la capacità di giudicare gli uomini politici criticamente, ma in base a informazioni certe;
  6. la capacità di pensare al bene della nazione, e non “a quello del proprio gruppo locale” (p. 43);
  7. la capacità di vedere la propria nazione come parte di un ordine mondiale complesso, le cui problematiche “richiedono una discussione transnazionale per la loro soluzione” (p. 43).




La tendenza a snaturare la tradizione umanistica dell'istruzione pubblica pone domande nuove e inquietanti. Su tutte quale sia il destinatario dell'istruzione medesima. Secondo la Nussbaum, l'istruzione “ha per destinatario il popolo” (p. 45). se così stanno le cose, allora una qualsiasi soluzione formativa non dovrebbe calare dall'alto, ma muovere solo da un'effettiva conoscenza di come mettere quest'ultimo nelle possibilità di “formare gli studenti come cittadini responsabili” (p. 45), capaci di “fare scelte riguardo a questioni di portata nazionale e universale” (p. 45). Ciascuna società presenta “persone che sono preparate a vivere con gli altri in termini di rispetto e reciprocità, e persone che perseguono il beneficio della prevaricazione” (p. 46). compito dell'istruzione è, pertanto, “capire come produrre più cittadini del primo tipo e meno del secondo” (p. 46). Per far questo, bisogna prendere in considerazione due elementi: “l'individuo e la situazione” (p. 59). la differenza di comportamento tra le persone non dipende esclusivamente dalle circostanze, casi singoli ed isolati gli uni dagli altri. Le persone, al contrario, “si comportano male quando non sono ritenute personalmente responsabili” (p. 59), quando possono muoversi al riparo sociale dell'anonimato, sotto le mentite spoglie della massa informe. In secondo luogo, le persone si comportano male anche “quando nessuno fa sentire una voce critica” (p. 60). In terzo luogo, le persone si comportano male “quando gli individui su cui hanno potere vengono disumanizzati e deindividualizzati” (p. 60), ossia quando l'altro perde i connotati della persona e diviene un mero oggetto manipolabile.



Sicuramente, “non riusciremo mai a formare persone che siano al riparo da ogni possibile manipolazione, ma possiamo produrre una cultura sociale che valga di per sé come un potente contesto in cui radicare le tendenze che militano contro lo stigma e la prevaricazione” (p. 60). Una società che non preferisca di gran lunga gli antidoti contro le tendenze spersonalizzanti è una società che ha deciso anzitempo di esaurirsi, di contrarsi, di estinguersi. Certamente, sono diverse le agenzie formative sulle quali una società può contare, ma la più importante è la scuola, la quale, per mantenere sana e viva la democrazia, deve:

  1. sviluppare la capacità degli studenti “di vedere il mondo dal punto di vista di altre persone” (p. 61);
  2. insegnare a confrontarsi con le inadeguatezze e le fragilità umane, ossia “insegnare che la debolezza non deve essere fonte di vergogna e che avere bisogno degli altri non è mancanza di virilità” (p. 61);
  3. sviluppare la capacità “di un'autentica sensibilità verso gli altri” (p.61);
  4. contrastare la tendenza a “ritrarsi ma minoranze per qualche motivo disprezzate” (p. 61), considerate, a torto, inferiori o contaminanti;
  5. insegnare “cose autentiche sui gruppi diversi […] così da controbattere gli stereotipi e il disgusto che spesso li accompagnano” (p. 61);
  6. incoraggiare la responsabilità;
  7. promuovere con vigore “il pensiero critico, la capacità e il coraggio richiesti per far sentire una voce dissenziente” (p. 61).




Si tratta, a ben vedere, di un “programma estremamente impegnativo” (p. 61), sia in termini umani sia in termini materiali. Tuttavia, va sempre presa in considerazione la posta in gioco: il bene comune o il bene di pochi. Le democrazie vogliono mantenersi vive e salde o preferiscono abdicare in favore di altri modelli meno liberali?



L'autrice identifica nella figura di Socrate il precedente illustre che ha modellato in maniera umanistica la tradizione educativa occidentale. Detto altrimenti, è l'insegnamento socratico che viene oggi messo in questione dai vari sostenitori dell'educazione al profitto in luogo di quella centrata sullo sviluppo umano delle persone. In effetti, fu Socrate il primo a suggerire di pensare e ragionare autonomamente, senza conformarsi automaticamente alla tradizione e all'autorità. Oggi, però, la “capacità di pensare e argomentare da sé appare a molti superflua, se tutto ciò che vogliamo sono risultati di natura quantificabile in termini commerciali” (p. 65). nemmeno risulta possibile valutare la capacità socratica sulla base di test scolastici standardizzati. Al contrario, la cultura centrata sulla crescita economica “ha una propensione per i test standardizzati e non tollera pedagogia e contenuti che non siano rapidamente valutabili in quel modo” (p. 66). Risulta, infine, che le “persone sono facilmente ingannate dalla fama o dal prestigio dell'oratore, o anche da ciò che la cultura dei pari impone” (p. 68) laddove, invece, l'esame critico socratico è “radicalmente antiautoritario” (p. 68). Ne emerge appieno come il metodo socratico sia “importante per qualsiasi democrazia” (p. 71), in modo particolare per le società “che devono fare i conti con la presenza di persone diverse per etnia, casta e religione” (p. 71). Esso non è un contenuto di apprendere, o da mandare a memoria, ma lo sviluppo di un'abilità dal momento che è “una pratica sociale” (p. 72), un habitus da mandare ad effetto in qualsiasi circostanza di vita. Non a caso, infatti, tale modello educativo è stato incorporato, sia pure con differenze, anche profonde, da caso a caso, in pedagogia, da parte di Rousseau, di Pestalozzi, di Frbel. Si vedeva la possibilità di abituare i bambini ad essere persone pensanti, autonome nel cercare soluzioni ai problemi. Per questo motivo, il modello socratico viene osteggiato ai nostri giorni “perché i bambini sono sempre più indotti ad assorbire conoscenze, sempre più precocemente, spesso perdendo la possibilità di apprendere tramite la serenità del gioco” (pp. 77 – 8). Le società moderne plasmano oramai i bambini sempre più precocemente, facendo più dei consumatori che delle persone. Queste idee, comunque, si sono rivelate feconde nel tempo, giungendo anche a Dewey secondo il quale “i bambini hanno bisogno di imparare a pensare da soli e a relazionarsi all'esterno con curiosità e spirito critico” (pp. 80 – 1). Dewey visse, chiosa Nussbaum, in una fiorente democrazia e poté porre come suo obiettivo principale “la produzione di cittadini attivi, curiosi, critici e reciprocamente rispettosi” (p. 81). Idee simili vennero fatte proprie in India da Tagore. Il confronto con il sistema educativo indiano è fondamentale per la Nussbaum al fine di validare la sua ipotesi di fondo, e dalla quale muove. Infatti, questa digressione “ci ha confermato la vitalità di una certa tradizione che utilizza i valori socratici per produrre un certo tipo di cittadino: attivo, critico, curioso, capace di resistere alla pressione dell'autorità e dei pari” (p. 87). Questo è quel che è stato fatto in passato, però, non “cosa dobbiamo o possiamo fare qui e ora, nelle scuole primarie e secondarie di oggi” (p. 87). Questo è il problema che si profila all'orizzonte: quali opzioni pedagogiche assicurare? Quali opzioni assiologiche mandare ad effetto? Continuare con il buon esempio del passato o cedere alle seducenti lusinghe della logica del “profitto”? È ancora attuale, per dirla altrimenti, il modello scoratico di educazione? Per l'autrice, l'aspirazione “a rendere scoratiche le scuole primarie e secondarie non è utopistica, né richiede doti eccezionali” (p. 91). Al contrario, è “alla portata d qualsiasi comunità che rispetti l'intelligenza dei suoi giovani e le esigenze di una democrazia vitale” (p. 91). Ma non è, purtroppo, quanto sta succedendo oggi, “in tanti paesi Socrate non è mai stato di moda oppure non lo è più da tempo” (p. 91). In India, ad esempio, le scuole pubbliche sono “luoghi deprimenti dove si apprende in modo meccanico e ripetitivo, impermeabile agli insegnamenti di Tagore e dei suoi colleghi socratici” (p. 91). Negli USA la situazione è un po' differente dal momento che è ivi operante l'autorità dell'attivismo di Dewey. Tuttavia, “le cose stanno cambiando rapidamente” (p. 92). Siamo ormai prossimi al collasso del modello socratico, e, con esso, delle attuali democrazie? Per l'autrice, le “democrazie di tutto il mondo stanno sottovalutando, e di conseguenza trascurando, i saperi e le capacità di cui abbiamo disperatamente bisogno per mantenere vitale, rispettosa e responsabile la democrazia stessa” (p. 92).




Il mondo di oggi è certamente più plurale, più pluricentrato, più complesso che in passato. I problemi non sono più limitatamente locali, ma “di portata mondiale” (p. 95), non risultando più possibile risolverli senza una cooperazione transnazionale. Da un lato, l'economia globale lega i destini di “vite lontane” (p. 96), dall'altro lato, però, scuola e università hanno “un compito urgente e prioritario: devono sviluppare negli studenti la capacità di vedere se stessi come membri di una nazione eterogenea (come sono tutte le nazioni contemporanee) e di un mondo ancora più eterogeneo, e di comprendere qualcosa della storia e del carattere dei differenti gruppi che lo abitano” (p. 96). Occorre, cioè, che gli scolari “apprendano il prima possibile a relazionarsi in maniera diversa con gli altri, cioé in una maniera mediata da conoscenze corrette e da una curiosità rispettosa” (p. 97). Bisogna sviluppare una humanitas in forza della quale ciascuno di noi sia capace di comprendere sia le differenze, che rendono difficile la reciprocità, sia gli interessi condivisibili che rendono “la comprensione essenziale, se si vuole arrivare a una soluzione dei problemi comuni” (p. 97). Solo genti capaci di muoversi accortamente sul crinale della differenza e della condivisione potranno vivere rispettosamente nel mondo di oggi. L'obiettivo dell'educazione dev'essere la cittadinanza globale: uomini capaci di scorgere e comprendere sia differenze globali sia interessi comuni. Ma, e questo il problema serio che affligge le democrazie occidentali (ma non solo): la “cittadinanza globale davvero richiede studi umanistici?” (p. 108), laddove qualcuno potrebbe sostenere che sarebbe sufficiente, al contrario, “un'ampia conoscenza fattuale, concreta, che gli studenti potrebbero acquisire senza un'istruzione umanistica” (p. 108). In verità, la cittadinanza democratica richiede molto di più, “la capacità di valutare i dati storici, di utilizzare e pensare criticamente i principi economici, di riconoscere la giustizia sociale, di padroneggiare una lingua straniera, di apprezzare la complessità delle grandi religioni mondiali” (p. 108). Di per sé, infatti, la parte fattuale, pur meritoria in ordine alla conoscenza in generale, è priva di effetti cognitivi e pratici dal momento che “un elenco di fatti, senza la capacità di valutarli, e di capire come una narrazione venga organizzata in base ai dati disponibili, è deleterio quasi quanto l'ignoranza, perché l'allievo non sarà purtroppo in grado di distinguere gli stereotipi più triti, spacciati da leader e ideologici politici come verità, o le affermazioni false da quelle valide” (pp. 108 – 9). Ne emerge, quindi, come la comprensione storica ed economica del mondo “dovrà essere umanistica e critica per risultare utile alla formazione di cittadini del mondo consapevoli, e andrà raggiunta insieme allo studio delle religioni e delle teorie filosofiche della giustizia” (p. 108). Infatti, solo così tale comprensione “costituirà un utile fondamento delle discussioni pubbliche che dovremo affrontare se vorremo cooperare nella soluzione dei grandi problemi dell'umanità” (p. 109).




D'altro canto, si può anche considerare l'intero processo educativo delle giovani generazioni come il progressivo affinamento della competenza di “vedere l'altro non come una cosa, ma come una persona a tutto tondo” (p. 112), il che non è affatto un evento automatico, ma, al contrario, “un traguardo che richiede il superamento di parecchi ostacoli” (p. 112), siano essi individuali siano essi sociali. In altri termini, bisogna educare le persone ad essere persone, ad agire da persone, a pensare, ragionare e vivere da persone. La storia del pensiero pedagogico ha molto riflettuto su questo problema, elaborando nel contempo anche delle strategie e delle metodologie. Winnicott, ad esempio, ha concepito il processo educativo come l'azione del gioco simbolico il quale “insegna alle persone a vivere con gli altri senza controlli; esso collega le esperienze di vulnerabilità e sorpresa alla curiosità e allo stupore, anziché a una paralizzante apprensione” (p. 116). Mediante il gioco, le persone “maturano” nel senso che si aprono all'altro, al confronto con altri, accettano la diversità, la differenza, l'alterità intersoggettiva. Ma “giocare” richiede anche il contemporaneo sviluppo di una facoltà umana del tutto peculiare, ossia la creatività. L'enfasi posta su quest'ultima, è sintomo dell'importanza avvertita dai più di tale facoltà nel processo di sviluppo delle persone umane. Infatti, “l'attività immaginativa di esplorazione di un'altra vita interiore, anche se non è sufficiente da sola, a determinare una sana relazione morale con gli altri, ne è sicuramente un ingrediente necessario” (p. 124); essa, inoltre, possiede “l'antidoto alla paura autoconservativa che è tanto spesso legata alle pulsioni egocentriche di controllo” (p. 124), responsabili in misura rilevante di tutte le tendenze di mancato rispetto degli altri, considerati, a vario titolo, delle minacce, il più delle volte, ovviamente, solo simboliche. La coltivazione della sensibilità, della creatività, dell'immaginazione è così parte integrante del processo di sviluppo delle giovani generazioni, antidoti naturali ai nemici della democrazia. Ciò spinge Nussbaum ad asserire che “anche se il nostro unico obiettivo fosse la pura crescita economica nazionale, dovremmo difendere l'istruzione progressista basata sulle materie umanistiche e sulle arti, mentre oggi […] le materie letterarie e artistiche sono sotto attacco nelle scuole di tutto il mondo” (p. 126). Finanziare un tipo di educazione che incentivi la creatività degli alunni non è affatto costoso, come in genere si pensa e si sostiene pubblicamente, ma è addirittura poco costoso e inoltre si ripaga nel tempo dal momento che “riduce i costi poiché limita l'anomia e la perdita di tempo che in genere accompagnano la mancanza di slancio personale” (p. 133).




La situazione mondiale, però, non è allegra e va in genere in senso contrario a quanto sostenuto e delineato dalla Nussbaum. Dovremmo “raddoppiare il nostro impegno sugli aspetti dell'istruzione che mantengono vitale la democrazia” (p. 135), ma non lo facciamo. Anzi, la tendenza è quella di “tagliare”, di contrarre la spesa nel settore dell'istruzione, ai suoi vari livelli, dalla scuola d'infanzia alla formazione universitaria. Il problema è che se si vedono le materie umanistiche come non essenziali, allora “sembra naturale il loro ridimensionamento e addirittura la soppressione di certi dipartimenti” (p. 137). I tagli, anche quando non comportano la soppressione de facto di un dipartimento, ad esempio, comunque comportano la qualità del servizio erogato. Ma ciò ha un altro effetto proprio sulle materie umanistiche. Infatti, nella “misura in cui le università non conseguono gli obiettivi che io propongo, diventa molto più facile per gli esterni svalutare gli studi umanistici” (p. 137). Così, si sono contratti i finanziamenti, sino ad orientare la stessa ricerca accademica in maniera quasi pressante. Infatti, i “cultori delle materie umanistiche temono, non a torto, che il sistema di richiesta di fondi mirati, se può funzionare per i progetti scientifici, non è opportuno per quelli umanistici e anzi tende ad alterare la vocazione stessa della ricerca” (p. 143).
Ma senza le materie umanistiche, appare “molto carente in qualsiasi paese” (p. 145) l'educazione alla cittadinanza, e paradossalmente proprio a ridosso degli “anni cruciali della vita dei giovani” (p. 145), in genere i primi dodici, perché “le esigenze del mercato globale inducono tutti a considerare le conoscenze tecniche e scientifiche come le competenze chiave, mentre le lettere, la filosofia e l'arte sono sempre più percepite come inutili fronzoli da tagliare per garantire al paese (sia l'India sia gli Stati Uniti) l'auspicabile competitività” (p. 146). In questo modo, queste ultime materie vengono valutate alla stregua delle materie tecniche e scientifiche, ossia tramite “test a risposta multipla” (p. 146) mentre “le competenze critiche e inventive che ne costituiscono il nucleo sono messe da parte” (p. 146). Il caso italiano è, da questa prospettiva, illuminante e tristemente veritativo di quanto asserito dall'autrice. Infatti, stiamo progressivamente passando “da un insegnamento che cercava di promuovere la riflessione e la responsabilità individuali a un indottrinamento forzato ai fini di un buon punteggio al test” (p. 147). La Nussbaum non sostiene affatto che non sia possibile valutare gli apprendimenti per le materia umanistiche, ma solo che un sistema di valutazione buono per queste ultime, a differenza di quello per le materie tecniche e scientifiche, “sarà molto più costoso di quello standardizzato” (p. 148) oltre a richiedere “esaminatori all'altezza e di pagarli bene” (p. 148), cose che, a ben guardare, “nessuno attualmente si sogna nemmeno di ipotizzare” (p. 148).




Eppure, basterebbe fermarsi e compiere un semplice confronto con quei valori ai quali, almeno nominalmente, ci riferiamo in genere. Come sostiene, infatti, l'autrice, “Oggi possiamo ancora dire che ci piacciono la democrazia e la partecipazione politica, e ci piacciono anche la libertà di parola, il rispetto della differenza e della comprensione dell'altro. Formalmente rispettiamo questi valori, ma non pensiamo abbastanza a ciò che dovremmo fare per trasmetterli alla generazione futura e per garantirne la sopravvivenza. Distratti dall'obiettivo del benessere, chiediamo sempre più alle nostre scuole di insegnare cose utili per diventare uomini d'affari piuttosto che cittadini responsabili. Sotto la pressione del taglio dei costi, sfoltiamo proprio quelle parti dello sforzo formativo che sono essenziali per una società sana” (p. 153). La direzione che immediatamente è ipotizzabile se si persegue questo sentiero è nazioni “abitate da persone addestrate tecnicamente che non hanno imparato ad essere critiche nei confronti dell'autorità, gente capace di fare profitti ma priva di fantasia” (p. 153). Certamente, al contrario, le democrazie hanno grandi risorse di intelligenza e di immaginazione, ma sussistono alcuni rischi: “scarsa capacità di ragionamento, provincialismo, fretta, inerzia, egoismo e povertà di spirito” (p. 154). L'istruzione, volta esclusivamente al tornaconto del mercato globale, “esalta queste carenze, producendo un'ottusa grettezza e una docilità […] che minacciano la vita stessa della democrazia, e che di sicuro impediscono la creazione di una degna cultura mondiale” (p. 154). Detto altrimenti, se “non insistiamo sul valore fondamentale delle lettere e delle arti, queste saranno messe accantonate, perché non producono denaro” (p. 154), ma esse servono a qualcosa di ben più prezioso, “a costruire un mondo degno di essere vissuto, con persone che siano in grado di vedere gli altri esseri umani come persone a tutto tondo, con pensieri e sentimenti propri che meritano rispetto e considerazione, e con nazioni che siano in grado di vincere la paura e il sospetto a favore del confronto simpatetico e improntato alla ragione” (p. 154).




(immagine tratta da: http://cas.uchicago.edu/workshops/practicalphilosophy/files/2010/06/Martha-Nussbaum.jpg)







Alessandro Pizzo

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